I 25 migliori album usciti nel 1983 | Rolling Stone Italia
Accadeva 40 anni fa

I 25 migliori album usciti nel 1983

Grandi dischi rock, il new romantic che sfonda, Madonna che inizia a cambiare il pop, il metal che va in classifica: ecco il meglio dell’anno, dai R.E.M. ancora underground agli U2 di ‘War’

I 25 migliori album usciti nel 1983

U2

Foto: Aaron Rapoport/Corbis via Getty Images

Che il 1983 sia stato uno degli anni cardine del decennio definito spesso in modo sbrigativo “quello della plastic music”, lo si intuisce anche solo dal fatto che sia stato quello dell’esplosione mondiale di Thriller, uscito l’anno precedente ma compreso appieno solo da quel momento in avanti. Il vecchio rock, ormai passato attraverso la drastica cura del punk e trasformatosi in qualcosa di ancora differente rispetto alla proposta di Sex Pistols e soci, aveva lasciato definitivamente spazio a sonorità completamente inedite, caratterizzate in larga parte da strumenti fino a qualche anno prima inimmaginabili.

In primis i sintetizzatori, che insieme all’uso abbondante di drum machine, furono in grado di cancellare di fatto i precedenti vent’anni di musica popolare. Punk compreso, per l’appunto, che a ben vedere aveva continuato a reggersi su strumenti affini a quelli delle band che voleva eliminare dalla faccia della terra. La prima conferma del dilagare di un certo sound fu proprio che molti dei gruppi che avevano segnato la storia del rock fino a qualche anno prima passarono con entusiasmo, più o meno posticcio, a sonorità che mai avrebbero pensato di abbracciare. Band come i Queen, che avevano sempre dichiarato orgogliosamente di non utilizzare synth nei loro album, da The Game in poi scelsero il lato oscuro della forza, così come i Rolling Stones, Robert Plant o Neil Young.

Una delle cose che più colpisce degli album usciti nel 1983 è che quasi ognuno di essi sia diventato il più venduto della carriera degli artisti in questione. Anche di gente come David Bowie, che qualcosa di più intrigante di Let’s Dance aveva decisamente fatto in passato. Sono anche gli anni del metal che, in qualche modo, fa propri gli insegnamenti di band come Deep Purple, Black Sabbath e Led Zeppelin e li filtra attraverso la furia del punk per trasformarli in qualcosa di ancora più viscerale e violento capace di dare vita ad una significativa forma di ribellione (e di fratellanza).

Una commistione di generi che vede anche il ritorno prepotente alle radici folk, come dimostrato da band come i Violent Femmes o i R.E.M. di Murmur. Se tralasciamo poi per un attimo le mere sonorità per affrontare i testi e il momento socioculturale dell’epoca ci accorgiamo anche di quanto la gran parte di quella musica possedesse vari chiavi di lettura, diversi strati: anche le canzoni apparentemente più frivole, infatti, risentivano di un momento storico caratterizzato dal terrore di un conflitto atomico che sembrava sempre più imminente e di un quadro politico tra i meno rassicuranti dai tempi della fine dell’ultimo conflitto mondiale. Anche per questo, scegliere i venticinque album più significativi pubblicati nell’arco di quei dodici mesi non è stato semplice. Qualche vittima illustre, come gli Yes di 90125 o il Billy Joel di An Innocent Man, forse grida vendetta, ma queste sono le nostre scelte.

Sweet Dreams (Are Made of This)

Eurythmics

4 gennaio 1983


Prima del 1983, gli Eurythmics sono già una band allo sbando. Il primo album è passato praticamente inosservato, Dave Stewart e Annie Lennox stanno affrontando rispettivamente dipendenza ed esaurimento nervoso e tutto questo senza una sterlina in tasca. Inoltre, la loro relazione sentimentale è finita malamente. Stewart ottiene un prestito di 5000 sterline che la capacità imprenditoriale di Lennox trasforma in oro. I due affittano un appartamento-studio sopra una segheria e un avveniristico Movimento System Drum Computer, il cui suono condizionerà l’intero album. Il resto lo fanno i testi ma soprattutto l’immagine androgina della Lennox, che fa propri gli insegnamenti tanto di David Bowie che di Grace Jones risultando ora calda e soul, ora glaciale e robotica.

