I 50 migliori dischi internazionali del decennio | Rolling Stone Italia
Classifiche e Liste

I 50 migliori dischi internazionali del decennio

Il Pulitzer di Kendrick Lamar, la santificazione di Kanye, l'incoronazione di Beyoncé, il gran ritorno dei Daft Punk, gli addii di David Bowie e Leonard Cohen, la rivelazione di Frank Ocean: ecco i dischi più belli degli anni '10

I 50 migliori dischi internazionali del decennio

Artwork di Stefania Magli

Ci siamo, gli anni ’10 stanno per chiudersi e, guardandoci alle spalle, la musica internazionale in questo decennio ha per certi versi rispecchiato la società da cui è stata generata. Nel 2009 il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti, Barack Obama, entrava alla Casa Bianca inaugurando un decennio in cui i temi sociali sarebbero tornati a invadere l’arte, musica compresa. Le regine del pop riabbracciavano le sonorità soul e r&b, gli astri nascenti e i messia dell’hip hop diventavano la voce di un’America finalmente ascoltata, mentre i rapper venivano invitati alla Casa Bianca per parlare di #BlackLivesMatter o ricevevano il Pulitzer.

Nel frattempo, mentre la black music si affermava indiscutibilmente quale protagonista del decennio, la definitiva globalizzazione dello streaming contribuiva all’ascesa di suoni prima relegati alle collezioni di vinili, dall’elettronica al jazz, generi che hanno contagiato la produzione degli ultimi dieci anni. Risultato: una fluidità di generi impensabile fino a qualche anno fa. Mentre il decennio sta per tramontare e già si intravedono le tendenze future, riascoltiamo il meglio prodotto dalla scena internazionale negli ultimi dieci anni.

50. “Sweetener” di Ariana Grande (2018)

È il disco arrivato dopo l’attentato di Manchester, in cui Ariana Grande ha trovato la sua vera voce, lasciando alle spalle lavori in cui sembrava cercasse disperatamente una posto tra le popstar ‘tradizionali’. I primi singoli, No Tears Left To Cry e God Is A Woman, probabilmente il pezzo migliore del disco, lo dimostrano. (Filippo Ferrari)

49. “Lost in the Dream” di The War On Drugs (2014)

Analizzando il decennio dei War on Drugs, viene quasi da pensare che siano un po’ sottovalutati. Tutti e quattro i dischi che hanno pubblicato sono molto coerenti, fanno il loro lavoro senza passi falsi e portano sempre a casa la pagnotta. Di sicuro tra questi Lost in the Dream è stato l’apice, la sintesi migliore tra folk un po’ cosmico, chitarre riverberate e tremolanti e batterie incalzanti che in fin dei conti non sono niente di nuovo, eppure mantengono intatta la loro freschezza. Uno dei dischi migliori da ascoltare d’estate, magari in autostrada, di ritorno dal mare, col tramonto infuocato all’orizzonte. (Edoardo Vitale)

48. “Your Queen Is a Reptile” di Sons of Kemet (2018)

«Non ci interessa fare solo dischi, vogliamo creare e avere uno spirito critico su tutto quello che ci circonda, non solo sui nostri strumenti», ha detto Shabaka Hutchings di Your Queen Is a Reptile, il primo album per Impulse del progetto Sons of Kemet che ha messo la new wave del jazz londinese sulla bocca di tutti. Scritto per approfondire «la contraddizione tra l’essere un cittadino britannico e avere origini caraibiche», l’album è dedicato ad alcune donne leggendarie – regine alternative, appunto – che hanno influenzato Hutchings e la sua comunità. Allo stesso tempo, Your Queen Is a Reptile è un disco di jazz tribale, potente, liberatorio, in cui il sax di Hutchings si muove libero sugli arrangiamenti costruiti dai due batteristi (Tom Skinner e Eddie Hick) e dalla tuba di Theon Cross. (Andrea Coclite)

47. “1989” di Taylor Swift (2014)

Addio Nashville, viva New York. Con questo album la fidanzata d’America si è lasciata definitivamente alle spalle la tradizione country per sparare una serie di singoli synth pop dal sapore 80s. Bersaglio di critiche di ogni sorta, attenta come pochi altri colleghi a proteggere la propria vita privata, Taylor Swift ha dedicato ai suoi hater la canzone più divertente dell’album: Shake It Off, ovviamente un epico trionfo. (Michele Bisceglia)

46. “Coloring Book” di Chance The Rapper (2016)

