I migliori cantautori secondo Rolling Stone | Da 24 a 1 | Rolling Stone Italia
Classifiche e Liste

I migliori cantautori secondo Rolling Stone | Da 24 a 1 | | Da 49 a 25 e tutti gli altri

Abbiamo selezionato 100 tra i migliori songwriter di tutti i tempi. Siamo arrivati alla (prevedibile) fine

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24. Elvis Costello

Dopo essere comparso sulle scene nel 1977 nelle vesti di ghignante punk rocker con le gambe divaricate ed un talento per i testi logorroici («Mi è sempre piaciuto scrivere un sacco di parole», ha detto nel 2008. «Mi piaceva l’effetto di tante immagini che si susseguono velocemente»), Elvis Costello si è evoluto in un compositore dalla sensibilità profondamente americana ed una versatilità quasi senza eguali. A seguito di una serie di primi capolavori rock come lo scottante This Year’s Model del ’78 e l’immersione nel mondo del soul del 1980, Get Happy!, Costello presentò un album di pura musica country nel 1981 con Almost Blue e giunse poi a nuove vette con le sottigliezze reminiscenti di Tin Pan Alley in Imperial Bedroom del 1982.

Le numerosissime migliori canzoni di Costello — tra queste Beyond Believe, Radio, Radio, New Lace Sleeves, Watching the Detectives, Oliver’s Army — fanno sì che tutte quelle ricchissime immagini e quegli arguti giochi di parole si susseguano con una precisione che quasi ricorda i Beatles. La sua capacità di abbracciare stili diversi portò in seguito a collaborazioni su albumi interi con Paul McCartney, Burt Bacharach, sua moglie, la cantante jazz Diane Krall, e, più recentemente, il gruppo hip-hop the Roots. «Non è facile», ha detto a told Rolling Stone nel 2004. «Per un certo periodo, avevo perso ogni speranza di poter buttare giù nuove parole. In This House Is Empty Now [dall’album Painted From Memory], mi riferivo a questa casa [indica la propria testa]».

23. Robert Johnson

Molti artisti blues hanno parlato di peccato e redenzione, Johnson ha reso la questione personale, camminando fianco a fianco con Satana in Me and the Devil Blues, riscrivendo il Libro delle Rivelazioni come un’annotazione in un diario in If I Had Possession Over Judgment Day, cercando riparo dalla tempesta in Hell Hound on My Trail e mettendo in scena la propria crocifissione in Cross Road Blues. Le sue composizioni, così come la sua maniera di suonare la chitarra, erano ad un tempo vivide e fantasmagoriche —psichedeliche circa 30 anni prima degli Acid Test — e contriburono ad indicare la strada per Bob Dylan (che si vede con in mano King of the Delta Blues sulla copertina di Bringing It All Back Home), i Rolling Stones (che realizzarono cover di Love in Vain e Stop Breaking Down) ed Eric Clapton (che eseguì cover di Ramblin’ on My Mind e Cross Road Blues ed inseguì, poi, i mastini infernali di Johnson per decadi). «Quando lo ascoltai per la prima volta, era come se cantasse soltanto per se stesso, e di tanto in tanto, forse per Dio», ha detto una volta Clapton. «È la musica più raffinata che abbia mai ascoltato. Ho sempre creduto nella sua purezza, e continuerò a farlo sempre».

22. Van Morrison

Morrison fu un cantante di gran successo prima di cominciare a scrivere canzoni e non rinunciò mai all’idea che anche i testi più intricati vadano cantati e sentiti nel profondo. Iniziò la sua carriera con l’R&B duro dei Them, a Belfast, e presto si trovò a creare un tipo di mistico rock & roll irlandese che era ispirato tanto da Yeats e Dylan quanto da Jackie Wilson e Leadbelly. Solo Van potrebbe far scorrere una formula romantica come «if I ventured in the slipstream/Between the viaducts of your dream» liscia come se fosse miele di Tupelo. Dopo essere rimasto disincantato dal pop commerciale in seguito al successo del 1967 Brown Eyed Girl, affrontò un breve periodo di isolamento e difficoltà economiche, emergendone l’anno dopo con la sua affermazione artistica più grande, Astral Weeks, dove cantava «riflessioni su miti e poesia filtrate dalla mia immaginazione» su un sottofondo meditativo che intesseva folk, jazz, blues e soul insieme. Attraverso la sua carriera — ma soprattutto in una sequenza di album che incise all’inizio degli anni ’70 tra cui Moondance del 1970 e Veedon Fleece del 1974 — Morrison ha sempre posto le radici delle sue visioni estatiche in un’intimità calda e ordinaria perfetta per la levatura scorrevole della sua musica. «Le canzoni erano in un certo senso scritti automatici», ha detto suonando Astral Weeks dal vivo nel 2008. «Con la direzione che hanno preso le mie composizioni tendo a ripetere lo stesso tipo di channelling, quindi è più come se si trattasse di ‘Astral Decades’ (‘Decadi Astrali’ NDT), direi».

