Willoughby Tucker, I’ll Always Love You
Ethel Cain

Quest’anno Ethel Cain ha dimostrato che non le interessa vincere facile. Dopo il successo di American Teenager, ha pubblicato a gennaio Perverts, 89 minuti scaccia-pop, opera mistico-erotica fatta di strumentali lenti, bordoni, rumori, qualche canzone intrappolata in un sottosopra. Ad agosto è uscito il suo “vero” album in cui la cantante media l’intransigenza musicale di Perverts col carattere più disteso del disco-rivelazione Preacher’s Daughter. Willoughby Tucker, I’ll Always Love You è il prequel di quest’ultimo ed è ammantato dal medesimo senso di torbido mistero. Si cantano sia la vertigine, sia la paura paralizzante dei primi innamoramenti senza ricorrere all’abusato vocabolario del pop contemporaneo. Per niente facile, decisamente affascinante. Dal vivo, poi, torna tutto.
Addison
Addison Rae

Ascoltare l’album di debutto di Addison Rae, tiktoker diventata popstar, è come entrare allo Chateau Marmont in una calda giornata estiva. Ci sono piscine turchesi scintillanti, un sacco di sigarette, diamanti e tutto è immerso nel sole dorato di Los Angeles. Al centro di tutto questo glamour, Rae in tacchi a spillo. Addison è una ragazza della porta accanto sicura di sé, sfacciata, e che si libera del passato “virale” iniziando un nuovo capitolo con la capacità di creare un’atmosfera unica. Se Britney iniziasse ora, forse farebbe qualcosa di simile. E tra echi di Madonna e nostalgia del anni 2000, questo disco fa dimenticare cosa succede fuori.
Eusexua
Fka Twigs

Nel suo primo “vero” album in sei anni l’inglese reinterpreta rave e techno in chiave avant pop. Il risultato ci riporta a Ray of Light, il memorabile periodo elettronico di Madonna. E se la regina del pop si era affidata al produttore William Orbit, Eusexa è principalmente prodotto da Twigs con Koreless mescolando la tradizione del clubbing inglese a elementi più contemporanei. Dentro ci sono l’elettronica, l’IDM, l’hyperpop, il trip hop, con accenni di house e techno. Unico scopo: farvi muovere. Potremmo tranquillamente dire che questo è un album dance pop, ma trasmesso da una stazione radio pirata. E mai come quest’anno ce n’è stato bisogno.
Mayhem
Lady Gaga

Con Mayhem Gaga è tornata a divertirsi davvero e al sound che l’ha resa grande, tra pop rumorosissimo e omaggi a Prince e Michael Jackson. Il disco è ricco, con ritornelli potenti e decisamente coreografabili. Come se l’essenza di The Fame Monster e Born This Way si fossero fuse senza nostalgia. Lady Gaga ha creato il suo sound, e qui lo rivendica. Mother Monster is back (ma in fondo non era mai andata via).
West End Girl
Lily Allen

West End Girl è il disco in cui Lily Allen ha preso quello che sembrava un matrimonio perfetto e lo ha trasformato in un racconto feroce e spiazzante. Ogni traccia è un capitolo di dolore, confusione e auto‑affermazione, con testi che vanno dalla felicità della vita di coppia alla delusione di tradimenti e divorzio. Senza parlare della voce di Lily, che rende questa storia intima e affilata come una lama. Ci sono momenti in cui si ride e altri fanno stare male ma tutti hanno una caratteristica comune: ti colpiscono allo stomaco. Perché in West End Girl c’è vita vera. Ed è per questo che Lily Allen ha finalmente avuto il comeback che meritava.
Don’t Tap the Glass
Tyler, The Creator

Mai Tyler, The Creator era stato così prolifico. Dopo lo splendido (e superiore) Chromakopia dello scorso anno, il rapper di Los Angeles è tornato subito con un nuovo lavoro, un personaggio inedito da interpretare e un’altra idea solida su cui costruire. Poche regole: movimento del corpo, niente pesantezza, vietato toccare il vetro. Don’t Tap the Glass è un invito alla danza, ovviamente nella maniera storta e intrigante da Tyler, The Creator, fatta di electro e hi-nrg anni ’80. Mettiamo via quel cazzo di cellulare e balliamo.
Crooked Wing
These New Puritans