Pyromania

Def Leppard

20 gennaio 1983

Quando giungono al terzo album, i Def Leppard sono già uno dei nomi forti della New Wave Of British Heavy Metal, ma al successo planetario manca ancora l’ultimo step. La band lo trova nel giovane chitarrista Phil Collen e comprendendo appieno l’importanza di MTV: dall’heavy metal all’heavy rotation il passo è breve. Ammorbidita la proposta e compresa l’importanza della melodia e dei ritornelli da stadio, la band esplode in America prima ancora che in Inghilterra, dettando di fatto l’inizio di quella corrente hair metal che farà sfracelli da lì ai successivi cinque anni. Grazie a brani come Photograph, Rock! Rock! (Till You Drop), Foolin’ e Rock of Ages, oltre che alla produzione del Re Mida Robert “Mutt” Lange, Pyromania diventa immediatamente il metro di paragone del rock melodico del decennio. Da una parte all’altra dell’oceano.

War

U2

28 febbraio 1983

Dopo gli ottimi ma ancora acerbi Boy e October, gli U2 pubblicano il primo vero classico della loro lunghissima carriera. Tutti gli elementi presenti nei dischi precedenti trovano la quadra capace di rendere la band di Bono e The Edge il punto di riferimento per il rock del decennio. La commistione di impegno, coerenza e innovazione musicale trasforma il gruppo irlandese da next big thing a traino di un genere i cui grandi protagonisti del decennio precedente arrancano inesorabilmente. Oltre ai temi presenti fin dagli esordi (rabbia giovanile, riferimenti biblici e vita quotidiana), questa volta la differenza la fanno i brani più politici: Seconds e la sua preoccupazione verso il disastro nucleare, New Year’s Day dedicata a Lech Walesa, ma soprattutto Sunday Bloody Sunday, il sentito e straziante ricordo della strage di Derry del 30 gennaio 1972. Probabilmente il brano antimilitarista più importante del decennio.

True

Spandau Ballet

4 marzo 1983

Fa sorridere l’idea degli Spandau Ballet come boy band da video in rotazione su MTV e in lotta con i Duran Duran per lo scettro di gruppo giovanile per eccellenza. È questo che a lungo è stato raccontato. La verità è che tanto gli Spandau che i Duran erano forse la cosa più lontana dalla nostra concezione di boy band, quella di gruppi creati a tavolino per fare un po’ di soldi facili e finire nel giro di un paio d’anni dopo aver spremuto milioni di teenager. Maestri di stile (pare che nessuno li abbia mai visti vestiti male), con True Tony Hadley e soprattutto l’autore di ogni brano Gary Kemp capiscono che sia il filone danzereccio cui erano inizialmente affini, sia la new wave in senso stretto stanno finendo il proprio ciclo vitale e virano verso una proposta di classe, tra pop soul e new romantic. Musica ruffiana, ma d’impatto.

The Hurting

Tears for Fears

7 marzo 1983

Se Songs from the Big Chair resta l’album per eccellenza, quello della maturità e della consacrazione mondiale, The Hurting gli contenderà per sempre il primo posto nelle classifiche dei migliori album dei Tears for Fears. C’è un filo conduttore strettissimo tra il debutto del duo Orzabal-Smith e quello di John Lennon. Entrambi, infatti, sono guidati o ispirati dalla teoria dell’urlo primordiale di Arthur Janov, con la differenza che Lennon poteva permettersi le sue cure, mentre i Tears For Fears speravano di potersele pagare con i proventi del disco. Il risultato? Una sorta di lunga seduta di psicanalisi con sottofondo di sintetizzatori, la dimostrazione più lampante del fatto che quella che per anni fu bollata come plastic music in realtà poteva sprizzare dolore e sentimento, classe e gusto anche se con strumenti cui la critica di allora era decisamente poco avvezza. Meglio tardi che mai.

The Final Cut

Pink Floyd

21 marzo 1983

Odiato, ripudiato e bistrattato come pochi altri nella storia del rock, l’ultimo album a vedere in formazione Roger Waters merita anche solo per ragioni storico-culturali un posto d’onore (o disonore) nella storia dei Pink Floyd. Poi lasci da parte i pregiudizi, gli schemi mentali e l’importanza di ciò che l’aveva preceduto e ti accorgi che un disco così intenso, straziante e duraturo né i Pink Floyd, né Roger Waters sono stati più in grado di realizzarlo nei decenni successivi. Segno che forse così male non doveva poi essere nemmeno ai tempi. The Final Cut non è certo disco da scampagnata fuori porta, né tantomeno da trip lisergico: è un viaggio all’inferno che lascia pochissima speranza nel genere umano. E che, forse anche per questo, crea una perversa dipendenza e una voglia irrefrenabile di abbracciare il vecchio Rog (senza farsi vedere da Gilmour).

