Rolling Stone Italia

I 25 migliori album internazionali del 2023

Dai grandi ritorni di Stones, Gabriel, Blur e Blink al pop ultracontemporaneo di Caroline Polachek. Dal rock incupito dei Foo Fighters e dei Queens of the Stone Age alla svolta psych di Lil Yachty. Dalla follia dei 100 Gecs alle canzoni-canzoni di Lana Del Rey, Sufjan Stevens, Boygenius

Artwork: Stefania Magli

25

Secret Life

Fred Again & Brian Eno

Essere l’astro nascente dell’elettronica pop da arena e ritrovarsi nell’anno della consacrazione a pubblicare un disco ambient con il pioniere del genere, nonché proprio mentore, Brian Eno. Non deve essere una brutta vita quella che sta vivendo adesso Fred Again. Tra doni e pianismi eterei (la prima nota di piano di I Saw You rimanda in un secondo a Music for Airports, il capolavoro di Eno che ha sancito la nascita dell’ambient music), la voce di Fred Again riporta una certa umanità negli spazi estesi degli 11 brani di Secret Life. Non sarà un disco perfetto, ma non vederci la bellezza di questo clash generazionale e musicale sarebbe miope. (MB)

24

Jonny

The Drums

Non si può non voler bene a Jonathan Pierce, l’one man band dietro al nome The Drums. Le 16 tracce di Jonny hanno sempre quel sapore agrodolce che ha reso famoso il progetto, ma – più che mai – questa volta si entra nel dolore e nei sentimenti di Jonathan che spesso si ritrova a parlare e curare («come una madre», ci ha raccontato) il piccolo Jonny che vive ancora dentro di lui. Un disco di una dolcezza sconcertante e di un’onestà radiosa. (MB)

23

Mañana será bonito

Karol G

Mañana será bonito significa domani sarà bello. Ma pure oggi: il disco della cantante colombiana è stato il primo album interamente in lingua spagnola a raggiungere il numero uno negli Stati Uniti. Nel disco, una sorta di antologia della rottura, Karol G ha mostrato al mondo che si può ballare anche se la malinconia ti divora. La prova è uno dei brani latini più belli degli ultimi mesi, Provenza, di cui vi consigliamo anche il videoclip ufficiale. O TQG, in duetto con Shakira. Quella numero uno è decisamente meritata. (FF)

22

New Blue Sun

André 3000

“Giuro, volevo davvero fare un album ‘rap’ ma questo è davvero dove mi ha portato il vento questa volta”. Basterebbe questo verboso titolo (verboso quanto gli altri sette) per capire che André 3000 ce l’ha fatta di nuovo. Il tanto atteso primo disco da solista alla fine è arrivato, ma sotto forma di un album strumentale a tema flauti. Sì, avete capito. Ma quella che poteva essere una boutade musicalmente orrenda si è rivelata essere un lavoro sorprendentemente piacevole e ispirato. (MB)

21

One More Time...

Blink-182

Che una reunion tanto attesa possa portare a un disco orrendo è un rischio reale. One More Time…, ovvero la celebrazione del ritorno dei Blink-182 di Hoppus, Delonge e Barker, schiva con facilità questa trappola limitandosi a fare quello che i Blink hanno sempre fatto: canzoni pop-rock incredibilmente orecchiabili e ironiche. Da un lato la serietà della title track, un punto sull’amicizia persa e ritrovata (“Devo morire per sentirti dire che ti manco?”, nel pre-chorus), dall’altra la solita ironia e la voglia di cazzeggiare (“Quando insegno masturbazione dico sempre: divertitevi” dall’intro di Dance With Me), tutto è come è sempre stato, ancora una volta. E meno male. (MB)

20

But Here We Are

Foo Fighters

La buona notizia che ha portato il 2023 è che i Foo Fighters continuano ad essere quelli di sempre nonostante la morte di Taylor Hawkins, come si evince dal video con cui hanno annunciato il nuovo batterista Josh Freese: niente dichiarazioni col magone, ma una scenetta da soliti idioti. Nel primo album post Hawkins, che non era solo il batterista ma anche una delle anime del gruppo e difatti è stato onorato con due «gigantic fucking nights for a gigantic fucking person», i Foo Fighters restano fedeli al loro linguaggio melodico e sonoro con canzoni pop-rock di facile consumo che ricordano altre loro canzoni del passato. Sono di segno opposto molti testi, con passaggi sul lutto, sul dolore, sulla morte, compresa quella della madre di Dave Grohl. Non è un disco indimenticabile, ma ascoltarlo è stato come ritrovare vecchi amici. (CT)