Ora possiamo dirlo: i These New Puritans sono una delle band più sottovalutate ed eleganti della scena musicale degli ultimi 20 anni. La creatura dei gemelli Barnett è rimasta fedele a se stessa e, abbandonati i fasti da classifica di inizio carriera, sta continuando il suo percorso alla ricerca del suono perfetto. In Crooked Wing questo si tramuta in composizioni ultraterrene, folklore e una ricchezza timbrica fatta di organi, canti di bambini, vibrafoni, xilofoni, campane. Con un occhio alla musica colta e un altro al minimalismo ossessivo di Steve Reich, i These New Puritans tirano fuori un altro album in cui perdersi in luoghi immensi. Arricchito, tra l’altro, dalla splendida partecipazione di Caroline Polacheck.
Let God Sort Em Out
Clipse

«Tu pensi che gli uccelli cantino, ma in realtà stanno stridendo di dolore». La celebre frase di Werner Herzog pronunciata in Burden of Dreams, il documentario che segue il dietro le quinte della produzione di Fitzcarraldo e che rimanda all’autobiografia dell’attivista Maya Angelou I Know Why the Caged Bird Sings diventa il solido ritornello cantato da John Legend nella traccia d’apertura del nuovo disco dei Clipse, che arriva a 16 anni dal precedente Til the Casket Drops. Il brano, che parla della scomparsa dei genitori dei due fratelli Thorton, vede la produzione di Pharrell, il coro gospel Voice of Fire e Stevie Wonder. E se solo per un brano c’è tutta questa densità, immaginatevi in un disco intero. Come suona il rap quando diventa adulto? Come questo album dei Clipse prodotto in maniera iper-minimale (le lezioni di Kanye sono arrivate forti e chiare alle orecchie di Pusha T) da Pharrell.
Cancionera
Natalia Lafourcade

In un mondo che vuole essere sempre più moderno, Natalia Lafourcade ama fare le cose alla vecchia maniera. Dopo il successo di De todas las flores e l’album live alla Carnegie Hall, la cantautrice messicana ritorna al fianco di Adán Jodorowsky, figlio del regista Alejandro, per presentarci il suo nuovo alter ego, la Cancionera, una figura-ponte tra il mondo intimo e universale della musica. Dentro come al solito c’è di tutto: rumba, jazz, tango, cumbia, bolero sono solo alcuni dei generi indagati dalla Cancionera nei 14 brani dell’album, registrati in presa diretta in studio con una band di 18 musicisti. Lafourcade si dimostra rispettosa, ricerca e delicatissima, come sempre.
Moisturizer
Wet Leg

Moisturizer conferma che le Wet Leg non hanno perso un briciolo del loro sarcasmo e della loro energia punk femminista. Tra chitarre taglienti e synth, Rhian Teasdale e Hester Chambers raccontano l’amore, il desiderio e le feste come una saga personale caotica. Ogni canzone ha il potere di farti smuovere, il suono è decisamente più pieno, audace. L’unica pausa da questo party è la ballad 11:21. Ma non fatevi ingannare: Moisturizer è un invito a partecipare a una megafesta rock, indie, post punk. Chiamatela come volete: resta un disco pazzesco.
Sable, Fable
Bon Iver

Una cosa è certa: Justin Vernon sa scrivere canzoni come pochi altri. Dopo la pubblicazione di Sable, Fable ha detto che «per la prima volta da quando avevo 12 anni non sto scrivendo canzoni», eppure l’uomo dietro ai Bon Iver quest’anno è stato prolifico. Ha pubblicato 13 brani come sempre affascinanti che ha collezionato nei due dischi che compongono Sable, Fable. Si passa dalle canzoni più intimistiche di Sable (uscito come primo EP a sé), che ci ricordano i primi Bon Iver, alle aperture anche pop (come Everything Is Peaceful Love) di Fable. Vernon ha forse trovato definitivamente la sua forma più matura? Ecco, allora non fermarti qui con i Bon Iver, mi raccomando.
Ego Death at a Bachelorette Party
Hayley Williams