“Kanye’s best prodigy, he ain’t signed me but he proud of me, I got some ideas that you gotta see”. Coloring Book è il lavoro con cui Chance prende il volo dalle ali protettive di Kanye (che qui è presente in All We Got, l’opening track), introducendoci a un nuovo rap fondato su spiritualità e cristianesimo, ripulito dai cliché street a cui il rap US ci ha abituati. Chance è il volto di questa nuova wave positiva e solare che sfocia in brani presobenisti come All Night (prodotto da Kaytranada) o in ballad dolcissime come Same Drugs, Blessings e Blessing (Reprise). A colorare il libro, il gotha della musica statunitense, da Kanye a Bieber. Un nuovo modo di intendere il rap, nonché la causa della tanto discussa nuova coscienza della spiritualità di Kanye. (Mattia Barro)

45. “This Is Happening” di LCD Soundsystem (2010)

James Murphy ha rappresentato una delle figure centrali degli anni zero e This Is Happening, l’ultimo disco prima della provvisoria chiusura del progetto LCD Soundsystem, è la massima espressione del suo linguaggio artistico musicale. Dentro c’è il suono di una certa New York, con tanto di omaggio ai Talking Heads (Home), con brani lunghissimi che si basano su pochissimi elementi ricorrenti e groove implacabili. Alcuni brani si sono già consegnati alla storia, come Dance Yrself Clean con quella sua falsa partenza a basso volume o Pow Pow, otto minuti dritti di deliri su un pattern di batteria imperturbabile. Ci ricorderà sempre il periodo in cui i concerti diventano delle serate nei club, e si ballava e ballava e ballava. (Mattia Barro)

44. “Boarding House Reach” di Jack White (2018)

Se in Blackstar David Bowie ha fatto suonare il rock ai jazzisti, in Boarding House Reach Jack White l’ha messo in mano a musicisti hip hop e r&b. Smarcandosi dalla fama di neotradizionalista ossessionato dal passato, White ha assemblato un disco meravigliosamente caotico, audace e spiazzante dove la forma canzone è scomposta e ricomposta, con fantasia sfrenata. Ci sono brani tradizionali, e sono ben fatti e persino commoventi. E ci sono frammenti impazziti di musica che Jack White, un po’ Prince e un po’ Zappa, riesce a far suonare coerenti, riusciti, necessari. Il rock può ripartire anche da qui. (Claudio Todesco)

43. “Stoney” di Post Malone (2016)

Trascinato dal successo della hit White Iverson, nel 2016 Post Malone era un emergente che doveva confermarsi e dimostrare a tutti che il successo del suo singolo non era un caso. Uscito dopo una produzione travagliata e il tour con Justin Bieber, Stoney mette in campo tutti gli ingredienti che trasformeranno il rapper texano in una star mondiale: beat minimali, tonnellate di riverbero e melodie iper-cantabili. L’album è una raccolta di storie di droga, cuori spezzati e autodistruzione e, come tutti i dischi di Post Malone, una collezione di featuring di livello, da Pharrell Williams a Quavo. (Andrea Coclite)

42. “Modern Vampires of the City” di Vampire Weekend (2017)

Modern Vampires of the City è il disco che racchiude al meglio la storia dei Vampire Weekend. È un concentrato di vampirismo. Tutto è di classe: l’entusiasmo contagioso (Diane Young, Finger Back, Workship You), la ricercatezza colta (Obvious Bicycle, Step, Ya Hey), le ballad delicate (Young Lion, Hannah Hunt). Contiene tutte le anime dei vampiri, con equilibrio e misura. Queste sono le ragioni che lo rendono il migliore disco della carriera dei Vampire Weekend. (Mattia Barro)

41. “Pop 2” di Charli XCX (2017)

Quando è uscito Pop 2, il secondo mixtape dopo Number 1 Angel, abbiamo capito che Charli XCX si era messa in testa un obiettivo piccino: scrivere il futuro della musica pop. E poco importava all’artista inglese se questo significava prendere una direzione impopolare, allontanandosi dai successi mondiali come I Love It o Fancy. Il suo scopo era più nobile, l’idea di poter scrivere un mondo differente, gender fluid, dove genere e identità non hanno confini. E come un magnete, Pop 2 attira a sé tutti quegli artisti che stanno lottando in quella direzione, con una lineup che schiera PC Music, Tove Lo, ALMA, Carly Rae Jepsen, cupcakKe, Pabllo Vittar, Brooke Candy, Caroline Polachek, Tommy Cash, Mykki Blanco, Dorian Electra, Kim Petras, Jay Park e MØ. Un mixtape culto per i decenni a venire. (Mattia Barro)

40. “Emily’s D+Evolution” di Esperanza Spalding (2016)