21. Lou Reed

«Volevo scrivere il grande romanzo americano, ma amavo anche il rock & roll», disse Reed in un’intervista del 1987. «Volevo semplicemente ficcare in un disco tutte le cose che questa gente ignorava…. Volevo creare del rock & roll che avresti potuto continuare ad ascoltare crescendo, che non avrebbe perso nulla, che sarebbe esistito al di fuori del tempo, sia nei suoi argomenti che nello stile letterario dei testi». E così fece. Uno studente di scrittura creativa che suonava cover nei bar e che nell’epoca del Brill Building lavorò brevemente stendendo imitazioni di altre canzoni pop, Reed si ispirò sia alla letteratura (Venere in Pelliccia di Sacher-Masoch, Pasto nudo di William Burroughs) che alla propria vita — per esempio, gli altri collaboratori di Warhol che ispirarono iconici ritratti di Reed come Candy Says e Walk on the Wild Side.

Volevo scrivere il grande romanzo americano, ma amavo anche il rock & roll

Oltre a scrivere della psicologia di una sessualità polimorfa e di chi assume stupefacenti, ha scritto alcune delle più belle canzoni d’amore della storia (Pale Blue Eyes, I’ll Be Your Mirror). Reed era anche uno scienziato del suono che, con i Velvet Underground e dopo di loro, innovò l’innovabile con semplici accordi e chitarre elettriche. La sua ambizione creativa non rallentò mai: il suo ultimo progetto importante, Lulu, è una reimmaginazione dell’opera teatrale di inizio ‘900 creata con i Metallica, e come sempre, non fece prigionieri.

20. Jerry Leiber e Mike Stoller

Leiber e Stoller sono il primo grande duo di compositori del rock & roll, due ragazzini ebrei che fecero dell’amore per il rhythm and blues una sequela di successi caratterizzati dalla creatività musicale e dall’audacia dei testi. Leiber, cresciuto a Baltimora, e Stoller, che era di Long Island, si incontrarono a Los Angeles nel 1950. Con Leiber a scrivere i testi e Stoller ad occuparsi della musica, scrissero successi pop da Top 10 per Elvis Presley (Jailhouse Rock), i Coasters (Yakety Yak), Wilbert Harrison (Kansas City), i Drifters (On Broadway) e Dion (Ruby Baby).

Le loro canzoni, argutamente comiche, raccontavano storie e mischiavano con abilità groove R&B e testi acuti, spesso sovversivi: Riot in Cell Block #9, una hit R&B piazzatasi al primo posto nel 1954 con l’esecuzione dei Robins, trattava di una rivolta in carcere, mentre Poison Ivy dei Coasters, che ha scalato le classifiche nel 1959, era un riferimento alle malattie sessualmente trasmissibili. Le canzoni del duo di solito emergevano da sessioni di stesura improvvisate che iniziavano appena con una manciata di versi di Leiber. «Spesso avevo un inizio, due o quattro versi», ha detto Leiber allo scrittore Robert Palmer nel 1978. «Mike ed io ci sedevamo al piano e cominciavamo ad improvvisare, suonando, scherzando, ed io me ne uscivo con un verso. E lui adattava il verso — dal punto di vista della metrica e del ritmo». Oltre ad ottenere un grande successo nelle classifiche di più generi negli USA, la loro produzione fu anche una grossa influenza sulla British Invasion: i Beatles, i Rolling Stones, gli Hollies ed i Searchers furono solo alcune delle band che incisero le loro canzoni.

19. Ellie Greenwich e Jeff Barry

La squadra Greenwich/Barry durò solo pochi anni. Si sposarono e iniziarono a comporre canzoni nel Brill Building nel 1962, e si separarono nel 1965. Ma le dozzine di hit che scrissero per gruppi al femminile e per gli idoli degli adolescenti durante quel periodo (spesso con l’input del produttore Phil Spector) erano quanto di più vicino al puro fervore erotico si potesse sentire per radio all’epoca: Then He Kissed Me delle Crystals, Leader of the Pack delle Shangri-Las, e — verso la fine della loro partnership — River Deep – Mountain High di Ike e Tina Turner. Persino le lor o demo erano così complete che alcune di esse si piazzarono in classifica sotto il nome dei Raindrops. «Quando le cose funzionano, ed il legame è forte, cosa può esserci di meglio?», ha ricordato Greenwich. «C’è la persona che ami, e state facendo un lavoro creativo insieme, e le cose vanno bene — è il piacere più intenso che si possa immaginare. Tuttavia, quando c’erano disaccordi, era molto difficile relegarli all’ufficio e tornare a casa ed interpretare un ruolo diverso: ‘Ciao tesoro, cosa vorresti per cena?» Dopo la separazione, Barry ha continuato a scrivere canzoni per artisti tra cui gli Archies ed Olivia Newton–John; Greenwich ha sviluppato Leader of the Pack, un musical sulla propria carriera.

