Rolling Stone Italia

I 30 migliori album italiani del 2025

La canzone popolare si sta alzando (cit)? De Simone, Consoli, I Cani, Baustelle, Corsi, Thiele, La Niña hanno pubblicato ottimi dischi. E poi ci sono i rapper, gli sperimentatori, i sabotatori, i revivalisti…

Foto: Francis Delacroix (1), Gesualdo Lanza (2), Dino Junior Gulino (3), press (4), Martino de Simone (5), Nicolò Parsenziani (6). Illustrazione: Stefania Magli

30

Casa Paradiso

Tommaso Paradiso

C’è qualcosa di profondamente romano e malinconico in Casa Paradiso, disco numero tre del cantautore che trasforma la nostalgia in metodo di scrittura. Per lui è un ritorno a casa, per il pubblico è entrare nella sua quotidianità. Paradiso scrive come se stesse parlando a sé stesso e ancora una volta rivendica il suo sound senza seguire le mode. Questo album è la conferma di un autore che non cerca il tormentone, anche se ce ne sarebbero, ma la permanenza. Tra synth e ritornelli che sentiremo cantare nei palazzetti.

29

Nuovospaziotempo

Emma Nolde

È una delle più solide e prolifiche musiciste italiane e Nuovospaziotempo, il suo terzo disco in quattro anni, ne è la riprova. Un lavoro che parla della sofferenza della velocità di questi tempi, un atto di osservazione del movimento umano. E per osservare, si sa, bisogna avere pazienza e fare ordine nel caos. Musicalmente allora Emma ha costruito l’album attorno a pochi e chiari strumenti – sax, piano, batteria, violoncello e chitarra – dandosi regole e limitando di perdersi nell’iper-scelta e nell’iper-velocità della musica contemporanea. Si è posta l’obiettivo di rimanere ma, vista la qualità del suo lavoro, non pare ci saranno problemi.

28

Mediterraneo

Bresh

Mediterraneo è il disco in cui Bresh mette dentro tutto quello che è diventato e, forse, anche ciò che ancora non sa di essere, mescolando malinconia, ironia e una visione lenta ma profonda della vita. Dalle radici operaie e dall’immaginario ligure, è una sorta di fuga dalla realtà che riflette sul tempo, l’amore e la percezione del mondo. Le sonorità evocano musica popolare con tocchi di sonorità di altri mari, dal Mediterraneo al Sudamerica, arricchite da arrangiamenti caldi e accompagnati da testi che parlano di impulso, appartenenza e immaginazione. Qualcosa che resta anche dopo che il disco è finito.

27

Caramé

Angelina Mango

Sapevamo che la luce di Angelina Mango non poteva essersi spenta a causa di qualche ostacolo. E infatti è tornata con un disco in cui ha scelto di abbassare il volume dell’hype e di alzare quello della verità, con testi che parlano di fragilità, identità, crescita. Un lavoro che rinuncia alla hit immediata per costruire un racconto coerente. E con alcune chicche, tipo il brano con Madame. Se non l’avete ancora fatto è il momento di ascoltarlo.

26

Speriamo

Venerus

Il disco pop di Venerus, ma non immaginatevi quel pop medione da classifica. Qui c’è ancora magia, semplicemente in maniera più leggibile per l’ascoltatore. Nella nostra cover story ci ha raccontato che nella musica ci vuole una «fede ingenua, ma necessaria». Speriamo è proprio questo: un disco che sceglie la luce senza perdere profondità, e che riesce a trasformare l’intimità in qualcosa di condiviso, quella cosa che ascolti i testi e dici «succede anche a me». Uno dei rari esempi di pop italiano capace di essere caldo, colto e sincero allo stesso tempo.

25

Ranch

Salmo

Limitare Salmo al ruolo di rapper, nel 2025, è riduttivo. Negli anni ci ha insegnato infatti che la sua capacità di plasmare i generi è unica nel panorama mainstream italiano. Sono i generi, di fatto, a piegarsi al suo flow, solido oggi come agli esordi. E lui, nonostante i sopraggiunti 40 anni, non sembra minimamente intenzionato a rallentare. Ranch non è il disco country di Salmo, come ci aveva ironicamente fatto credere, né tantomeno il suo Nebraska, ma una vetrina delle capacità dell’artista di surfare sui generi con la solita facilità e la solita faccia da stronzo. Come al solito c’è spazio per il cazzeggio, la blasfemia, il rap game, ma anche per pagine più intime e dolorose.