Tutti l’amavano, ma poi sottovoce dicevano che il nuovo fenomeno del jazz-pop era caruccia e niente più. Non c’è niente di carino in Emily’s D+Evolution (si legge “Emily’s D plus evolution”), concept teatrale in cui la musica per basso-chitarra-batteria torna ad essere avventurosa, come se Joni Mitchell incontrasse i King Crimson. L’alter ego Emily è la maschera che serve a Spalding per liberarsi da dogmi e condizionamenti e dichiararsi totalmente libera. Anche dal punto di vista musicale. (Claudio Todesco)

39. “Anti” di Rihanna (2016)

Dopo anni da popstar, Rihanna ha trovato il proprio sound, squisitamente personale. Come dice lei stessa, nella maniera più schietta possibile, in Consideration, un pezzo dal sapore glitch: “Devo fare le cose a modo mio, tesoro” (“I got to do things my own way, darling”). (Filippo Ferrari)

38. “Vulnicura” di Björk (2015)

Björk, unica vera e pura dea incontaminata del panorama musicale mondiale, negli anni è sempre stata in grado di cambiare stile e a mettere la musica al suo servizio, più che di piegarsi ai voleri del mercato musicale. Vulnicura, che gode della coproduzione di Arca (Alejandro Ghersi), è senz’altro il suo album migliore degli ultimi dieci anni. Vulnicura, la cura dalla sua rottura con Matthew Barney, è un lavoro estetico, complesso e intimamente narrativo. (Luigi Costanzo)

37. “El Camino” di The Black Keys (2011)

Il rock non se la passa bene, questo è un fatto. Gli ultimi che per un periodo sembravano aver invertito la rotta erano i Black Keys, duo americano riuscito a imporsi dopo diversi anni di gavetta con El Camino, prodotto dal geniale Danger Mouse. Non c’è niente di nuovo in questo disco, ma una manciata di cliché ed eccellenti ritornelli destinati a non lasciarci mai. Fra il 2011 e il 2012 sembrava che in tv, alla radio, nei commercial su internet passassero solo loro. (Luigi Costanzo)

36. “A Moon Shaped Pool” di Radiohead (2016)

Onestamente è difficile stabilire che decennio sia stato per i Radiohead. Sarebbe stupido fare paragoni con gli anni ’90 o gli anni Zero, è necessario stabilire altri parametri: quasi trent’anni in attività, una decina di album pubblicati senza contare progetti paralleli, ristampe e remix vari, una credibilità più che intatta, nessun segno di cedimento sul fronte artistico e creativo, dal vivo sono un’esperienza unica, mantengono una presenza pubblica più che dignitosa sia sui social che nelle interviste, nessuna necessità di piegarsi alle logiche dello schiamazzo continuo. Insomma, vi viene in mente qualche altra band che regga il confronto? A Moon Shaped Pool non è Kid A, né OK Computer, ma brani come Daydreaming o Present Tense potrebbero reggere il confronto con i pezzi cult della band di Oxford. E poi c’è finalmente una versione in studio di True Love Waits. È difficile stabilire che decennio sia stato per i Radiohead, solo perché i Radiohead sono senza tempo. (Edoardo Vitale)

35. “AM” di Arctic Monkeys (2013)

Se dovessimo consegnare al futuro un ritratto capace di raccontare cosa sono stati gli Arctic Monkeys per il rock del nuovo millennio, AM sarebbe l’album perfetto con cui tramandare ai posteri la storia dei quattro di Sheffield. Infatti, dopo gli esordi roboanti cui moltissimi fan rimangono tutt’ora arpionati, è stato con lo stoner rock by Josh Homme e il tuffo nostalgico di Suck It and See che si è iniziato a scorgere il volto da alchimista di Alex Turner, che miscelando influenze e sonorità ha cercato un’uscita d’emergenza dall’abbaglio della golden era dell’indie rock britannico, di cui i Monkeys oggi sembrano gli unici grandi sopravvissuti. In AM, tuttavia, la band tracciava la sintesi del percorso compiuto fino ad allora, come fosse un riassunto in musica studiato a tavolino ma perfettamente riuscito, in cui hit devastanti (R U Mine?, Do I Wanna Know?, Why’d You Only Call Me When You’re High?, Arabella) scandivano un percorso a ritroso attraverso tutti gli elementi che hanno consacrato i Monkeys nell’Olimpo del rock mondiale. (Alessandro Zaghi)

34. “Malibu” di Anderson .Paak (2016)

C’è stato un momento fra il 2015 e 2016 in cui sembrava ovvio che Anderson .Paak sarebbe diventato una delle più acclamate star del panorama mondiale: il virale live al Tiny Desk, la partecipazione all’album di Dr. Dre, lo splendido album NxWorries (in collaborazione con Knxwledge), la sua contagiosa presenza scenica giocavano in suo favore. Malibu è l’ambizioso album che ha consacrato Paak non solo come interprete versatile, ma autore di grandissimo livello. (Luigi Costanzo)