18. Prince

I talenti di Prince come suonatore di più strumenti, produttore, arrangiatore, bandleader e forza trascinante nei live non hanno eguali. Ma tutto parte dalle sue canzoni, che trasformano funk, soul, pop e rock in un sound tutto suo. Nella sua carriera 40 dei suoi singoli si sono classificati nella Top 40, tra questi cinque al primo posto. Dal punto di vista dei testi, tende ad insistere su un solo, bislacco argomento. Ma nessun compositore ha esplorato il sesso in una maniera così ingegnosa —dal flirtare giocoso di Little Red Corvette e U Got the Look alle più ambiziose sedute terapeutiche di When Doves Cry e If I Was Your Girlfriend.

Sento una melodia nella testa, ed è come se fosse il primo colore in un dipinto

Musicalmente, la sua varietà stilistica sembra senza limiti: imparò presto ad intrecciare una potente improvvisazione funk con un indimenticabile hook pop, poi imparò a padroneggiare ogni tipo di canzone rock — da pezzi stupefacenti costruiti su tre accordi (Let’s Go Crazy) a vere e proprie power ballad (Purple Rain) — prima di introdurre complessità melodiche ed armoniche che spingevano le sue composizioni, sempre più jazz e sperimentali, oltre i confini ordinari del pop. «Conosceva l’equilibrio tra innovazione ed il sistema digestivo degli americani», ha detto Questlove del suo idolo.

«È l’unico artista che sia riuscito, in pratica, ad imboccare a dei neonati i cibi più elaborati che non avresti mai somministrato ad un bambino e sapeva esattamente come spezzettare le porzioni in modo che potessero digerirlo». I commenti dello stesso Prince sulla sua arte hanno toni ancora più impressionisti. «A volte sento una melodia nella mia mente, ed è come se fosse il primo colore in un dipinto», disse in un’intervista del 1998. «E poi si costruisce il resto della canzone con l’aggiunta di altri suoni».

17. Neil Young

L’epica carriera di Neil Young ha virato senza limiti dal folk-rock alla musica country all’hard rock al pop New Wave a base di sintetizzatore al rockabilly al bar-band blues. «Neil non svolta gli angoli», ha detto una volta Frank “Poncho” Sampedro, chitarrista dei Crazy Horse. «Ci rimbalza contro». E nonostante abbia deluso diversi componenti della band e fan con le sue scelte artistiche talvolta questionabili, le sue canzoni sono sempre puramente Neil. Le ballate acustiche di Young, amabili nel loro scricchiolio, ed i suoi rockers torrenziali si ispirano agli stessi temi senza età: i miti e le realtà della comunità e della libertà americana, la lotta dura dell’individuo contro schiaccianti forze politiche e sociali, mortalità e violenza, sogni cromati, glorie ormai passate e malinconie rivoluzionarie. Young ha rilasciato la straordinaria quantità di 36 album da solista, cinque negli ultimi due anni. I suoi lavori migliori (Ambulance Blues, Powderfinger, After the Goldrush) saranno anche nati negli anni ’60 e ’70, ma ogni singolo album porta con se più di una manciata di momenti incredibili. Canzoni come il classico soft-rock del 1970 Heart of Gold, il suo unico singolo ad essersi classificato al primo posto, hanno creato un’immagine dell’instancabile leggenda sessantanovenne come di un trovatore solitario, ma Young insiste che si tratta di una definizione ingannevole. «Una cosa sulle mie canzoni, tutti pensano che sia un tipo un po’ deprimente», ha detto nel 1995 in occasione della sua induzione nel Rock and Roll Hall of Fame. «Ma le cose mi vanno bene da un bel pezzo. Quindi se sembro un po’ triste, è una cazzata. Sto bene».

16. Leonard Cohen

Leonard Cohen era una cupa eminenza canadese nel pantheon di cantautori emersi negli anni ’60. La sua tormentosa voce da basso, i pattern alla chitarra con le corde di nylon, e l’accompagnamento vocale da coro greco portavano a segno versi che incantavano su amore ed odio, sesso e spiritualità, guerra e pace, estasi e depressione, ed altre dualità eterne. Un perfezionista che notoriamente passava anni su un pezzo, il talento di Cohen per i dettagli infuse luce a Suzanne e Hallelujah, oggetto di molte cover.

Essere un compositore è come essere una suora

«Essere un compositore è come essere una suora», Rolling Stone ha riportato queste sue parole del 2014. «Sei sposato con un mistero. Non è un mistero particolarmente generoso, e tuttavia altre persone vivono quest’esperienza con il matrimonio».

Nel 1995, Cohen parve respingere la secolarità riflessa in canzoni come The Future e Democracy mettendo in pausa la sua carriera e prendendo i voti per diventare monaco buddista. Tuttavia ha rilanciato la sua carriera a 74 anni ed ha continuato a fare tour per il mondo e a produrre album dalla luce sensuale nella prima decade degli anni 2000. Ad 82 anni, è ancora il nostro poeta notturno più amato.