24

Femina

Ginevra

Il sophomore album di una delle cantautrici più promettenti del nostro panorama ha sparigliato le carte: la ragazza dei club ha voluto raccontarci di più della sua storia, dell’amore, della sua famiglia, ma soprattutto della voglia di giustizia in una società che “spoglia con gli occhi e spara” non appena vede una donna. Femina è l’educazione sentimentale dell’artista, tra cameretta, inni pop-rock, corse nei boschi e quella spruzzata di nostalgia tra anni ’90 e 2000. Lo diciamo? Lo diciamo: Ginevra should be a bigger artist e se fosse all’estero forse lo sarebbe. A lei, però, interessa la musica. Il resto scorre, come l’acqua del fiume.

23

33

Ketama126

In talento di Roma è arrivato «all’età in cui cresci o muori». O come canta – perché sì in questo disco di rap c’è poco, essendo tutto uno stornello – “quest’anno c’ho gli anni di Cristo, se finisco in croce è giusto”. Dopo una carriera nella trap e un disco rap old school coi sodali della Lovegang, il non più piccolo Kety decide di entrare in tutto e per tutto nella storia musicale della sua città, proponendo un disco di stornelli che vuole flirtare con il sound cubano e centroamericano, a metà tra Peso Pluma e Lando Fiorini. La canzone romana non s’insegna, ce l’hai oppure no. Lui ce l’ha e quest’anno lo ha dimostrato.

22

Mentre Los Angeles brucia

Fabri Fibra

Per il suo undicesimo album in studio, a quasi 50 anni di età, Fibra cambia la direzione del suo racconto virando con maggior decisione verso il mondo interiore. Per il rapper è tempo di affrontare faccia a faccia i momenti decisivi della vita di un uomo. E per farlo scrive una lettera a “un figlio che mai avrò” o si ritrova allo specchio a mandare affanculo l’odiato padre scomparso. Sempre e comunque al limite. Dentro Mentre Los Angeles brucia c’è anche però spazio per un omaggio alla propria storia, con una nuova versione di Verso altri lidi, uno dei brani più amati del suo periodo Uomini di mare. Un disco ispirato.

21

Orbit Orbit

Caparezza

«Disattendere il pubblico è rispettarlo», ci ha detto Caparezza. Lo ha fatto in questo disco-fumetto, «il concept più concept che abbia fatto» in cui contano di più l’abbondanza di idee e di stimoli dell’immediatezza delle canzoni. Caparezza si chiede “che senso ha fare rap alla mia età?”. In realtà se lo domanda da quando aveva 13 anni. Qui più che un rapper è un cosmonauta pop. Si tiene alla larga da algoritmi e logiche radiofoniche per raccontare se stesso e non solo usando la metafora del viaggio nello spazio, e ricollegandosi all’idea di musica futuribile che si aveva negli anni ’70 e ’80 e che oggi sembra modernariato sonoro. È un viaggio dentro e fuori di sé pieno di parole e concetti che racconta il superamento di una crisi profonda, la perdita progressiva dell’udito (“Non sento ragioni e infatti non sento una minchia”), l’idea di lasciare la musica, l’entusiasmo ritrovato grazie ai fumetti. Dopo la prigionia e la fuga, Caparezza canta la libertà che è tale se si concretizza e difatti il disco si chiude con un finale orchestrale in cui si invita «a dar corpo alle proprie idee».

20

Stammi accanto

Cristiano Godano

Fare musica in modo artigianale, scrivere canzoni dal passo lento, concepire un album come un’esperienza in cui immergersi. Stammi accanto è il secondo disco solista di Cristiano Godano dei Marlene Kuntz ed è stato scritto sulla coda del Covid. «Sono canzoni figlie dell’incantamento, e si sforzano di reagire opponendo una arresa quiete alle turbe e alle paure», ha scritto Godano. Sono canzoni riflessive, che parlano della ricerca di «poesia e bellezza» e si pongono quindi fuori dai ritmi e dalla parole di questo tempo, è una raccolta di pezzi senza colpi ad effetto che quindi va ascoltata con attenzione perché il messaggio è anche nelle sfumature.