33. “21” di Adele (2011)

L’eterno fascino della sofferenza in bianco e nero. L’album si apre con il soul di Rolling in the Deep e si chiude con la ballata struggente, monumentale, Someone Like You. C’è il country, c’è tanto blues e c’è spazio anche per una cover dei Cure, Lovesong, sapientemente cucinata da Rick Rubin. Protagonista assoluta del disco la voce di Adele che ha incassato una delusione d’amore trasformandola in un successo planetario. (Michele Bisceglia)

32. “Melodrama” di Lorde (2017)

Il pop è una cosa seria. O almeno può esserlo – profondo, introspettivo, attento alla forma senza mai perdere di vista la sostanza – se a farlo è un’artista come Lorde. Quattro anni dopo l’exploit del singolone Royals, è arrivato questo disco in cui la cantante neo-zelandese racconta il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, tra ballate solenni, dark, e bordate danzerecce come Green Light che illuminano le lacrime sul dancefloor. (Michele Bisceglia)

31. “Teen Dream” di Beach House (2010)

 

Il primo disco dei Beach House per la Sub Pop ha rappresentato la consacrazione artistica dello splendido stile onirico, velato di un’anima agrodolce del duo di Baltimora. Oggi, sorpassata la mania indie, si sente che Teen Dream è uno di quegli album destinato a superare la prova del tempo e siamo certi che continueremo a considerarlo un classico. (Luigi Costanzo)

30. “Syro” di Aphex Twin (2014)

Qualche leak pubblicato sul deepweb, i rumors iniziano a rincorrersi, e un dirigibile verde fluo sui cieli di Londra con un logo impossibile da dimenticare, quello di Aphex Twin. RDJ tornava con un album ufficiale dopo tredici anni d’attesa, dopo l’ultimo Drukqs e le sue melodie al pianoforte da ascoltare tutti gli anni il 14 aprile. Con Syro, Aphex tornava a gamba tesa nel decennio in cui l’elettronica era approdata definitivamente sui grandi palchi, rientrando per riprendersi la scena e rispedire tutti a scuola di sintesi, tra glitch, ritmiche schizofreniche e le sequenze acide, marchio di fabbrica fin dai tempi di Classics. Un album in cui Aphex tornava a rifare Aphex, riprendendo il discorso da dove l’aveva lasciato quasi vent’anni prima con …I Care Because You Do ma snellendo le sonorità verso beat ancora più taglienti: un tuffo nel passato per dimostrare, ancora una volta, che il futuro era stata una sua invenzione. (Alessandro Zaghi)

29. “Beyoncé” di Beyoncé (2016)

Nato in una session di registrazione estiva in una villa agli Hamptons, in cui Queen Bey ha invitato la crème de la crème dei produttori hip hop in circolazione, è uno dei lavori più sperimentali dell’artista. Per la prima volta si cimenta non solo nell’r&b classico che la contraddistingue, ma nella musica urban a tutto tondo, stupendo con brani tecnicamente lontanissimi dalla sua produzione, come Partition, Drunk in Love e Flawless, quest’ultima con il featuring della scrittrice femminista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. (Marta Blumi Tripodi)

28. “Skeleton Tree” di Nick Cave & The Bad Seeds (2016)

Fra un po’ di tempo riguarderemo alla trilogia di album pubblicati da Nick Cave in questi anni X come un privilegio e come uno dei doni che rimarranno nella storia della musica. Metteteci anche i due documentari che hanno accompagnato la sua parabola in questi anni e il rinnovato successo con il pubblico, e non viene difficile immaginare che il buon Nick sia sulla cresta dell’onda più oggi di venti o trent’anni fa. Anzi, questa è una mezza certezza, mi sa. Una certezza non da poco e certamente non da tutti. Skeleton Tree rappresenta il secondo capitolo della suddetta trilogia, uscita nel momento peggiore dell’esistenza dell’essere umano Nicholas Edward Cave, che nei mesi precedenti ha affrontato la morte del figlio Arthur. Musicalmente rappresenta la via di mezzo nella metamorfosi verso il sound minimale più recente di Ghosteen e quello ancora un po’ dipendente dalle chitarre di Push the Sky Away, ma il risultato non è affatto incompleto, anzi, ora vado a riascoltarlo. (Edoardo Vitale)

27. “Black Messiah” di D’Angelo and the Vanguard (2014)

Uno iato enorme divide D’Angelo dal suo amatissimo successo Voodoo (2000) e il profetico ritorno Black Messiah (2014). Sappiamo che D’Angelo in quei quattordici anni non se l’è passata bene, incapace di gestire una fama che presto è diventata più grande di lui. Black Messiah ha la bellezza, la forza, le ferite e la sensualità repressa di quei quattordici anni travagliati. (Luigi Costanzo)