Il 2025 è stato l’anno di Hayley Williams, nel suo piccolo. Perché nel piccolo ha voluto stare. Dopo un 2024 coi Paramore segnato dall’onda lunga di This Is Why, dalla cover di Burning Down the House dei Talking Heads e dalle aperture dell’Eras Tour («Buena sera Milano!»), Williams ha pubblicato una ventina di nuove canzoni prima a sorpresa e in ordine sparso sul suo sito, stimolando l’ascoltatore a compilare la propria tracklist, e in seguito come album tradizionale. Sono pezzi pop-rock spesso leggeri, senza spigoli, che veicolano però storie anche profonde e pesanti, vedi Glum (“Ti senti mai così sola che se implodessi nessuno lo scoprirebbe?”), l’ode alla Mirtazapine o True Believer, che Williams ha trasformato in un pezzo ancora più potente portandolo da Fallon (“Gesù è la via, dicono, però poi gli hanno dato un volto bianco così non devono pregare uno che considerano inferiore” e “Posano nelle cartoline di Natale con armi grandi quanto i loro figli”). Il disco è uscito per Post Atlantic, l’etichetta indipendente che ha lanciato dopo aver lasciato la Atlantic (pun intended), dove sicuramente lavora qualcuno dei “dumb motherfuckers” che Williams ha arricchito, come canta in Ice in My OJ. Da leggere anche il dialogo con Jack Antonoff sulla coscienza indie nel mainstream.
Touch
Tortoise

Per qualcuno è un lungo sogno, per qualcun altro uno spazio alieno oppure una sinfonia futuristica. È l’effetto che fa la musica strumentale quando stuzzica l’immaginazione: ci senti quel che vuoi. Le note ribattute di Works and Days sono la rappresentazione del nostro ottundimento quotidiano e Axial Seamount i Radiohead riprodotti da scienziati in un laboratorio sottomarino? Che cos’è Layered Presence, una specie di marcia sballata prog per chi non ama il prog? A Title Comes e Oganesson sono riletture di immaginarie colonne sonore di exotica anni ’70? E Night Gang e Vexations sono spaghetti western e surf music suonati da qualche strana macchina? Vale quasi tutto ed è questo il bello. Negli anni ’90 i Tortoise erano al centro delle discussioni sul cosiddetto post rock. Già allora era un’etichetta imprecisa, in questo tempo di post tutto non fa più alcun effetto, né differenza. Meglio allora dire che i Tortoise oggi sono un gruppo insolitamente ringiovanito per essere in giro da oltre trent’anni, forse con un tocco di dramma in più nella musica.
Big City Life
Smerz

Le Smerz, duo norvegese composto da Catharina Stoltenberg e Henriette Motzfeldt è sempre stato un oggetto misterioso e indefinibile dell’underground. Dopo anni a depistare la propria vena più pop al pubblico e gli addetti ai lavori (operazione avvenuta con enorme non-successo), con Big City Life le due hanno abbandonato le sperimentazioni più strambe per scrivere un disco di canzoni pop. Rimangono certi intellettualismi, certo, soprattutto nel taglio ironico dei testi, ma le produzioni sono minimali, smaccatamente catchy, con melodie comode per le nostre orecchie. Dopo aver ascoltato Big City Life non ci resta che affermare: ma quanto sono cool le Smerz?
Pirouette
Model/Actriz

Ascoltando Pirouette degli americani Model/Actriz non vengono in mente artiste come Liza Minnelli e Grace Kelly. Eppure, in un gioco di contrasti, sono queste le figure che la band e il suo leader Cole Haden hanno scelto come muse di un progetto che mischia elettronica (suonata con gli strumenti), affermazione omosessuale e attitudine punk, rinunciando a ogni mascolinità machista. La loro musica è un balletto di opposti, si muove sul filo sottile che si tende tra nichilismo e piacere, noise e melodia, senso di appartenenza e costruzione del sé. E dopo averli visti in Italia in tour anche quest’anno, possiamo finalmente dire che anche su disco sono finalmente a fuoco.
More
Pulp