19

In Times New Roman…

Queens of the Stone Age

Ci sono dischi che brillano per la scrittura, per il valore degli arrangiamenti, per i testi. Altri colpiscono per come suonano e basta. In Times New Roman… appartiene a quest’ultima categoria. Trentadue anni dopo il primo 33 dei Kyuss, ventuno da Songs for the Deaf, Josh Homme e i Queens of the Stone Age dimostrano come si fa a fissare su disco un suono elettrico e materico, che si muove coi (soliti) scatti robotici, brutale e scarnificato eppure carico, bello cupo com’è stata cupa, pare di capire, la vita di Homme negli ultimi anni, con un tumore che è stato «la ciliegina sulla torta di un periodo interessante». Le grandi canzoni stanno altrove, siamo tutti d’accordo, ma qui c’è musica primitiva ed eccitante, con riff da età della pietra e timbri notevoli. Ogni tanto è bello farselo bastare. (CT)

18

Lahai

Sampha

Consapevolezza, sensibilità, zero overthinking. Questi i tre punti cardine che ci ha svelato Sampha parlandoci di Lahai, un album che «parla di essere felice e al posto giusto». Sei anni di attesa dall’esordio di Process – riempiti però da collaborazioni con Drake, Kendrick Lamar, Tirzah – ma che alla fine ci portano un disco maturo nel suono (co-prodotto da Sampha e da El Guincho, già al lavoro con Rosalía) e nei testi (“Even though we’ve been through the same, doesn’t always mean we feel the same” da Jonathan L. Seagull). L’artista inglese ha trovato modo di suonare senza tempo, lasciandoci lo spazio di fluttuare liberi negli interstizi nei suoi brani.

17

Rat Saw God

Wednesday

Una delle sorprese dell’anno in ambito rock è stato il disco di questi cinque americani che hanno messo a punto una sorta di alt rock sudista. Rumoroso, destabilizzante e sgraziato, Rat Saw God è un po’ country e decisamente alternativo, uno spaccato di vita ai margini con dentro echi delle dinamiche dei Pixies e dei primi Nirvana, quelli provinciali dell’epoca in cui Seattle e Olympia sembravano lontane. Nei testi c’è gente che si fa, ci sono bevute epocali, stupidità capitale, incidenti stradali, persone che crepano, tanto white trash raccontato attraverso schitarrate sporche e urla stonate. In certi posti e in certe circostanze la vita fa schifo e chi la canta in questa maniera un po’ la riscatta. (CT)

16

My Back Was a Bridge for You to Cross

Anohni and The Johnsons

My Back Was a Bridge for You to Cross – come il titolo intende – è un omaggio di Anohni (che qui riunisce la band dopo 13 anni) all’attivismo transgender e in particolare a Marsha P. Johnson, una delle figure più importanti dei moti di Stonewall del 1969. Ispirato al suono di What’s Going On di Marvin Gaye, è l’ennesima prova (se ce ne fosse ancora bisogno) di un’artista capace di costruire dei luoghi sicuri in cui rifugiarsi mentre il mondo fuori diventa ogni giorno più inospitale. (MB)

15

Hackney Diamonds

The Rolling Stones

Dice Andrew Watt che se i Rolling Stones avessero saputo che era un fan ossessionato dalla band forse non gli avrebbero fatto produrre il loro album. O forse sì, perché Watt ha dato al gruppo quel che il gruppo voleva: un suono classico e al tempo stesso appetibile che chi ascolta la musica nel 2023. La battuta che girava dopo la pubblicazione del primo singolo Angry è che sembrava fatto da un’intelligenza artificiale. Non è vero, ma fa leva sulla sensazione che tanti abbiamo provato ascoltando l’album: bello, ma un tempo facevano la stessa cosa meglio. Ed è vero e naturale e persino ovvio, così come è vero che era una vita che non si sentivano degli Stones altrettanto convinti. Poi ci sono le canzoni buone e meno buone, gli ospiti che fanno parlare, il finale in cui Mick e Keith riportano tutto a casa, ma Hackney Diamonds è questa cosa qua: un mezzo prodigio per degli ottantenni, ma anche un disco fatto prendendo sé stessi come reference (e non solo sé stessi, si ascoltino Sweet Sounds of Heaven e I’ve Got Dreams to Remember di Otis Redding). Ma per una settimana, un mese, un trimestre è stato bello celebrare Mick & Keith & Ronnie. Per saperne di più, qui l’intervista alla band e qui quella al produttore. (CT)