19

Satantango

Satantango

Provincia profonda e new wave, bassa padana dream pop, nebbie reali e musicali. I Satantango, il cui nome viene dal libro di László Krasznahorkai, fresco Nobel per la letteratura, hanno pubblicato uno dei debutti italiani dell’anno, uno di quei dischi a cui è bello immergersi. Vengono dalle parti di Cremona, sono un duo, si chiamano Valentina Ottoboni e Gianmarco Soldi e fanno una sorta di cantautorato tra new wave, dream pop, shoegaze, ma con ritornelli facilmente cantabili. «Parliamo della provincia e di come si vive ai margini, in una terra isolata e a suo modo desolata, dell’amore/odio per questi posti in cui non c’è nulla ma a cui siamo affezionati perché sono casa. È un disco scritto da outsider, lontani da tutto, quasi guardassimo le cose su uno schermo». Anche sulle provinciali lontane da Milano, città che è “buona solo per le feste”, anche nei posti dove conosci tutte le buche che ci sono per strada, anche nei campi punteggiati dai tralicci c’è vita. E in cuffia Boys Don’t Cry.

18

Orgia mistero

Neoprimitivi

Rock italiano, indietro tutta. Per una volta non è un male. Questi sei Neoprimitivi e anche un po’ retromaniaci hanno preso il nome da Franco Battiato (vedi Shock in My Town), si ispirano al Kraut rock, alla psichedelia e anche un po’ al progressive, amano le vecchie avanguardie, scrivono canzoni partendo da jam come si faceva un tempo. E insomma un motivo c’è se al posto di pubblicare un singolo hanno buttato fuori una suite lunga una ventina di minuti su audiocassetta. Con l’aria che tira e col giro che ha fatto la musica negli ultimi anni, il loro ritorno al passato suona inaspettatamente fresco e felicemente disallineato. Sì, sono anche un po’ freak e quando li intervisti ti dicono che amano l’idea di «comunicare con l’ultraterreno attraverso la riproduzione di suoni». Quello che hanno preso loro, grazie.

17

In:titolo

Giulia Impache

Che forma ha la musica aliena? Sarà più vicina all’elettronica, al pop o alla musica contemporanea da installazione? Non ne abbiamo idea, né sappiamo se qualche entità sia entrata in contatto con la musica di Chuck Berry e Mozart che abbiamo spedito nello spazio con il Voyager Golden Record. Sarebbe stato interessante, però, mandargli l’intrigante In:titolo di Giulia Impache, un disco di chi si sente «un po’ aliena in questo universo» e vuole «avvolgersi nei suoni per comunicare nel modo più terrestre possibile», e vederne la reazione. Mentre attendiamo risposte extraterrestri, il mistero di questo lavoro di Giulia Impache è qualcosa che possiamo risolvere solo noi. Nel mentre, godiamoci questa musica spaziale.

16

Canerandagio

Neffa

Abbiamo atteso 26 anni, da quel Chicopisco del 1999, per tornare a poter apprezzare un disco di Neffa rappato. Anzi, il ritorno del guaglione sulla traccia era così atteso anche dal guaglione stesso che – alla fine – di dischi ne sono usciti ben due. Venti tracce, un’ora di rap di Neffa (meglio il disco 1 che il 2, se dobbiamo fare la conta), come sempre accompagnato da molti amici. Littlefunkyintro è forse la cosa più rap e cool uscita in Italia da parecchio tempo. Nostalgia? Certo, soprattutto nell’Easter egg di Hype (nuoveindagini) che chiude un lungo cerchio iniziato proprio da quell’addio. E quando rappa “vecchi messaggi pionieri di flow venuti dal futuro”, beh, c’è la migliore descrizione di cosa ha significato questo uomo per il rap italiano.