Eliminator

ZZ Top

23 marzo 1983

Attivi dalla fine degli anni ’60, gli ZZ Top non erano certo dei novellini nel 1983. A differenza di molti colleghi, però, la band texana ha capito che le nuove tecnologie potevano essere funzionali persino ad una proposta come la loro, se usate nel modo giusto. Giunti ormai all’ottavo album, i tre decidono di calcare la mano su sintetizzatori, sequenzer e drum machine, che avevano già utilizzato con ottimi risultati sul precedente El Loco, riuscendo così nel compito di fondere blues old school e innovazione senza risultare per questo patetici o derivativi. Il risultato finale è straordinario e gli ZZ Top dopo anni a sudare on the road diventano milionari. Legs, Gimme All Your Lovin’ e Sharp Dressed Man, spinti in modo maniacale da MTV diventano hit senza tempo, portando Eliminator e l’omonima Ford coupé in copertina a vendere più di dieci milioni di copie.

Murmur

R.E.M.

12 aprile 1983

Si può debuttare nel 1983 con un album senza assoli di chitarra, sintetizzatori, singoli radiofonici e classificarsi al primo posto nella classifica annuale di Rolling Stone, superando Thriller di Michael Jackson e Synchronicity dei Police? Il tutto senza una major alle spalle e provenendo da Athens, Georgia? Sì, quando la tua band sembra giunta da un posto alieno solo per dare vita al rock alternativo dei vent’anni successivi. Murmur non è certo l’album più venduto dei R.E.M., né (forse) il migliore, ma da solo vale l’intera carriera di decine di band. Anche solo per il fatto di essere riuscito a stravolgere completamente il concetto di college rock. Non ci saranno i singoli che la band sarà in grado di sfornare nei decenni successivi, ma è nella sua complessità che Murmur rasenta la perfezione. Un mood folk che pervade per intero le tracce, accompagnato da sprazzi psichedelici, influenzato sicuramente dai primi Who e da una band come i Byrds, che affascina anche per un’oscurità di fondo amplificata dal cantato strascicato e spesso incomprensibile di Stipe. Il punto di partenza di parte del rock alternativo a venire.

Violent Femmes

Violent Femmes

13 aprile 1983

Prima di trovare un contratto con la minuscola Slash Records, i Violent Femmes avevano vissuto un solo momento di semi-celebrità: notati dal chitarrista dei Pretenders mentre suonavano per strada prima del loro concerto, erano stati inviati ad aprire il concerto di Chrissie Hynde e compagni con un set di tre canzoni. Quando, due anni dopo, esordiscono col disco omonimo, inevitabilmente nessuno si accorge di loro. La distribuzione legata al circuito universitario o alle copie pirata permettono però alla band di infiltrarsi dal basso e di crescere fino a tracimare nel giro di qualche anno. D’altra parte ci sono album che non seguono linee dirette, che passano attraverso circuiti sconosciuti, che magari sembrano aver perso la propria occasione e che invece di colpo rinascono. E un album come questo era destinato ad arrivare prima o poi. Un po’ come i R.E.M., i Violent Femmes recuperano un certo country-folk americano, ma lo caricano di un’attitudine punk decisamente più marcata, creando un ibrido inedito e ancora oggi attuale (anche grazie a tematiche universali come il passaggio all’età adulta). E con una delle copertine più iconiche di sempre.

Let’s Dance

David Bowie

14 aprile 1983

I fan duri e puri di Bowie faticano ancora ad accettare che l’opera più venduta della sua carriera resti Let’s Dance, un album costruito (anche secondo le parole dello stesso Bowie) per raggiungere il numero maggiore di persone possibile. Eppure, nonostante le prime avvisaglie della crisi che lo coglierà da lì in avanti, l’album di China Girl, Modern Love e Cat People era e resta un album fondamentale, l’ennesimo tentativo di Bowie di confrontarsi con qualcosa per lui di sostanzialmente inedito. Come aveva fatto per ogni album precedente. La presenza alla chitarra di un semisconosciuto Stevie Ray Vaughan e un songwriting che, solo a livello più superficiale, appare meno ermetico che nel recente passato elevano l’album oltre il mero dato statistico delle copie vendute.