Per Uncut, Mojo e Times è il disco dell’anno. Noi non siamo inglesi e quindi un filo più laici nei confronti del culto di Jarvis Cocker e dei Pulp. Sempre brillanti, per carità, anche in questo disco che è il primo dopo quasi un quarto di secolo, nonché 20 anni precisi dopo Common People e Different Class. Il passare degli anni si sente nella mancanza di brio, di idee nuove, di brillantezza nelle musiche e forse è anche questo il senso di un album che racconta che cos’è rimasto dei ragazzi degli anni ’90 ponendosi un sacco di domande a volte con toni melodrammatici su questa “contactless society”, su cosa siamo diventati e perché mai l’amore è oramai solo un rumore di sottofondo o una chimera. C’è ad esempio Grown Ups, ambientata nel Natale del 1985: “Non sto invecchiando, no, sto solo maturando”. E Tina, racconto di un amore coltivato da solo e a distanza da un uomo che ama e spia una donna da 14 anni, sono “scene da un matrimonio che non c’è mai stato” un po’ tenere e un po’ inquietanti. I pezzi più riflessivi come The Hymn of the North funzionano meglio di quelli che sembrano pensati per far saltare la gente ai festival come Got to Have Love (quella di “senza amore ti stai solo masturbando dentro qualcun altro”). Se a un primo ascolto vi sembra un disco discreto e niente più, provate a risentirlo seguendo i testi e capirete se già non lo sapete quant’è bravo Cocker. Non è “uno sciamano e nemmeno uno showman”, lo canta lui, ma è comunque “nato per esibirsi”.
Everybody Scream
Florence + The Machine

È uscito ad Halloween ed è giusto così. Everybody Scream è una sorta di rito mistico pop, elaborazione in chiave gotica di un trauma personale (l’aborto spontaneo subito da Florence Welch durante il tour di Dance Fever), ma anche una riflessione sulle relazioni e sul mestiere di cantante e in particolare sull’essere una donna in un mondo di uomini. Non mancano i soliti, trascinanti pezzi spudorati come Everybody Scream e One of the Greats, rispettivamente il racconto di cosa si prova sul palco mentre migliaia di persone ti acclamano e il luogo dei dubbi sul proprio valore. Ma ci sono anche canzoni influenzate dal vecchio folk, il tutto con una gran quantità di cori femminili, come se fosse una comunità che accompagna e protegge Welch nei suoi flussi di coscienza e nelle sue confessioni. È un disco pieno di arrangiamenti cupi e vividi, di bridge spiazzanti, di canzoni meravigliosamente verbose, di visioni tremende abbinate a melodie pop, di tensioni e liberazioni. Proprio come Welch quand’è sul palco, il disco è spudorato, ingombrante, potente, e finisce con una canzone-preghiera in cui si promette che il dolore passerà. Magari.
Hurry Up Tomowwor
The Weeknd

The Weeknd guarda negli abissi della sua carriera con la stessa intensità con cui ha sempre messo in scena gioia ed eccessi. Nelle 22 tracce di Hurry Up Tomorrow affronta fama, fragilità, paura di perdere tutto, oscillando tra momenti altissimi e altri che ti afferrano per la gola. C’è il funk claustrofobico di São Paulo, c’è la dolcezza spettrale di Open Hearts, ma è nei passaggi più umani che il disco colpisce davvero. Hurry Up Tomorrow può sembrare anche il lamento di un uomo su un trono dorato, ma è proprio in quella vulnerabilità che ritroviamo un artista che non rinuncia alla sperimentazione pur restando squisitamente pop. Che sia l’ultimo capitolo della sua trilogia o l’alba di qualcosa di nuovo, resta uno dei progetti più stratificati dell’anno
Lotus
Little Simz

Abbiamo finito i termini per definire la bravura di Little Simz, a mani basse la rapper più forte dell’ultimo decennio. Nonostante faccia di tutto per non farsi trascinare nel mainstream vero e proprio, la rapper qui piazza l’ennesimo album godibile dalla prima all’ultima traccia. Un disco che sottolinea la sua caratura e che funziona splendidamente anche nella scelta (sensata) dei featuring con alcuni dei maggiori esponenti della musica afro-discendente inglese come Obongjayar (in Flood e Lion), Michael Kiwanuka e Sampha (in Blue), o americana come Moses Sumney (in Peace). Un album, come sempre, denso nei testi («il più personale dei miei dischi») e nelle produzioni.
Sad and Beautiful World
Mavis Staples