15

Flowers Are Blooming in Antarctica

Laura Agnusdei

Elettronica, musica afro-americana, field recordings. Quarantacinque minuti divisi in otto composizioni una continua stimolazione sensuale e intellettuale che ci accompagna per tutto l’ascolto dello splendido Flowers Are Blooming in Antarctica di Laura Agnusdei. I generi e le idee qui si stratificano, si mescolano, contagiano e contaminano, rendendo piuttosto arduo il lavoro dell’archeologo sonoro. Guidati dal sassofono di Agnusdei, siamo in esplorazione in queste nuove terre soniche. Starà poi a noi decidere se alzarci e ballare o sdraiarci e viaggiare. Ad ogni modo, siamo nella psichedelia del pensiero.

14

Futuri possibili

Franco126

«Sicuramente è il disco in cui mi piango più addosso. Eppure, per la musica, è anche il disco più luminoso che ho fatto». Franco126 continua a confermarsi un’ottima penna della musica italiana con queste 13 tracce a metà tra rap e cantautorato. In Futuri possibili ci vengono mostrati gli oggetti e i sentimenti che restano quando le persone se ne vanno. Franco scrive in modo crudo, come ci siamo abituati a conoscerlo, lucidamente disilluso, con la sua penna che corre tenera e senza pietà. C’è la vita di tutti i giorni vista con degli occhi che cercano una poesia in quello che per molti sembra banale.

13

Schegge

Giorgio Poi

«Gommapiuma evidentemente non ha funzionato», ci ha detto Giorgio Poi citando il titolo dell’album precedente, «nel senso che qualcosa è caduto, si è rotto in mille pezzi e ora rimangono le Schegge». Sono canzoni leggere come Nelle tue piscine, che però dicono che si può morire senza morire e si può vivere senza vivere, e sono canzoni  ariose come Uomini contro insetti che somigliano a sogni ad occhi aperti o allucinazioni. Tra i due dischi citati da Poi gli sono successe cose belle e brutte, comprese la morte del padre e la fine di una relazione importante, rielaborate con tocchi realistici ma anche fantasiosi in una sorta di abbandono. «Mi piace sentirmi esploso, sprigionato, sparato via insieme a tutto e a tutti, una scheggia fra altre infinite schegge». Per avere un paio di orecchie in più, il cantautore ha affidato la supervisione all’amico Laurent Brancowitz dei Phoenix.

12

Surtùm

Massimo Silverio

Due anni fa con Hrudja si è imposto come una delle voci più originali della canzone italiana, se n’è accorto pure Iggy Pop che l’ha citato. Surtùm in friulano significa palude, prato acquitrinoso, un luogo immaginario dove Massimo Silverio immagina si depositino canti e preghiere. «Mentre l’esistenza oggi pare ristagnare in una frenesia torbida che sa solo di sterilità, una palude è luogo sia di morte che di vita: di transizione, di trasformazione, di rinascita. Penso all’umidità come a un “luogo” sacro che sta scomparendo. E mi chiedo: sta scomparendo anche la nostra capacità di lasciarci vestire dalle memorie? Allora mi giunge quest’immagine: quella di un canto, una preghiera che possa depositarsi sulle cose come brina. Come rugiada. Ecco forse perché c’è tanta umidità in questo disco». E così Silverio è andato a cercare idealmente (e anche fisicamente) la verità nei boschi e nelle paludi, tornando con un disco che è modernissimo e allo stesso tempo antico, dove puoi sentire echi del folklore della Carnia, ma pure l’impronta dei Massive Attack. Surtùm è anche un album sul tornare per sentirsi dentro di sé e ridare dignità a storie rimaste al margini.

11

La maccaia

Gaia Banfi

Cantautorato d’avanguardia, avant pop made in Italy. In poche parole, un’altra eccellenza da inserire al fianco di artisti come Daniela Pes e Iosonouncane. La maccaia di Gaia Banfi è un debutto coi fiocchi che nel suo suonare intimo riempie enormemente lo spazio di chi ascolta. E lì, a fianco di Gaia, noi ascoltiamo attenti i suoi racconti come l’ultimo soffio di vento prima del silenzio della notte. Un disco che si lascia scorrere senza skippare mai. Se questo è l’inizio, abbiamo grandi aspettative sul domani della musicista milanese. Meravigliosamente malinconica.