15. Eddie Holland, Lamont Dozier e Brian Holland

Nell’età dell’oro che la Motown visse a metà anni ’60, Brian e Eddie Holland e Lamont Dozier erano il team di compositori e produttori più quotato dell’etichetta. Tutti e tre iniziarono le loro carriere come cantanti, ma quando cominciarono a lavorare dietro le scene insieme, fecero faville. Solo nel 1966 Holland-Dozier-Holland scrissero e produssero 13 singoli R&B classificatisi nella Top 10, da “You Keep Me Hangin’ On” delle Supremes a “I’ll Be There” dei Four Tops. I testi, ingannevolmente semplici, di Eddie — scritti sulle note dei pezzi completati di Brian e Lamont — si concentravano spesso sull’amore dolceamaro e tormentato (“Ho preso molte idee da quel che ho imparato parlando alle donne,” disse). Ma la musica era una delizia pura: melodie che davano ai cantanti la possibilità di scatenarsi e muoversi con grazia attraverso di loro, ricamati alla perfezione in una gamma di hook strumentali e potenti dance rhythm. A fine anni ’60, Dozier ed i fratelli Holland lasciarono la Motown e lanciarono alcune etichette discografiche in proprio; sebbene molte delle hit che seguirono per artisti come Freda Payne e le Honey Cone furono attribuite a “Edythe Wayne,” era impossibile non riconoscere lo stile H-D-H.

14. Bruce Springsteen

Fu uno dei primi eredi del rock, e certamente il più grande, perché dal principio vide il rock & roll come più che musica. «Ricevetti un’ispirazione da paura ed una direzione dagli artisti che l’avevano immaginato prima di me», ha detto una volta a Rolling Stone. «Erano ricercatori — Hank Williams, Frank Sinatra, James Brown. Le persone che adoravo — Woody Guthrie, Dylan — erano alla frontiera dell’immaginazione americana, e stavano cambiando il corso della storia e le nostre idee su chi fossimo».

All’inizio, bilanciava l’epica — le nuvole di parole reminescenti di Dylan di Blinded by the Light, il Wall of Sound spazzato in Jungleland — con i racconti di battaglie solidamente strutturati che portavano risultati ancora più grandi, come Thunder Road e Born to Run. Canzoni come Badlands potevano trarre un inno stimolante da una crisi esistenziale, e mentre metteva a fuoco sound e narrativa propri, la sua musica continuava ad acquisire potere e l’immenso pubblico che sapeva che aveva sempre meritato: Born in the U.S.A. portò con sé sette singoli da Top 10 — tanti quanto quelli tratti da Thriller di Michael Jackson. Senza temere il rischio, a ciò Springsteen fece seguire un lungo periodo di ridefinizione, rendendo il suo sound e le sue storie ancora più intime in Tunnel of Love del 1987 e poi in The Ghost of Tom Joad del 1996. Dalla riunione con la E Street Band nel 1999 ha cominciato a riconnettersi alle ispirazioni e agli obiettivi degli albori. «Le mie canzoni trattano tutte dell’identità americana e di quella di ciascuno», ha spiegato una volta. «E dei tentativi di tenersi stretti quello che conta, di ciò che rende [l’America] un posto che è speciale, perché credo ancora che lo sia».

13. Hank Williams

Dopo più di sei decadi dalla sua morte a 29 anni in un incidente automobilistico il primo dell’anno del 1953, Hank Williams è ancora l’artista country più riverito di tutti i tempi, ed il suo impatto sulla storia del rock & roll è ugualmente assoluto. «Per me, Hank Williams è ancora il miglior compositore», disse Bob Dylan nel 1991. Tra il 1947 ed il 1953, Williams piazzò 31 canzoni nella U.S. Country Top Ten, più altre cinque che raggiunsero la Top Ten nell’anno che seguì la sua morte prematura. Le sue canzoni variavano da pezzi festaioli del venerdì sera come Hey Good Lookin‘ e Settin’ the Woods on Fire a racconti di angosce romantiche come I’m So Lonesome I Could Cry all’inno di redenzione I Saw the Light alle raffigurazioni strazianti di timore ed isolamento come Lost Highway e I’ll Never Get Out of This World Alive, l’ultimo singolo rilasciato mentre era in vita. Quale che fosse l’atmosfera che voleva trasmettere, Williams scrisse con un’economia ed una concisione che pochi compositori in tutti i generi hanno sfiorato.