Power Corruption & Lies

New Order

2 maggio 1983

Manchester sta lentamente mutando da città industriale, grigia e depressa a centro nevralgico della vita notturna inglese. Non è dunque un caso che il secondo album dei New Order rappresenti quello del distacco definitivo dall’esperienza dei Joy Division per diventare qualcosa di originale, qualcosa con cui la gente potesse ballare e non più crogiolarsi nel dolore e nella rabbia. Fatta propria l’esperienza dei Kraftwerk, ma filtrata attraverso una sensibilità opposta a quella teutonica, i New Order creano un’opera in cui sintetizzatori e drum machine convivono perfettamente con tutto il resto. Un micromondo in cui uomo, macchina e natura sono perfettamente compatibili. Il lato umano (nonché ultimo collegamento col passato) resta il basso potente e melodico di Peter Hook. Capostipite assoluto del synth pop che verrà.

Piece of Mind

Iron Maiden

16 maggio 1983

Se gli anni ’80 verranno ricordati anche come quelli dell’invasione metal, gran parte del merito va alla formazione capitanata da Steve Harris. Il quarto album da studio, il secondo con alla voce Bruce Dickinson e il primo a vedere dietro alle pelli Nicko McBrain, prosegue sulla strada segnata dal precedente The Number of the Beast, mostrando a livello testuale una caratura (e una cultura generale) decisamente superiore alla media. Non a caso, praticamente ogni brano dell’album trae ispirazione da film, libri o eventi storici particolarmente significativi per i membri del gruppo. Nonostante un leggero calo fisiologico nel finale, le cinque tracce iniziali restano qualcosa di quasi perfetto e culminano nell’iconica The Trooper.

Holy Diver

Dio

25 maggio 1983

Nel 1983 Ronnie James Dio ha già salvato in qualche modo la vita prima a Ritchie Blackmore dopo la separazione dai Deep Purple e poi ai Black Sabbath reduci dalla drammatica rottura con Ozzy. Ora Ronnie si sente pronto a ballare da solo e lo fa con un lavoro che lo consacra come sorta di Re Mida dell’hard rock mondiale. Holy Diver riesce infatti a fondere in qualche modo le esperienze precedenti, tenute insieme dall’epicità dello stile compositivo e da una voce riconoscibile come poche. Non a caso brani come la title track, Stand Up and Shout, Don’t Talk to Strangers e Rainbow in the Dark rimarranno per sempre nella setlist dei suoi show. L’ultima, poi, diventa subito uno degli inni ufficiali di tutti i metal kids sparsi per il mondo.

Speaking in Tongues

Talking Heads

1 giugno 1983

Quando, nel giugno 1983, esce nei negozi Speaking in Tongues, la fama dei Talking Heads è ai massimi livelli. Il rischio di deludere le aspettative dei vecchi fan è dunque ai massimi livelli. David Byrne, però, non è certo tipo da farsi influenzare dal parere del pubblico e la band si ripropone con un nuovo sound, più vicino alla disco, sempre sofisticato ma meno originale. Il risultato? L’album venderà più di tutti i precedenti grazie a pezzi come Burning Down the House, This Must Be the Place e Slippery People che spopoleranno sui dancefloor di mezzo mondo. Per alcuni l’inizio di una nuova fase, sempre superiore alla media, per altri l’ultima prova di quel che erano stati.

Texas Flood

Stevie Ray Vaughan

13 giugno 1983

Galeotta fu Montreux. Notato da Mick Jagger che lo segnala al produttore Jerry Wexler, Steve Ray Vaughan e i suoi Double Trouble sperano che il celebre jazz festival svizzero possa rappresentare il trampolino di lancio verso la notorietà dopo anni di gavetta e sudore. Il pubblico non apprezza, ma sugli spalti si trovano anche David Bowie e Jackson Brown. Il primo lo assolda per suonare in Let’s Dance, mentre il secondo gli permette di registrare il disco di debutto nei propri studi. Manca solo un’etichetta, ma per quello ci pensa John Hammond che gli apre le porte della Epic. Basteranno solo due giorni di session, quasi tutta in presa diretta, per riportare in auge i vecchi stilemi del blues che sembravano ormai lontani dal gusto delle nuove generazioni. Oltre che di essere uno dei bluesman migliori di sempre, Stevie dimostra subito di avere anche grandi doti da songwriter, tanto che Texas Flood rimarrà nella Top 40 di Billboard per mesi.