26. “Take Care” di Drake (2016)

Take Care è il primo disco globale di Drake. Ancora lontani dalle hit post raggaeton da miliardi di ascolti, Drake qui ci mostra il lato vulnerabile del mondo rap. Certo, ci sono quegli episodi sboroni come Make Me Proud (con Nicki Minaj) e The Motto (con Lil Wayne) che tanto piacciono al nostro canadese, ma Take Care in realtà è un disco intimo, fragile, a cuore aperto, come dimostrano brani quali Shot for Me, Marvis Room, Over My Dead Body, Crew Love (con The Weeknd). La title track che ospita Rihanna, costruita su un campione di Gil Scott-Heron rivisto da Jamie XX, è il clash di culture e sonorità che presagisce il futuro Drake. (Mattia Barro)

25. “A Seat at the Table” di Solange (2016)

A Seat at the Table, il terzo album in studio di Solange Knowles, ha dimostrato a tutti che dietro la sorellina di Beyoncé si nascondeva una musicista unica, capace di tenere insieme r&b, pop, neo soul e una decisa ispirazione politica. Presentato come un “progetto sull’identità, sul potere, sull’indipendenza, sul lutto e sulla rinascita”, A Seat at the Table è un disco delicato, etereo, pieno di canzoni splendide, intermezzi brillanti e suoni contemporanei. Il punto d’incontro tra Janet Jackson, Blood Orange e le dive della tradizione come Etta James. (Andrea Coclite)

24. “Currents” di Tame Impala (2015)

Ormai archiviate le chitarrone lisergiche degli esordi, Currents è il disco con cui si inaugura il personalissimo viaggio di Kevin Parker attraverso la sua visione di musica. Toltosi la maschera da semplice leader dei Tame Impala, infatti, con questo lavoro Parker diventò produttore di se stesso, sperimentando in studio con le atmosfere acide del passato, qui strapazzate dentro una macchina del tempo in cui influenze synth-pop indossavano tute spaziali, dove gli hippie retrofuturstici venivano sbattuti dentro una palla da discoteca. Un sogno senza tempo che ha consacrato la band – ovvero il solo Parker –, da ennesima riproposizione della psichedelia decontestualizzata negli anni ’10 a fenomeno impossibile da replicare. (Alessandro Zaghi)

23. “Bon Iver” di Bon Iver (2011)

For Emma, Forever Ago era stato un esordio straordinario, un’impresa complicata da eguagliare e su cui non avrebbero scommesso in molti. E invece Bon Iver, il suo fratello maggiore, è un disco clamoroso. Più struggente, più ricco, più complesso, un capolavoro che ha influenzato il mondo musicale a venire. Quel suono, quel suono della voce, è qualcosa che ha cambiato la narrativa della musica. Bon Iver è senza tempo. (Mattia Barro)

22. “Cosmogramma” di Flying Lotus (2010)

Era l’inizio del decennio, e il discendente dalla famiglia reale Coltrane disegnava la sua visione sonora dell’Universo, un caleidoscopio dove il jazz inseguiva l’hip hop dentro patch di elettronica destinate da quel momento in poi a cambiare per sempre le regole dei giochi. Con Cosmogramma Flying Lotus si è affermato come uno dei più grandi innovatori nella musica contemporanea, sinonimo di una follia sperimentale per cui tutti i colori della black music si uniscono dentro un’armonia che non finisce mai di spiazzare l’ascoltatore, ancora smarrito nella cosmogonia tracciata da Ellison dieci anni fa. (Alessandro Zaghi)

21. “Strange Mercy” di St. Vincent (2017)

Forse nessuna artista è cresciuta come è cresciuta St. Vincent in questo decennio. Un percorso di perfezionamento continuo e costante che, in Strange Mercy, si manifesta per la prima volta come profezia, mostrandoci in forma primordiale quella che sarà una delle più grandi artiste contemporanee. Basta premere play e Chloe in the Afternoon, il brano d’apertura, ci fa comprendere la complessità artistica che troveremo in tutta la carriera di Annie Clark, intreccio di belle interpretazioni canore e virtuosismi chitarristici. Cruel, il singolo di lancio, rimane ancora oggi il più potente della carriera di St. Vincent. (Mattia Barro)

20. “Flower Boy” di Tyler, The Creator (2017)