«Se una canzone non può essere scritta in 20 minuti, non vale la pena di scriverla», disse una volta, riassumendo l’eloquenza priva di fronzoli che rende le sue canzoni così divertenti e facili da coverare. «Canzoni come ‘Lonesome Whistle’ e ‘Your Cheatin’ Heart’ sono fantastiche da cantare perché sono prive di stronzate», ha detto Beck. «Le parole, le melodie ed il sentimento sono tutti lì, chiari e veri. Ci vogliono parsimonia e semplicità per descrivere un’idea o un’emozione in una canzone, e non ce n’è esempio migliore di Hank Williams»

12. Brian Wilson

Il genio dei Beach Boys scrisse inni californiani di un’estasi gloriosa come “Fun Fun Fun,” “I Get Around” e “California Girls,” le più grandi odi del rock & roll alla libertà che si assapora in estate. Ma fu anche autore di capolavori cupamente introspettivi come “In My Room” e “God Only Knows,” ed anche di innovativi capolavori sinfonici come Pet Sounds del 1966, che trasformò l’idea stessa di fare album rock ed ispirò il capolavoro dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Più tardi Wilson attribuì la colpa per le sue composizioni più fosche a suo padre e agli altri membri della band. “Volevano surf music, surf music, surf music,” ha detto nel 2011. “La tristezza venne. . .dal mio cuore.” Anni dopo, una diagnosi di disordine schizoaffettivo bipolare aiutò a spiegare gli sbalzi d’umore, gli anni di isolamento ed il rapporto bizzarro con il terapeuta-manager Eugene Landy. Con il completamento nel 2004 dell’opera iniziata a fine anni ’60, Smile, Wilson riemerse per reclamare il suo titolo di eminenza del pop di nuovo in grado di scrivere con una profondità ed una bellezza incredibili. Tuttavia, a scapito delle vette toccate dalla sua musica, ad una prima occhiata il metodo compositivo di Wilson è semplice. “Mi siedo al piano e suono accordi,” ha detto all’American Songwriter. “E poi una melodia comincia a nascere, e poi inizia a nascere il testo, ed ecco che hai una canzone.”

11. Bob Marley

Marley non ha semplicemente introdotto il reggae ad un pubblico americano, ha aiutato a trasformarlo da un medium che produceva quasi esclusivamente singoli ad una forza sociale e musicale tanto potente quanto il migliore rock & roll. Marley sorbì molto dalla musica soul americana; visse per un breve periodo nel Delaware a fine anni ’60, dove lavorò in una fabbrica. Nelle prime composizioni come il pezzo ska Simmer Down che riempiva le piste da ballo e la melodiosa gemma pop Stand Alone mostrò una padronanza totale di melodie dolci e hook costruiti brillantemente che dimostravano che avrebbe potuto facilmente ottenere, tra l’altro, un posto nella catena di montaggio di Berry Gordy. Mentre Marley seguitava a cercare la sua voce nei primi anni ’70, le sue canzoni acquisirono un’ampiezza ed una potenza senza pari, soprattutto quando iniziò a sfruttare le sue abilità come creatore di inni per testi che portavano la bandiera della lotta del Terzo Mondo contro l’oppressione sistematica. A proposito della sua pietra miliare del 1972 Get Up, Stand Up, ha detto, «Mi sto dando da fare perché vedo lo sfruttamento».

Marley scrisse gentili invocazioni al risollevamento spirituale ed erbaceo (Lively Up Yourself, Stir It Up), fini, sensuali canzoni d’amore (Waiting in Vain, Is This Love) ed incandescenti affermazioni di illuminazione Rasta ed unità panafriacana (ExodusZimbabwe). Con Redemption Song, rilasciata un anno prima che soccombesse al cancro nel 1981, ci ha dato un inno di protesta che ancora porta il potere universale di una chiamata alle armi globale. «Ho portato Redemption Song ad ogni incontro che abbia mai avuto con un politico, un primo ministro o un presidente», ha detto Bono. «Per me era un’espressione profetica».

10. Stevie Wonder

«Sento che c’è davvero tanto che può essere detto attraverso la musica», Wonder osservò una volta, e le canzoni che scrive da mezzo secolo sono state tutte fedeli a quell’idea. Che si immerga in critiche sociali (Higher Ground, Living for the City), nel sentimentalismo sfacciato (You Are the Sunshine of My Life, I Just Called to Say I Love You), nell’amore euforico (Signed, Sealed, Delivered I’m Yours) o in aspri insulti (You Haven’t Done Nothin), Wonder ha consistentemente attinto con successo alla somma delle emozioni e delle vicende umane. Negli anni ’60 scriveva già canzoni alla Motown come bambino prodigio (incluso il successo del 1966 Uptight (It’s Alright).

Mentre raggiungeva la maturità artistica con album come Talking Book del 1972 e Innervisions del 1973, usava lo studio di registrazione come una tavolozza con cui creare innovative opere basate su una sentita scoperta di sé. «Come un pittore, traggo la mia ispirazione da esperienze che possono essere dolorose o belle», ha detto.

«Comincio sempre da un sentimento di profonda gratitudine — sai, ‘Sono qui soltanto per grazia di Dio’— e da lì scrivo. La maggior parte dei compositori è ispirata da una voce ed uno spirito interiori». In combinazione con melodie che possono essere gioiose, stravaganti o semplicemente stupende, le canzoni di Wonder sono così durature da essere state coverate da tutti da Sinatra ai Backstreet Boys.