Ci sono i grandi del soul e poi c’è Mavis Staples. Trovatene un’altra in grado di tirare fuori un disco come Sad and Beautiful World in cui a 86 anni (ottantasei!) canta in questo modo. In fondo nel suo centomillesimo album non fa niente di diverso da quel che ha sempre fatto: prendere pezzi altrui e infondere loro del soul, dell’anima. Sarà il tono intenso e allo stesso tempo lieve, sarà la scelta delle canzoni, sarà il talento dei musicisti e del produttore Brad Cook. Fatto sta che Sad and Beautiful World è il disco migliore di Staples da un sacco di tempo a questa parte, un corso su come si interpretano le canzoni senza calcare la mano, senza gridare, senza per forza spettacolizzarle. I pezzi vanno dalle radici della musica amata da Staples, vedi Everybody Needs Love di Eddie Hinton e la classicissima Satisfied Mind, ad autori più recenti come Frank Ocean e Kevin Morby, passando per Leonard Cohen e Tom Waits, con ospiti molto discreti come Jeff Tweedy, MJ Lenderman, Bonnie Raitt, Katie Crutchfield (Waxahatchee). “Persino in questi giorni trovo del buono in noi, a volte”, canta in Human Mind, scritta apposta per lei da Allison Russell e Hozier. La saggezza di chi viene da lontano, una luce nel buio di questi anni, la coscienza di essere una delle ultime voci di una generazione: “Ho affrontato la perdita, papà”, canta la figlia del leggendario Pops Staples, “sono l’ultima, papà, l’ultima di noi”. Poi che cosa ci resterà?
Hopefully!
Loyle Carner

Il rap inglese, oggi, è meglio di quello americano? A sentire il disco di Loyle Carner non si può che rispondere con un grande sì. Se negli ultimi anni il livello era stato alzato da artisti come Little Simz e Dave, nel 2025 il testimone passa a Loyle Carner, uno dei rapper più musicali e intelligenti della scena di Albione. Un disco suonato, in cui la voce calda di Carner ci parla intimamente come quella di un amico. Se la trap ultimamente si è persa a guardarsi attorno con gli occhi spenti dalla lean, il rap degli ultimi anni ha iniziato a guardarsi profondamente dentro tra traumi, autoanalisi, difficoltà personali e sociali. Hopefully! è un’immersione nell’inconscio di Loyle, a volte appoggiata alle note di un piano sognante, altre volte sui chorus di una chitarra strummata, altre ancora su psicotici amen break che perpetuano il racconto dell’hardcore continuum inglese. Se il tuo migliore amico facesse un disco, suonerebbe così.
Never Enough
Turnstile

Con Never Enough e sopratutto coi loro concerti magnificamente caotici i Turnstile hanno trasformato l’hardcore in una cosa pop. Lo dice del resto il cantante Brendan Yates che non si tratta di un genere, ma di una comunità di valori e intenti. Di sicuro loro nel disco lo interpretano con grande libertà, suoni molto puliti per chi è abituato al genere e alle sue radici nella scena di Washington DC e dintorni, ritornelli che vanno verso il pop, molti synth, l’epica al posto della rabbia, e pezzi come Seein’ Stars che sembrano usciti dagli anni ’80, sì, ma non da una band post punk, piuttosto da un gruppo synth pop con un cantante che adora Sting. È questa la forza e per chi non li apprezza il limite dei Turnstile quando fanno dischi: fanno sembrare questa musica talmente leggera e fresca da essere stata concepita ieri da chi non ha coscienza della storia. Questo hanno raccontato i Turnstile nel 2025: non esistono più guilty pleasures, puoi suonare di tutto, puoi mischiare synth pop e hardcore e se lo fai con forza ed entusiasmo la gente ti seguirà. «Siamo cresciuti andando ai concerti punk e hardcore, ma anche ascoltando rock, metal, alternative, R&B, rap, elettronica, di tutto», ha detto Yates alla fine della “Turnstile summer” profetizzata da Charli XCX al Coachella. «È importante non chiudersi in una gabbia per proteggerti da quello che ti attira».
Double Infinity
Big Thief

Double Infinity è fuori dalle categorie del rock attuale. Per capirlo e quindi per apprezzarlo devi prenderti 40 minuti, metterlo su al giusto volume, prestare attenzione ai testi. È un’esperienza sonora poco contemporanea e molto soddisfacente. Rimasti in tre dopo l’uscita dal gruppo del bassista Max Oleartchik, i Big Thief hanno invitato una decina di musicisti e amici a unirsi a loro durante le jam in studio per realizzare il disco in un’atmosfera creativa, con l’idea di far musica liberamente, con dentro di tutto, dai loop fatti coi nastri al suono di una cetra da tavolo, e poi cori, percussioni e il resto dell’armamentario tipico d’una rock band assemblato però in modo lievemente atipico. Il risultato è una musica elettrica che sembra galleggiare nel nulla su cui Adrianne Lenker sovrappone ricordi ed elucubrazioni, una sorta di folk-rock cosmico sempre estremamente misurato e allo stesso tempo tagliente, con un registro canoro dolceamaro che è perfetto per raccontare storie ordinarie dentro cui trovare lo straordinario. Con le sue canzoni al confine tra conscio e subconscio, canzoni che nella seconda parte sembrano espandersi e allo stesso tempo diventare più scarne fino a trasformarsi quasi in mantra, Double Infinity è anche un album sulla capacità di trovare la bellezza nel quotidiano, sull’accettazione della vita, sull’abbandonarsi ad essa, sul tempo che passa.
Choke Enough
Oklou