10

Se Dio vuole

Sayf

Uno dei debutti più autentici e promettenti della nuova scena urban italiana. Lontano dai cliché del rap di maniera, Sayf è riuscito a costruire un racconto personale che intreccia identità, fede, rabbia e speranza. Il tutto senza cercare di dimostrare niente, raccontandosi e basta. Ne viene fuori un rap molto meno cupo rispetto a quello dei colleghi e che quest’anno abbiamo ascoltato molto. «Negli ultimi anni molti rapper hanno fatto a gara a chi ce l’aveva più lungo. A me sinceramente non interessa. Io sono un ragazzo tranquillo e la racconto per come l’ho vissuta io». Ora arriva la prova Sanremo, intanto grazie.

9

Exploration

Calibro 35

Dopo la doppia partita a scacchi con Ennio Morricone e dopo l’album di inediti Nouvelles aventures, quest’anno i Calibro sono tornati a fare quel che facevano in principio. Hanno iniziato facendo archeologia musicale e se oggi abbiamo coscienza di certe colonne sonore e dell’importanza di certe musiche lo dobbiamo anche a loro. Niente poliziotteschi italiani in Exploration, però, si guarda piuttosto agli ibridi jazz-funk anni ’70 e ’80, al repertorio internazionale, a certe vecchie sigle televisive. «Dopo il lavoro funzionale per registi e produttori» hanno detto a Rolling «torniamo alle cose nostre col bisogno di riappropriarci di noi stessi e del nostro suono. È un’esplorazione del nostro sound, ma anche un esperimento su chi siamo». Il risultato è una nuova esilarante raccolta di furti con scasso di ritmi, melodie e armonie. In un mondo musicale pieno di cantanti che ti spacciano banalità per prodotti artistici, i Calibro ci hanno ricordato di nuovo che la musica può essere anche grande artigianato.

8

Volevo essere un duro

Lucio Corsi

È stato l’anno di Lucio Corsi, è ovvio. Prima un Sanremo da outsider in cui ha spiazzato tutti restando se stesso, poi Eurovision, quindi quest’album che si differenzia dai precedenti nella musica, forse mai così accessibile, e nei testi. Dopo aver narrato di animali fantastici e di astronavi giradisco, Corsi ha trasfigurato l’infanzia e l’adolescenza vissute in provincia e si è messo a cantare di amici veri e immaginari, veri e al tempo stesso immaginari. Non è un arretramento, è un cambiamento ricercato, c’è l’idea di provare a dipingere ritratti in musica senza rinunciare alla dimensione del sogno. Cinque anni fa ha pubblicato un album intitolato Cosa faremo da grandi?. Questo è un Cosa faremo da piccoli?. Pieno com’è di racconti del passato, dal tossico e a suo modo tenero re del rave al compagno delle medie scapestrato, Volevo essere un duro è anche un atto di ribellione poetica all’inesorabilità del tempo che passa, come se riscrivendolo e piegandolo al capriccio della fantasia lo si potesse ingannare. È anche il disco di un provinciale, nella grande tradizione dei racconti del primo Vasco Rossi o di Ivan Graziani, piccole vicende marginali che grazie al talento e all’osservazione empatica diventano epiche. Bello anche il finale dell’anno, col disco dal vivo e film La spada nella roccia suonato con una superband (e un numero speciale di Rolling Stone).

7

Pixel

Ele A

Ci prendiamo la licenza di inserire nei dischi italiani Ele A, nata in Svizzera in Canton Ticino, perché Pixel non solo parla la nostra lingua, ma è anche parte del nostro contesto hip hop (della scena, si sarebbe tempo ai tempi). Negli ultimi anni le rapper si stanno dando da fare: se Anna ha riscritto pagine del genere con il suo essere baddie, Ele A è la controparte old school, classic rap, che unisce momenti conscious ad altri più scanzonati. Ci sono le rime, c’è il flow: che è tutto ciò che conta. E per i nostalgici un po’ quel sapore da fly girl che qui non si vedeva dai tempi de Le mie amiche de La Pina. La ragazza ha solo 23 anni, ma le fondamenta sono quelle giuste; con l’esperienza aumenterà il peso delle parole.