9. Joni Mitchell

Mitchell è il prodotto della cultura folk nata nei cafe degli anni ’60, e divenne la star portabandiera del mondo di Laurel Canyon, quartiere di Los Angeles. Ma la sua instancabile brillantezza non poteva essere limitata ad un solo momento storico o movimento. Iniziò con canzoni che paiono semplici solo a confronto con i suoi standard successivi: Clouds, Both Sides Now Big Yellow Taxi. Ma in seguito, scatenandosi alla chitarra acustica in modi sorprendenti o suonando melodie moderniste al piano, dispiegava versi decisamente personali che andavano oltre uno stile compositivo “introspettivo” puntando ad un’intimità e ad un’onestà quasi aggressive.

«Quando mi accorsi della popolarità che stavo raggiungendo, fu immediatamente prima di Blue», ha rammentato, a proposito del suo capolavoro del 1971. «Ho pensato, ‘Oddio, un sacco di gente mi sta ascoltando. Beh farebbero meglio a capire chi è che stanno osannando allora. Vediamo se riescono a reggere la verità. Diamoci dentro.’ Così scrissi Blue, che fece orrore a parecchie persone, sai». Tutta la serie di album di Mitchell da Ladies of the Canyon del 1970 a Court and Spark del 1974, in cui perfezionò uno studio pop dai toni jazz, rivaleggia qualsiasi successione di incisioni nella storia pop, e le descrizioni nei suoi testi dell’estasi e dei dolori che derivavano dall’essere una donna che aveva fatto propria la libertà sessuale degli anni ’60 e ’70 offrono un diario di viaggio dell’epoca unico. «Ero priva di difese personali», ha detto riguardo alle sue creazioni di allora. «Mi sentivo come l’involucro di cellofan intorno ad un pacchetto di sigarette».

8. Paul Simon

Se la carriera di Paul Simon fosse terminata con lo scioglimento di Simon & Garfunkel nel 1970, avrebbe comunque prodotto alcune delle canzoni più amate – tra cui The Sound of Silence, Mrs. Robinson, Bridge Over Troubled Water. Ma Simon aveva appena iniziato. La quintessenza del compositore newyorkese, alterna stili senza difficoltà con la stessa attenzione per ritmo e melodia, una qualità rara tra gli artisti che raggiunsero la maturità nell’era del folk. Con il passare del tempo, la sua musica ha incorporato lo stile di Tin Pan Alley, sfumature globali, dolci fantasie acustiche, gospel, musica R&B ed elettronica, tutto senza diluire il suo appeal principale di confortante narratore di alienazioni quotidiane. Che operi su larga scala sintetizzando quegli impegni nazionali che condividiamo in American Tune del 1973, o che scriva una raffinata riflessione personale sull’amore perduto come Graceland del 1986, traspaiono lo stesso acume e la stessa minuziosità letteraria. Per la generazione maturata negli anni ’60 e ’70, rivaleggiava Bob Dylan nella creazione di uno specchio del loro percorso dall’innocenza della gioventù all’intricatezza dell’età adulta. «Una delle mie mancanze è che la mia voce suona sincera», ha detto Simon a Rolling Stone nel 2012. «Ho provato ad usare un tono ironico. Non ci riesco. Non ne sono capace. Dylan, tutto quello che canta ha due significati. Ti dice la verità e contemporaneamente ti prende in giro. Io sembro sempre sincero».

7. Carole King/Carole King e Gerry Goffin

Goffin e King furono il duo di compositori più prolifico del pop – e, cosa ancora più impressionante, continuarono a riscuotere successi anche dopo la fine del loro matrimonio. Con King che si occupava delle melodie e Goffin dei testi, i due ex compagni di studi del Queens College lavoravano ad un isolato di distanza dal Brill Building e scrissero molte delle canzoni più evocative ad opera di compositori professionisti: pezzi come “Up on the Roof,” “Will You Love Me Tomorrow,” e “One Fine Day” che erano tenere istantanee dei vissuti adolescenziali. “Quando Paul ed io cominciammo a lavorare insieme, all’inizio, volevano essere i Goffin e King inglesi,” disse una volta John Lennon. Lavorando per conto proprio dopo il divorzio, King diede voce ad una generazione di di donne che stavano affermando le proprie vite e le proprie identità negli anni ’70; il suo capolavoro del 1971, Tapestry, resta uno degli album più venduti. Goffin, intanto, fornì i testi per una sequela di hit come “Theme From Mahogany (Do You Know Where You’re Going To)” di Diana Ross, “Saving All My Love for You” di Whitney Houston, e “I’ve Got to Use My Imagination” di Gladys Knight and the Pips. Per loro non c’è nulla di volgare nell’arte della musica pop, invece è tutto molto serio. “Quando inizio a creare una canzone, anche se la motivazione è economica, cerco comunque di scrivere la canzone migliore [che posso] e di far commuovere le persone in un modo che le tocchi dentro,” King ha affermato. “Le persone si accorgono di quando lo fai. Sanno che c’è un legame emotivo, anche se è commerciale.”