Se in Italia è stato il decennio della trap, il rap made in US in questi anni ha presto tutt’altra strada, immergendosi nel recupero e nella valorizzazione delle proprie radici black. Non stupisce che proprio gli artisti più geniali e significativi, come Tyler, The Creator, abbiamo intrapreso questo percorso alla ricerca di un’identità sonora che flirta con la musica suonata, con il funk e jazz, giocando con gli stili come mai fatto finora. Flower Boy, inoltre, ha il pregio di svelarci talenti come Rex Orange Country e – soprattutto – Kali Uchis che in See You Again piazza il ritornello più forte della discografia di Tyler. Il suono caldo, gli arrangiamenti intelligenti, il feeling di un disco suonato, mescolati all’ironia e al modo di rappare dell’ex Odd Future, diventano un’arma sonora micidiale. Tyler entra nell’età adulta con una maturità insperata, e Flower Boy ne è la fotografia perfetta. (Mattia Barro)

19. “Born to Die” di Lana Del Rey (2010)

Un album così diverso dai dischi pop a cui eravamo abituati. Un lavoro che parla di relazioni distruttive, perversioni, masochismi e flirta sfacciatamente con la morte. Il tutto condito dalla voce ipnotica e dalla fortissimo immaginario di Lana Del Rey. (Filippo Ferrari)

18. “Plastic Beach” di Gorillaz (2010)

La maschera creata dai Gorillaz è l’ambiente in cui Damon Albarn ha raggiunto il suo acme compositivo. Plastic Beach è il lavoro in cui tutti gli elementi dei due dischi passati vengono finemente bilanciati a favore di una forma disco più coerente grazie anche al tema ecologico che pervade l’album. Probabilmente non ci sono i singoli spaccaclassifica dei primi due album, quanto piuttosto una coerenza compositiva e testuale. Una gemma pop che per altro si avvale di illustrissime collaborazioni (Lou Reed, De La Soul, Mos Def). (Luigi Costanzo)

17. “The Suburbs” di Arcade Fire (2010)

L’ultimo grande disco indie. The Suburbs è un lavoro poderoso che, con una grande scrittura e un lavoro di arrangiamento esemplare, chiude definitivamente il periodo fruttuoso dell’indie rock. The Suburbs, Ready to Start, Modern Man e ancora We Used to Wait, Sprawl I, Sprawl II hanno del clamoroso, brani con cui gli Arcade Fire raccolgono un decennio di suoni e idee come pittogrammi riscoperti di una civiltà scomparsa di cui The Suburbs è l’ultima e inestimabile reliquia. (Mattia Barro)

16. “El Mal Querer” di Rosalía (2018)

Due singoli devastanti e il nome di una ventiquattrenne catalana che schizza dal quasi anonimato dritto sulla vetta delle classifiche mondiali. Se inizialmente davanti a Rosalía qualcuno poteva storcere il naso per l’ennesima pop star usa e getta spuntata dal calderone latino – quello del reggaeton ultraradiofonico per intenderci – El Mal Querer ha smentito tutti, anche i più scettici. Undici tasselli in cui il flamenco e la tradizione musicale spagnola vengono vivisezionati, tra sfumature di elettronica, ritmiche vagamente trap o distorsioni digitali. Un album stupefacente che, nel post flamenco portato in scena da Rosalía, ha illuminato nuove strade per il pop contemporaneo. (Alessandro Zaghi)

15. “You Want It Darker” di Leonard Cohen (2016)

L’attesa per l’ultimo album di Leonard Cohen è stata più che ripagata con un disco intenso che affronta la morte imminente e la fine delle cose terrene come solo Leonard Cohen avrebbe potuto fare. Aggiungere qualsiasi altro commento è inutile. Chiudiamo con una citazione: “Steer your path through the pain, that is far more real than you, that smashed the cosmic model, that blinded every view and please don’t make me go there, tho’ there be a God or not. Year by year. Month by month. Day by day. Thought by thought”. (Edoardo Vitale)

14. “Lemonade” di Beyoncé (2016)

Beyoncé era mostruosamente popolare quando decise di mettere nello stesso disco la cronaca romanzata della crisi coniugale con Jay-Z e la rivendicazione inorgoglita delle proprie radici nere. L’album ha ispirato una serie impressionante di think pieces e un numero spaventoso di articoli di gossip e si capisce perché: in equilibro fra r&b orecchiabile e suoni supercontemporanei, offre argomenti di conversazione che solitamente scarseggiano nel pop. Si va dal “suck on my balls” di Sorry al “my daddy Alabama, momma Louisiana, you mix that negro with that Creole make a Texas bamma” di Formation. Il cast di co-autori e produttori è a dir poco ricco: Lemonade è uno degli esempi più significativi di album-Frankenstein, assemblato mettendo assieme talenti diversi e distanti. She slays. (Claudio Todesco)

13. “Arca” di Arca (2017)