6

El Galactico

Baustelle

Da una parte ci sono le canzonette solari, la bella musicalità, i suoni tintinnanti di Rickenbacker, i rimandi felici alla stagione del folk elettrificato dei Byrds, all’estate infinita dei Beach Boys, ai cantautori di Laurel Canyon, a Venice Beach e Santa Monica, alla Los Angeles anni ’60. Dall’altra ci sono testi cupi sulle nostre esistenze vuote e atroci, le piccole miserie, lo schifo, la morte. El Galactico fa spesso leva sul contrasto fra le scelte sonore e le parole da cui emerge una sempre più pressante ricerca di senso. I Baustelle scansano ironia e cinismo e raccontano la difficoltà che proviamo tutti quanti di stare al mondo e di starci bene, il nostro naufragare nel nulla, la crudeltà gratuita, la cattiva imitazione dell’amore, la vita e la violenza che diventano content, la riduzione delle possibilità, la desertificazione fuori e dentro di noi. Se El Galactico è un gran bel disco, superiore a Elvis, è anche per gli arrangiamenti, le stratificazioni sonore e gli abbellimenti fatti con strumenti a fiato, tastiere d’ogni tipo, chitarre, archi. Per il “corpo” che i rifondati e ri-stimolati Baustelle hanno dato alle canzoni. Pochi giorni fa hanno chiuso un ciclo coi primi due concerti nei palasport, feste meritatissime per i 25 anni di carriera.

5

Amuri luci

Carmen Consoli

Solo Carmen Consoli poteva pubblicare un disco così, un lavoro colto senza fartelo pesare, una dichiarazione politica senza slogan, un atto di resistenza senza lagnanze. Un disco con canzoni in italiano, catanese, greco antico, latino, primo capitolo di una trilogia che vedrà un album dedicato alle radici rock e uno al cantautorato. Non è un trattatello, ma un disco con una musicalità godibile, non è folclore riciclato, ma materia viva dove si mescolano o stanno una a fianco all’altra tante cose, ma per bene: la poesia dell’XI secolo e Peppino Impastato, Ignazio Buttitta e Jovanotti, Nina da Messina e Mahmood. Certo, bisogna investire del tempo per famigliarizzare con queste canzoni e con questo linguaggio, e forse è anche questo il punto. Ci sono fin troppi cantanti che ti dicono: non devi pensare, ti darò io qualcosa di famigliare, di semplice, non ti spiazzerò, darò ragione delle tue debolezze, sei perfetto come sei. Carmen Consoli ti dice un’altra cosa. Dice: prenditi del tempo per migliorarti, per scoprire cose diverse, per apprezzare un altro modo di fare musica. E anzitutto: guarda che siamo una comunità, guarda che esistono gli altri.

4

Furèsta

La Niña

Rimettere le mani nelle proprie radici, nella propria storia, per tirarne fuori un fiore del presente. Non poteva che essere Napoli, non poteva che essere donna, viene da aggiungere: Furèsta de La Niña è senza dubbio uno dei migliori dischi dell’anno. Dentro c’è un popolo, la tradizione, il femminismo, tutto filtrato attraverso una sensibilità sonora ed estetica contemporanea, moderna, come la via mostrata da artiste come Rosalía, Nathy Peluso, Lucrecia Dalt che qui risuonano negli echi della sorellanza. Tra tamburi e strumenti a corda del folklore campano, la voce di Carola Moccia si espande e estende richiamando a sé spiriti del passato. La figlia d’‘a tempesta scrive un racconto che non si limita solo al Sud, ma che diventa storia di una nazione e, proprio per questo, è stato anche molto apprezzato all’estero. Mistica del pop.