6. Mick Jagger e Keith Richards

Mick Jagger e Keith Richards definirono le componenti essenziali di una canzone rock – arguzia mordace, riff indimenticabili, ritornelli esplosivi – e stabilirono uno schema da seguire per i rocker che sarebbero venuti. La loro opera era insieme primordiale e complessa, carica di conflitto, desiderio e rabbia, senza censurarsi a riguardo né musicalmente né nei testi. Stesero manifesti personali dallo spessore politico come (I Can’t Get No) Satisfaction e Get Off My Cloud; meditavano sul tumulto degli anni ’60 attraverso Gimme Shelter e Jumpin’ Jack Flash; descrissero nel dettaglio il legame tra i mali della società e l’individuo (e lo tramutarono in rock) con Brown Sugar e Sympathy for the Devil. E talvolta – Start Me Up, Rip This Joint – si limitavano a sfondare le porte e dare fuoco alla casa.

Una delle numerosissime cose su cui Mick Jagger e Keith Richards non sono stati d’accordo negli anni è come sia iniziata la loro partnership creativa. Keith ha affermato con determinazione che il manager Andrew Loog Oldham li avesse rinchiusi in una cucina fino a che non ne riemersero con As Tears Go By, mentre Jagger dice che la pressione fu puramente verbale: «Mentalmente ci rinchiuse in una stanza, ma non ci mise letteralmente sotto chiave». Come Lennon/McCartney, Jagger e Richards non componevano sempre insieme – Happy era tutta di Keith, mentre Brown Sugar tutta di Mick. Ma entrambi lavorarono sulla maggior parte delle hit degli Stones. «Credo sia essenziale», Jagger ha detto una volta a Rolling Stone riguardo al concetto di partnership. «Alle persone… piacciono le partnership perché possono identificarsi con le difficoltà di due persone che ne fanno parte. Ne traggono energia, e questo intrattiene le persone. Inoltre, se sei in una partnership che funziona, si regge da sola».

5. Smokey Robinson

«Ai nostri occhi Smokey Robinson era un dio», disse una volta Paul McCartney. Il genio musicale e letterario dietro le hit più grandi della Motowon è il compositore R&B più innovativo di tutti i tempi. Robinson era un cantante elegante e delicato ed uno scrittore poetico le cui canzoni apportarono nuovo spessore alla classifica delle Top 40.

Figlio di un camionista cresciuto in quella che lui definiva “la parte garbata dei bassifondi,” Robinson ebbe il suo primo successo nel 1960 con Shop Around dei Miracles e proseguì scrivendo My Girl e Get Ready dei Temptations, My Guy di Mary Wells, Don’t Mess With Bill delle Marvellettes, Ain’t That Peculiar di Marvin Gaye e molti altri. Con i Miracles, fu dietro a più di una dozzina di hit piazzatesi nella Top 20 (incluse “The Tracks of My Tears” e “I Second That Emotion”), canzoni che descrivono le pene d’amore con espressioni sorprendenti: “Sweetness was only heartache’s camouflage/The love I saw in you was just a mirage,” scrisse in rima nel 1967.

Sebbene la famosa citazione di Bob Dylan in cui chiamava Smokey “il più grande poeta vivente” potrebbe essere in realtà apocrifa, tutti vi hanno creduto per decadi perché le canzoni la rendevano perfettamente credibile. «Il mio concetto di composizione è quello di scrivere una canzone che contenga un’idea completa e racconti una storia nel tempo designato per una registrazione», disse a Rolling Stone nel 1968. «Deve essere qualcosa che abbia un significato vero, non una semplice manciata di parole sovrapposte alla musica».

4. Chuck Berry

Fu il primo cantautore del rock & roll, ed anche il primo virtuoso della chitarra nel genere. Berry era un fan di Muddy Waters che realizzò il potere delle proprie “canzoni su cose nuove e sensazioni di gioia e divertimento” che superavano i confini tra generi in fretta quando trasformò una canzone country, Ida Red, nel suo primo singolo, Maybellene, una hit pop da Top Five.

Le sue canzoni erano coincise e dai toni mitici, celebrando libertà tipicamente americane – auto veloci in Maybellene, la fluidità delle strutture di classe in No Money Down, il paese stesso in Back in the U.S.A. – o protestandone la negazione in ermetiche parabole razziali come Brown Eyed Handsome Man e Promised Land, che scrisse in carcere ispirato dalle marce per i diritti degli afroamericani, consultando un almanacco per il percorso. Bob Dylan basò la metrica di Subterranean Homesick Blues su Too Much Monkey Business, Mick Jagger e Keith Richards assorbirono il concetto di (I Can’t Get No) Satisfaction da 30 Days, e John Lennon sintetizzò una volta il suo impatto incommensurabile dicendo, «Se si desse un altro nome al rock & roll, lo si potrebbe chiamare Chuck Berry».