Arca è l’incarnazione del concetto di gender bender. Con la sua estetica e le sue performance continua a spingere per abbattere barriere di genere, mostrando nuove possibilità identitarie, estetiche, corporee. Con la sua musica piega a piacimento generi come l’IDM, l’industrial, l’elettronica sperimentale, oltre a recuperare, proprio a partire da Arca, le sue radici venezuelane nell’uso del canto melodrammatico in spagnolo. Desafío, il singolo portante di questo disco è la summa perfetta di quando affermato: la commistione audio-video del videoclip è allucinante, disorienta il fruitore creando nuovi universi di possibilità. (Mattia Barro)

12. “LP1” di FKA twigs (2014)

Nel debutto di FKA twigs, l’urban passa attraverso un processo di stilizzazione e digitalizzazione tale da perdere ogni dimensione carnale e diventare misterioso e cerebrale. La musica di questa ex ballerina, cantante e performer è solo apparentemente fragile. Ogni suono, così come ogni mossa sul palco, è ben studiato da lei e dal cast di produttori e collaboratori che in LP1 comprende Paul Epworth, Emile Haynie, Sampha, Dev Hynes. FKA twigs è una Kate Bush per l’epoca di James Blake. Appare fredda e irraggiungibile, eppure è emozionante e sensuale. Talmente perfetta da sembrare aliena. (Claudio Todesco)

11. “James Blake” di James Blake (2012)

Epifania. Non c’è altro modo per descrivere l’esordio dell’inglese. Se nella vita si potesse rivivere un momento solamente, forse non sarebbe male poter risentire, con orecchie vergini, The Wilhelm Scream. O la splendida cover di Limit to Your Love di Feist. Sembra impossibile immaginare la musica odierna senza la voce di James Blake. Sembra impossibile pensare che prima di questo disco, per tutti noi, non esisteva nemmeno. (Mattia Barro)

10. “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” di Billie Eilish (2019)

L’adolescenza, il sogno e il grande incubo. Billie Eilish e suo fratello Finneas hanno registrato in cameretta un disco d’esordio che ha ridefinito gli standard della cultura pop: approccio fai da te per canzoni intime, a tratti inquietanti, che pur girovagando tra generi musicali non compongono una playlist, ma un vero e proprio album con un inizio e una fine, compatto, capace di ipnotizzare in egual modo quindicenni e quarantenni eternamente teenager. (Michele Bisceglia)

9. “Channel Orange” di Frank Ocean (2012)

Frank Ocean inizia a mettere il suo volto nel mondo della musica nel 2011 con il suo sorprendente mixtape nostalgia, ULTRA. Dopo essere stato per anni il ghostwriter di Justin Bieber, John Legend e altri, fa il suo debutto in società con l’ingresso nel collettivo OFWGKTA (Tyler the Creator, Hodgy ,Earl Sweatshirt, etc). Il mixtape è così acclamato che Channel Orange alla sua uscita è un instant classic. Il disco è un capolavoro costruito magistralmente, una sintesi perfetta di quel che la musica soul e r&b sono oggi. (Luigi Costanzo)

8. “Yeezus” di Kanye West (2013)

Solo Kanye West può lavorare, all’interno dello stesso disco, con Daft Punk, Arca, Hudson Mohawke, Rick Rubin, Brodinski, Gesaffelstein, Bon Iver, Travis Scott, Frank Ocean. Solo Kanye West può pensare, per il suono di un disco rap, una commistione di generi come l’industrial, la techno, l’acid, l’IDM, il sound di Chicago. Solo Kanye West può produrre un disco che è l’American Psycho dei dischi rap (recuperate il teaser video per capire di cosa parliamo). Yeezus è l’album più sottovalutato di Kanye, nonché il più rischioso, affascinante, sperimentale. Nessuno è poi più riuscito ad andare così lontano come Ye. (Mattia Barro)

7. “Random Access Memories” di Daft Punk (2013)

Ricordate l’eccitazione la prima volta che avete ascoltato Get Lucky? Chi si sarebbe aspettato che il disco più atteso della storia sarebbe stato uno dei più affascinanti ed efficaci tributi disco-funk di sempre? I globalizzatori della musica elettronica, il gruppo europeo più importante degli ultimi 30 anni mette la ciliegina sulla torta su una carriera incredibile con Random Access Memories, volando in vetta alle classifiche americane, conquistando altri Grammy e inserendo nel mito il suo nome: Daft Punk. (Luigi Costanzo)

6. “Carrie & Lowell” di Sufjan Stevens (2015)

Carrie & Lowell è il disco più commovente del decennio. Sufjan Stevens scarnifica il suo folk fino a creare un mondo minimale e sussurrato in cui accompagnarci dentro le intimità della vita trascorsa con la madre appena scomparsa. La voce di Sufjan ci accompagna attraverso il dolore, la malinconia, la morte con una dolcezza rara, senza mai capitolare di fronte all’oscurità. Eh sì, Sufjan Stevens è il miglior cantautore di questo millennio. (Mattia Barro)