Believe the hype. Dopo aver tanto ben fatto sperare con Galore, la musicista francese Oklou si è presa il tempo (complice una gravidanza) per preparare e autoprodursi un album che prendesse il meglio della semina dell’hyperpop (e della PC Music) per costruire un avant pop capace di unire ritornelli catchy, avanguardia e intimismo. Il risultato è Choke Enough, art pop da synth vaporosi e candidi ritmi elettronici minimal, con la voce di Oklou che ci guida nelle foschie di questo nuovo pop di confine. Un’esplorazione del proprio cambiamento, dell’incertezza di questi tempi alla ricerca di un nuovo equilibrio, tra sogni lucidi e paesaggi bucolici. Delicato, elegante, per non soffocare nella mediocrità.
Baby
Dijon

Baby di Dijon è il disco che non ti aspetti: è pop, è R&B, ma è anche sperimentale. Per reinventarsi Dijon ha improvvisato, usato campionamenti hip hop vecchia scuola, voci effettate e accelerate per abbandonare le coordinate dell’R&B classico e registrare un lavoro emotivamente forte. Si parla di paternità, famiglia e piccoli momenti di vita vissuta intensamente. E proprio perché non è facile da classificare ti resta addosso: uno dei dischi più spiazzanti e affascinanti dell’anno.
Bleeds
Wednesday

Il rock può essere ancora degli underdog, di quelli non conformi al fighettisimo, di quelli che solo a vederli in foto senti puzza d’alcol e di provincia profonda. Loro si chiamano Wednesday, sono il gruppo di Karly Hartzman e MJ Lenderman (che però dopo la rottura della coppia non li segue più in tour) e suonano alternative rock con la foga disperata dei Nirvana e un gusto squisitamente sudista, nel senso di North Carolina. È musica viscerale per gente coi tatuaggi, gli stivali da cowboy e gusti musicali alternativi. È il country elettrico e distorto di una banda di strambi che però sa come si scrive una bella melodia. È vita ai margini, anche schifosa. Nelle canzoni si vive, si muore, si fa a botte, si va ai funerali, si beve, si ammazza, ci si droga, si prendono mazze da baseball sui denti, si vomita, ci si toglie le zecche (letteralmente). Il risultato è meravigliosamente stropicciato ed emotivamente forte.
Essex Honey
Blood Orange

La morte di una madre è sempre uno sconvolgimento nella vita di un uomo. Alla soglia dei 40 anni Devonté Hynes si è trovato costretto a ritornare nella sua Inghilterra, in particolare nell’area dell’Essex, e dialogare con gli spettri del passato, del presente, del futuro. Siamo dentro i diari di una crisi che viene però trattata e vissuta con una delicatezza unica. Fuori dalla cameretta d’infanzia piove sulla campagna. La nostalgia si insinua nelle chitarre e nei riverberi. La musica è – ancora – salvezza. Con Devonté gli amici di oggi: Caroline Polachek, Lorde, Brendan Yates dei Turnstile, Tirzah, Daniel Caesar. Tutti i brani sono realizzati con deliziosa cura tanto che l’album può scorrere senza che ci sia la necessità di doversi soffermare sulla hit (sebbene The Field, costruita su Sing to Me dei Durutti Column, possa ambire a esserlo). Essex Honey non è una collezione di singoli, come il pop moderno ci ha insegnato, ma un disco che nei suoi 14 brani racconta la crisi struggente di un uomo. Di dischi così ce ne vorrebbero molti di più, c’è poco da fare.
Debí Tirar Más Fotos
Bad Bunny