3. John Lennon

La padronanza di John Lennon per la composizione era a un tempo assoluta e radicalmente originale: fu chiaro dalle sue primissime collaborazioni con Paul McCartney, che rivoluzionarono non solo la musica, ma il mondo. «Facevano quello che nessun altro stava facendo», Bob Dylan ricordò una volta un viaggio in auto per il Colorado quando i Beatles dominavano le frequenze radio. «Sapevo che stavano indicando la strada che avrebbe dovuto prendere la musica». Ciò significava innanzitutto riconnettere la musica pop alla potenza straordinaria del rock & roll degli inizi – Elvis Presley, Chuck Berry, Buddy Holly e Little Richard – per poi andare oltre con una musica più cupa e personale come Hard Day’s Night e In My Life che forzava i limiti delle capacità del pop, e tuffarsi successivamente nell’avanguardismo con musica che era esistita soltanto nei suoi sogni: Strawberry Fields Forever, A Day in the Life, Revolution #9.

Nessuno ha reso meglio la complessità di vicende personali o della politica globale, o le ha connesse in modo migliore, d quanto abbia fatto Lennon nella sua carriera da solista con canzoni universali come Watching the Wheels e Imagine. «Mi interessa [creare] qualcosa che abbia un significato per tutti», ha detto a Rolling Stone nel 1970, «non solo per una manciata di ragazzini che vogliono un sottofondo musicale».

2. Paul McCartney

«Ammiro McCartney», ha detto Bob Dylan a Rolling Stone nel 2007. «È l’unico che ammiro». Sir Paul è il più grande melodista del pop, con un canzoniere rigonfio che include tanti dei pezzi più eseguiti ed amati dell’ultimo mezzo secolo. Il range di McCartney è sempre andato ben oltre frivole canzoni d’amore. È il tipo strambo dietro Temporary Secretary ed il feroce basher dietro Helter Skelter.

Ma parte del suo contributo ai Beatles fu la sua passione per l’arguzia e la complessità delle composizioni anteriori alla nascita del rock, da Fats Waller a Peggy Lee. «Persino all’inizio eravamo soliti comporre ciascuno per conto proprio, perché Paul era sempre più avanti di me», disse una volta John Lennon. Canzoni come Yesterday e Let It Be divennero standard contemporanei, e dopo i Beatles, McCartney diede ai Wings sei hit piazzatesi al primo posto, tra cui a Band on the Run e Listen to What the Man Said. «La verità è che il problema è sempre stato lo stesso, davvero», ha detto all’inizio del 2015. «Se ci rifletti, quando scrivi una canzone, cerchi sempre di scrivere qualcosa che ami e che le persone ameranno».

1. Bob Dylan

La visione della musica popolare americana di Dylan fu trasformativa. Nessuno ha mai alzato tanto gli standard, o ha avuto un impatto più grande. «Vuoi scrivere canzoni che superino qualsiasi altra cosa», ha scritto nelle sue memorie, Chronicles.
«Vuoi parlare delle cose strane che ti sono accadute, delle cose strana che hai visto». Dylan stesso non vedeva alcuna differenza tra i tempi moderni e il passato delle leggende – studiare la Guerra Civile lo aiutò a capire gli anni ’60 – che gli permise di rielaborare ballate folk tramandate di generazione in generazione in canzoni che elettrizzavano il presente e divenivano contemporaneamente pietre miliari che sarebbero durate nel tempo.

Una canzone è come un sogno, e cerchi di trasformarla in realtà

Alcune delle sue prime canzoni come Blowin’ in the Wind divennero hit di altri – Peter, Paul & Mary la portarono al secondo posto della Billboard Hot 100 nel 1963; Stevie Wonder al nono due anni dopo – e diedero nuova forma alle ambizioni di tutti dai Beatles a Johnny Cash. Dylan cominciò poi a scalare le classifiche con la propria musica che trasformò il pop in profezia: Subterranean Homesick Blues, Like a Rolling Stone, Positively Fourth Street, Rainy Day Women #12 & 35. Le sue maschere mutavano, ma canzoni come Tangled Up in Blue, Knockin’ on Heaven’s Door e Forever Young continuarono a definire le rispettive epoche in modo duraturo. E, unico tra i suoi colleghi, la creatività di Dylan non si esauriva mai – Love and Theft del 2001 lo riportò ad un sound mordace che rivaleggiava quello della sua gioventù elettrica, segnando una rinascenza che continua ininterrotta. «Una canzone è come un sogno, e cerchi di trasformarla in realtà», scrisse Dylan. «Sono come strani paesi in cui devi entrare». E così noi facciamo, meravigliandoci dinnanzi ai panorami, volta dopo volta.