Synchronicity

The Police

17 giugno 1983

Chiunque avesse assistito anche solo a qualche minuto della registrazione dell’ultimo album dei Police non prese certo con sorpresa la notizia dello scioglimento della band. Dal punto di vista musicale Sting, Andy Summer e Steward Copeland erano ormai talmente incapaci di trovare punti di contatto che quasi tutte le session di registrazione avvennero in solitaria. Eppure, come spesso accade in situazioni di questo tipo, il mix di frustrazione, insofferenza e liti furibonde è una delle cause e della forza del risultato finale. L’utilizzo di sintetizzatori tocca qui l’apice della breve carriera del gruppo, senza che però questo ne intacchi freschezza e voglia di sperimentare con i generi più disparati.

Kill ‘em All

Metallica

25 luglio 1983

Da qualche anno la New Wave Of British Heavy Metal ha travolto le vite degli adolescenti di mezzo mondo, dando il via al decennio della musica pesante. Quattro ragazzi della Bay Area (cinque, se consideriamo Dave Mustaine, che però verrà cacciato presto) mettono insieme il meglio di quell’ondata, ci aggiungono cattiveria, frustrazione e un pizzico di Motörhead, Venom e Misfits dando vita a un mostro che nei decenni successivi (riveduto e corretto) riuscirà nel compito inimmaginabile di portare la violenza alle masse. Grezzo, diretto e freschissimo, Kill ‘em All finirà per rappresentare qualcosa di simile al debutto dei Velvet Underground: chiunque lo ascolta decide di mettere in musica la propria rabbia. Ancora oggi è impossibile resistere alla ferocia di brani come Hit the lights, Motorbreath o The Four Horsemen.

Madonna

Madonna

27 luglio 1983

Quando, con una manciata di dollari in tasca e una spiccata predisposizione per la danza, si trasferisce a New York, nessuno può immaginare che da lì a una manciata di anni Madonna Veronica Louise Ciccone si sarebbe trasformata nella più grande popstar della storia della musica. Madonna ce la mette tutta, fatica, subisce soprusi e violenze, ma la voglia di sfondare non cessa. Passa dall’hard rock al funk, partecipa ai cori di produzioni minori e non, poi capisce che il suo mondo è quello del pop da dancefloor. Il primo a credere davvero in lei è Seymour Stein della Sire, che decide di investire sulla sua vocalità e le sue idee. Il singolo Holiday e il suo vestiario a metà tra punk e rock la renderanno presto un idolo di MTV e la controparte femminile di Michael Jackson. Eppure, Madonna non aveva dubbi fin dal principio: «Le persone non sanno ancora quanto io sia brava, ma lo scopriranno presto. Nel giro di qualche anno tutti lo sapranno. Ho progettato di diventare una delle star più grandi di questo secolo». Quando la tenacia vale più di qualsiasi altra cosa.

Future Shock

Herbie Hancock

15 agosto 1983

Un po’ come a Miles Davis, a Herbie Hancock non è mai venuta meno la voglia di spaziare in ambiti non propriamente jazz, con risultati talvolta apprezzabili ed altri decisamente meno. Qualsiasi cosa si possa pensare di Future Shock, è innegabile che ci sia un disco profondamente alienante nelle sue sonorità robotiche e disumane, ma allo stesso tempo è davvero difficile resistere a questo pastiche capace di unire hip hop, synth, fusion e jazz elettronico senza mai cadute di stile. Anche grazie al disturbante video mandato in rotazione su MTV, Rockit (Grammy per la miglior performance) diventa presto uno dei pezzi più utilizzati da tutti i breakdancer d’America. Chi l’avrebbe mai detto vent’anni prima.

Swordfishtrombones

Tom Waits

1 settembre 1983

Esiste un Tom Waits prima di Swordfishtrombones e uno dopo. Non che il crooner da bar malfamati degli album precedenti fosse meno affascinante o dotato di talento, ma è da qui in poi che la sua proposta musicale acquisisce un altro spessore e una nuova sofisticatezza. Se da un punto prettamente musicale l’album rappresenta uno spartiacque tra due parti di carriera, i temi del disco non si discostano dall’immaginario e dalla poesia urbana di sempre, con il focus costantemente puntato sulla disillusione circa il sogno americano (che mai appartiene agli ultimi di cui parla) e della consapevolezza che perdenti lo si resti per tutta la vita. A differenza di altri cantautori americani, Bruce Springsteen su tutti, per i personaggi delle sue storie il riscatto non giungerà mai. Proprio come nei racconti dell’amico Bukowski.