5. “DAMN.” di Kendrick Lamar (2017)

Dopo il trionfo assoluto di To Pimp a Butterfly, l’album successivo di Kendrick Lamar era uno dei più attesi della storia del rap, probabilmente. Nonostante l’asticella fosse così alta, K.Dot ha fatto centro un’altra volta: DAMN. (scritto esattamente così, tutto in maiuscole e con un punto finale, come d’altronde tutto il resto della tracklist) è un altro piccolo capolavoro, forse meno volitivo, ma ancora più rabbioso e incisivo. (Marta Blumi Tripodi)

4. “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” di Kanye West (2010)

Il vero capolavoro di Kanye West, che in un solo, monumentale album riesce a sintetizzare passato, presente e futuro della sua discografia, in un’eclettismo barocco che ci esplode nelle orecchie come un carosello di fuochi d’artificio. Influenzato dal soul classico, dall’elettronica, dal rock e dalla musica classica, arriva a sfociare in vere e proprie avanguardie, come le ultime tracce Lost in the World (con Bon Iver) e Who Will Survive in America (che campiona un discorso di Gil Scott-Heron). (Marta Blumi Tripodi)

3. “Blonde” di Frank Ocean (2016)

Uno dei dischi più significativi del decennio. Blonde travalica generi musicali e identitari, fa esplodere i pregiudizi del mondo del rap e consacra Frank Ocean come uno degli artisti più importanti degli anni ’10. È forse l’unico album diventato pietra miliare nel giorno stesso della sua uscita, oramai imprescindibile nel suo aver alterato i canoni di genere. La straniante apertura di Nikes, la linea melodica di Ivy, la strofa di Andre3000 in Solo (Reprise), il pop onirico di White Ferrari, la perfetta chiusa di Futura Free. Per ogni brano si potrebbe scrivere un saggio per quanto risulti e suoni grande e onnisciente. Se te lo sei perso, hai perso un decennio; ci spiace. (Mattia Barro)

2. “Blackstar” di David Bowie (2016)

La morte di David Bowie è stato uno degli eventi più intensi di questo decennio. Si percepiva la stessa atmosfera dei momenti che toccano una collettività intera e al tempo stesso un senso di ritrovato amore, una sensazione di placido conforto. Sarebbe stato così in ogni caso, ma il capolavoro artistico con cui Bowie si è congedato dalla vita terrena ha amplificato il livello delle emozioni e dell’estraniazione. Un capolavoro senza paragoni, ogni volta che ascolto le prime note sono scosso da tremori. Una stella nera che veglierà su tutti noi poveri comuni mortali per sempre. (Edoardo Vitale)

1. “To Pimp a Butterfly” di Kendrick Lamar (2015)

Quando è uscito To Pimp a Butterfly, Kendrick Lamar era solo uno dei tanti aspiranti G.O.A.T. (“Greatests of All Time”) che affollavano la scena rap americana. Da quel giorno, il 15 marzo 2015, si può dire che praticamente nessuno abbia più provato a contestare la sua supremazia assoluta.

Nell’album, ogni dettaglio ha un preciso significato: dal titolo (che è una sorta di rielaborazione in chiave moderna di quello del classico romanzo di Harper Lee To Kill a Mockingbird, in italiano Il buio oltre la siepe, il cui tema centrale è il razzismo) alla copertina (un gruppo di ragazzi di Compton che posano davanti alla Casa Bianca, sventolando mazzette di dollari e sbocciando champagne, mentre un giudice togato giace ai loro piedi apparentemente morto; un modo di esprimere il fatto che solo Dio può giudicare davvero chi nasce e cresce nero e indigente nella ricchissima e bianchissima America).

Non a caso molti brani contengono riferimenti a temi razziali, come King Kunta o The Blacker the Berry. Musicalmente è iperbolico e fonde tutti i nuovi generi di derivazione afroamericana, e liricamente è di una potenza inaudita, tanto che perfino il presidente Obama – che non a caso vorrà poi incontrare Kendrick in un appuntamento privato allo studio ovale – dichiarerà che la sua canzone preferita di sempre è How Much a Dollar Cost. Ma sarà Alright a lasciare il segno più di qualunque altro brano, diventando uno dei grandi inni del movimento #BlackLivesMatter. Ed è proprio quando una canzone riesce a estendere la sua influenza al di fuori della scena musicale, lasciando il segno anche in ambito storico, politico e culturale, che sappiamo di trovarci di fronte a un vero capolavoro. (Marta Blumi Tripodi)

Hanno collaborato Luca Garrò, Raffaella Oliva e Patrizio Ruviglioni