3

Post mortem

I Cani

È arrivato quando non lo aspettavamo più, atteso e inatteso, un oggetto singolare nella discografia italiana, un disco che parla un linguaggio che non usa più nessuno, anzi, un linguaggio che parla solo Niccolò Contessa. Sintetico in modo radicale, eppure pieno di cose e di suggestioni, cupo ma non deprimente, è un disco non solo di un autore di canzoni, ma anche di un produttore, arrangiatore, amante del suono. Post mortem è canto e disincanto, un’immagine frammentata della parte del mondo in cui siamo nati e allo stesso tempo dell’abisso che ognuno ha dentro di sé, il tutto detto con parole poche e sfumate e con musiche spesso meccaniche, grigie, precise. Molto originale e non è poco in un tempo in cui tutto è già stato detto, fatto, creato. Come se non bastasse, Contessa ha rilanciato con un gran bel tour in cui queste canzoni hanno preso forza e sostanza, spalleggiate da pezzi che oramai possiamo chiamare classici e che il pubblico conosce letteralmente a memoria. Una grande annata.

2

Joanita

Joan Thiele

Che disco, Joanita. Joan Thiele lo ha costruito tenendo in equilibrio riferimenti al nostro passato musicale, storie personali, cadenze contemporanee. È uno dei migliori dischi italiani dell’anno e prende una strada diversa da quella omologata del nostro pop. Thiele si è immersa nel mondo delle colonne sonore dei film italiani anni ’60 e ’70, in particolare quelle di Piero Umiliani. Grazie alle figlie del compositore Elisabetta e Alessandra, è entrata nel suo studio, ha messo le mani sui suoi strumenti, ha scelto passaggi delle sue colonne sonore da risuonare, altri ancora li ha campionati in modo intelligente facendoli diventare sostanza delle canzoni. Il risultato è un disco che dialoga col passato, quello musicale italiano e quello personale della cantautrice, e che somiglia a un’allucinazione sospesa in un tempo che è questo ma potrebbe anche non esserlo, un miraggio mediterraneo, un sogno in equilibrio tra il linguaggio essenziale e istintivo della contemporaneità e l’eleganza di un tempo che non tornerà più. Più che rimpiangerlo, quel tempo, vale la pena usarlo, riprenderci quel che è nostro, farlo con stile. È un disco di immagini, poco narrativo e molto cinematografico, con i suoni di chitarra tremolanti di certi western e melodie ariose. È uno spazio onirico in cui proiettarsi con l’immaginazione.

1

Una lunghissima ombra

Andrea Laszlo De Simone

Nella musica di Andrea Laszlo De Simone c’è uno scarto dal reale, un filtro che la rende insolita, un residuo di mistero, ed è lì che sta la sua bellezza. A quest’epoca di alta definizione e basso pensiero De Simone oppone una poetica che prevede artigianato musicale e riflessioni esistenziali. Scrive canzoni come quelle di Una lunghissima ombra che sembrano sospese fra realtà e immaginazione, razionalità e passione, passato e presente, pensiero e sovrappensiero. Può sembrare un nostalgico, ma non lo è. Canta l’insensatezza e allo stesso tempo la bellezza della vita. Parla di tutti noi, di questo tempo infelice, delle paure inespresse, dell’incapacità di riconoscere e quindi di correggere i nostri limiti e le nostre colpe. Non sono argomenti che uno vuol sentire in una canzone. E invece lui ti frega, li infila in pezzi melodiosi e ti ritrovi senza manco accorgertene a canticchiare che “se c’è qualcuno che non ha paura, io prego mi soccorra”. In Francia stravedono per lui, si veda ad esempio il César vinto con la colonna sonora di Le règne animal, le sue canzoni finiscono in un film dopo l’altro, gli propongono sceneggiature da musicare. Al posto di rilanciare con un progetto pensato per fare sfracelli, ha pubblicato una specie di concept dotato di una parte video complementare che ha fatto il giro dei cinema, un concept basato sull’idea dei pensieri intrusivi, le cose della vita su cui ti ritrovi a pensare tuo malgrado, le ombre, il disagio. E lo fa con un senso di meraviglia quasi fanciullesco e un modo di far musica che mescola digitale e analogico, con parti di archi sintetici poi “ripassati” (ma non cancellati) da strumenti acustici e una voce filtrata che contribuisce a spostare la musica in un mondo parallelo. Viva le singolarità, le eccezioni, i disallineati.

Iscriviti
Exit mobile version