Shout at the Devil

Mötley Crüe

23 settembre 1983

Ok, oggi possono far sorridere, ma nel 1983 per le strade di Los Angeles (e nei suoi strip club) il nome più gettonato era sempre quello dei Mötley Crüe. Benché l’apice del successo commerciale verrà raggiunto con i successivi Girls, Girls, Girls e Dr. Feelgood, Shout at the Devil, con quella spruzzata di esoterismo di grana grossa che non gustava mai nel genere, resta il miglior biglietto da visita per conoscere una delle band più importanti del panorama glam di sempre. Se il rock mainstream e il thrash metal affrontavano la paura di un conflitto atomico con preoccupazione, Nikki Sixx e compagni ci pisciavano sopra con il loro edonismo cazzone e incurante del domani.

Colour by Numbers

Culture Club

10 ottobre 1983

Immaginate un gruppo multiculturale, dalle influenze musicali spesso molto divergenti una dall’altra e con un cantante pittoresco e amante del soul come Boy George, che sculetta su ritmi caraibici cantando Karma Chameleon. Il tutto nel pieno dell’Inghilterra di Margaret Thatcher. Seppur sintetica, questa descrizione può rendere l’idea dell’impatto di una band come i Culture Club. Sbeffeggiata dalla critica che non ne comprende né la forza, né le varie chiavi di lettura della proposta musicale, ma investita da un successo rapidissimo, la band smussa qualche angolo dal disco d’esordio e trova la formula segreta del singolo new wave/new romantic/tropical soul da dancefloor. La proposta è infatti così catchy che potenzialmente ogni brano potrebbe diventare una hit. Peccato che i problemi personali di George decreteranno a stretto giro la fine del sogno.

She’s So Unusual

Cyndi Lauper

14 ottobre 1983

Esiste l’album pop perfetto? Difficile a dirsi, vista l’impossibilità di trovare pareri unanimi su argomenti del genere. Eppure, il debutto discografico di Cyndi Lauper si avvicina molto alla perfezione. Dopo averne provate tante, come e più della più giovane Madonna, Lauper è a un bivio: smettere dopo l’insuccesso di pubblico della sua band Blue Angel o rimettersi in gioco per l’ultima volta. La Epic ne comprende le potenzialità e le cuce addosso, non senza il suo apporto, una serie di canzoni che sembrano perfette per un momento storico di transizione come quello. La ragazza sembra volersi solo divertire, ma, come molte altre proposte contemporanee, c’è il trucco: è la rivalsa sulla vita, la voglia di vedere finalmente la luce dopo tanto patire. E poi Cyndi, dietro al suo lato goffo e carnevalesco, ha talento e una voce mai sentita prima. Scusate se è poco.

Rebel Yell

Billy Idol

10 novembre 1983

Come molti colleghi già sul mercato da qualche anno, Billy Idol trova il successo planetario e, in qualche modo anche l’immortalità, nel 1983. Dei tempi dei Generation X sono rimasti l’attitudine e la sfacciataggine, anche se il sound, già dai tempi del primo album solista, ha iniziato a virare verso un ammaliante mix di new wave patinata, hard rock e una spruzzata di punk che risulterà la formula perfetta per la sua proposta e che gli farà finalmente ottenere il successo tanto ricercato. Inoltre, con la sua faccia da schiaffi, un certo machismo e una vocalità come la sua, Billy è perfetto per bucare gli schermi delle tv di tutto il mondo e diventare un esempio di look e tematiche per tutti quei ragazzini ribelli vogliosi di provocare i propri genitori e di trovare un senso alle proprie esistenze.

Seven and the Ragged Tiger

Duran Duran

21 novembre 1983

I Duran Duran che cercano ispirazione per comporre il loro terzo album sono già una band sul tetto del mondo, capace di scatenare un’isteria che la stampa non vede l’ora di paragone alla Beatlemania. Ambiziosi e ormai consapevoli della propria forza, si spingono persino a scegliere un titolo metaforico della propria situazione: i sette sono la band e il proprio entourage, mentre la tigre è il successo. Da prolungare e allo stesso tempo da tenere a bada. Perché la parola successo, nella sua accezione di participio passato, è qualcosa che può anche non ripetersi. I dubbi vengono fugati subito con Is There Something I Should Know, singolo fuori dal disco che ne incrementa la popolarità. Il resto lo fa soprattutto The Reflex, grazie a un Nile Rodgers fase di produzione ispirato come non mai. La tigre è domata.