È il disco che ha segnato il ritorno di Bad Bunny in una forma artistica straordinaria. Ha preso le sonorità della tradizione portoricana come la plena e il jíbaro, le ha intrecciate con salsa, house e urban e ha dato vita a un’opera profondamente radicata nella sua identità culturale. Un disco che guarda al passato per reinventare il presente e che quest’anno ha conquistato il mondo, ancora una volta. Ed è quasi come se Benito fosse seduto su una di quelle sedie da giardino di plastica bianca che si vedono in copertina, a bere rum e godersi il panorama. Insomma, un vero e proprio instant classic del 2025 che negli Stati Uniti si è intrecciato col dibattito sull’immigrazione, diventando ancora di più un disco politico, come dimostra il dibattito a tratti isterico attorno al prossimo Super Bowl.
Getting Killed
Geese

Il 2025 è stato l’anno dei Geese. Perché con Getting Killed hanno contribuito a porre fine alle speculazioni sulla fine del rock. Ascolti loro, vai a vedere gli Idles, senti l’entusiasmo per i Fontaines D.C., metti su i Wednesday o guardi un video del macello che succede ai concerti dei Turnstile e ti sembrano effettivamente tutte chiacchiere sorpassate. È stato il loro anno anche per il successo di Heavy Metal, album di Cameron Winter uscito a fine 2024 che è cresciuto col passare dei mesi, incassando la benedizione di Nick Cave e portando il musicista a esibirsi lo scorso 11 dicembre alla Carnegie Hall davanti alle videocamere di Paul Thomas Anderson. Sono comparsi anche articoli su come farsi i capelli come quelli del cantante, che è finito sulla copertina del New York ritratto mentre condividere le cuffiette in metro con Debbie Harry ed è stato oggetto di una parodia al SNL. Qui però contano soprattutto le canzoni e quelle di Getting Killed compongono un disco formidabile perché comunicano in modo viscerale e caotico, giocano con l’idea di pastiche rockettaro, un mischione senza regole apparenti se non quella del gusto personale per suoni messi a punto durante lunghe jam session in studio. Alcune canzoni sono pure esplosioni di energia con testi che rasentano il nonsenso (“Do you know what I mean?”, no che non lo sappiamo), ma hanno la forza provocatrice degli slogan. Altre sembrano contorsionismi sonori di musicisti che cercano in tutti i modi di uscire dall’ombra ingombrante e dannosa del passato che tutto ingloba usando l’arma seducente della nostalgia. Qui si replica poco o niente, si cerca piuttosto di inventare qualcosa. Ascoltare questi pezzi, su cui forse non a caso ha messo mano un produttore hip hop (Kenny Beats) e non rock in senso tradizionale, significa entrare in un mondo di stranezze sonore seducenti, pezzi sfaccettati, a volte divertenti, a volte accorati, a volte esaltanti. Esageriamo: Getting Killed è l’Exile on Main St. del 2025 con un senso di urgenza e divertimento, di poesia e di caos dissonante e stonatello che solo le band under qualcosa riescono ad avere. Stiamo allegri, il rock è vivo.
Lux
Rosalía

È stato il disco più chiacchierato, discusso, dissezionato, ma anche amato e odiato dell’anno. Dall’uscita del primo singolo, Berghain, con l’orchestra in tutta la sua forza e le strofe cantate in tedesco, non si è fatto altro che parlare di Rosalía. A buona ragione. In un momento storico dove l’industria musicale predilige non rischiare e rimanere su territori safe, la popstar (termine piuttosto riduttivo ad oggi) ambisce come sempre al coraggio, all’inedito, con concept album che sfidano la normale percezione della tradizione, del presente, del futuro. In Lux ci sono gli ultimi echi del suo flamenco, certo, ma l’album si nutre degli studi di musica classica dell’artista per intraprendere un viaggio spirituale e religioso verso l’illuminazione. Se Kanye West aveva fallito il tentativo con God Is King, Lux riesce a domare l’infinitezza nel pop, a raccogliere bagliori ultraterreni con cui impreziosire alcune delle tracce più belle della musica pop degli ultimi decenni. Mio Cristo piange diamanti, La Yugular, Reliquia sono canzoni che aprono orizzonti, mentre la stessa Berghain verrà probabilmente ricordata come uno spartiacque del pop di questi giorni. Mentre attorno a lei non si fa che perdersi in inutili chiacchiericci, Rosalía continua a pensare al di sopra dei confini del pop, iniziando seriamente a farci pensare che possa diventare un pilastro della prossima storia della musica. Dopo El mar querer e Motomami, un altro disco dell’anno per Rosalía.