14

i/o

Peter Gabriel

Non c’è una sola cosa che non vada nel primo album di inediti di Peter Gabriel da 21 anni: scrittura, performance, idee, dettagli, ogni cosa è buona e giusta in queso lavoro inciso con la sua band più amata e con un bel cast di ospiti, incentrato sul concetto di interconnessione. Ma i/o è anche uno di quei dischi in cui le idee sottese alle canzoni affascinano quanto se non più delle canzoni stesse, sulle quali pesa forse il fatto di essere state scritte, elaborate, rimaneggiate e poi incise anche a distanza d’anni. Benedetto sia Gabriel, però, che ancora crede che il pop sia non solo intrattenimento, che va benissimo per carità, ma anche veicolo di conoscenza. Non ci sono sorprese, insomma, i/o è l’album che uno s’aspetta dal Gabriel 73enne che non fa errori (né orrori sonori), ma è un peccato giacché una delle specialità della casa è sempre stata lo spiazzamento. Mettiamola così: sono canzoni che confortano, non destabilizzano, nemmeno nel Dark-Side Mix curato da Tchad Blake che s’oppone al Bright-Side Mix di Mark “Spike” Stent. (CT)

13

I Inside the Old Year Dying

PJ Harvey

Uno dei dischi più strambi dell’anno l’ha fatto PJ Harvey, una raccolta di canzoni non convenzionali figlie della scrittura del romanzo Orlam, composte nel dialetto del Dorset e interpretate, come se non bastasse, imponendosi di non cantare nel proprio stile. Una follia che affascina e respinge allo stesso tempo. Non è facile entrare nel mondo di I Inside the Old Year Dying, ma una volta che lo si è fatto ci si ricorda che la musica pop può essere anche un luogo misterioso, un linguaggio da mettere sottosopra, un viaggio affascinante. Non è all’altezza di altri dischi di Harvey. Forse non è neanche un disco, ma un luogo da esplorare senza avere a disposizione una mappa. E sì, a volte per capire le cose bisogna faticare, anche nella musica popolare. Qui l’intervista a proposito di Orlam. (CT)

12

Something to Give Each Other

Troye Sivan

Troye Sivan ci ha abituato bene sin dagli esordi. Era il 2015 quando, dopo una serie di EP usciva Blue Neighbourhood, il suo primo disco ufficiale. Con Something to Give Each Other però è cambiato tutto. Troye ci ha fatto praticamente dimenticare chi fosse prima. Il singolo, Rush!, ha spiazzato tutti. L’ex youtuber è entrato ufficialmente nella sua era adulta, erotica, libertina. Nel secondo estratto, One of Your Girls, canta in versione drag: “Chiamami se ti sentirai mai solo, sarò come una delle tue ragazze”. Synth pop, house e brani club anni ’90 per catturare quello stato di euforia che solo l’amore e il sesso sanno dare. Soprattutto se li perdi. (FF)

Scaring the Hoes

Jpegmafia & Danny Brown

Nell’anno dei joint album ad aggiudicarsi la statuetta per il miglior disco in coppia sono – a mani basse – Jpegmafia e Danny Brown. Il primo, che cura anche le incredibili produzioni del disco (una gioia per l’ascolto, un mix di elettronica, hip hop, big bass, jungle, hyperpop), lo ha definito «una sessione di pratica» dove ha potuto sperimentare le potenziali della Roland SP-404 (un campionatore di vecchia generazione) con il suo rapper preferito (con cui abbiamo chiacchierato qui). Il risultato, sempre citando Jpeg, è «fire shit». (MB)

10

This Is Why

Paramore

Se This Is Way è arrivata nella top 3 delle nostre canzoni preferite del 2022, l’omonimo album non ci ha per niente deluso. Ispirato al suono dei primi Bloc Party (The News e C’est comme ça sono subito lì a ricordarcelo), band feticcio di Hayley Williams, con questo lavoro i Paramore si spogliano definitivamente dal ruolo di band per ragazzini dimostrandoci che nonostante le mille disavventure interne (più cambi di formazione che album in pratica) c’è qualcosa di profondamente intrigante nel loro (indie) rock. (MB)

9

Chaos for the Fly

Grian Chatten

Chissà quanti si sono accorti di questo disco del cantante dei Fontaines D.C. che è sinistro ma anche carezzevole, cupo e pure poetico, ispirato in parte alle comunità di pescatori irlandesi e alle loro cittadine in rovina. Lui dice che «stavo camminando di notte lungo Stoney Beach e l’album mi è arrivato dalle onde, sono rimasto lì a guardarle e l’ho sentito, ogni parte, dalle progressioni degli accordi agli arrangiamenti degli archi», ma gli artisti sono notoriamente dei gran cacciaballe. È però un’immagine che ben descrive questo disco quasi folk, fatto con pochi elementi sonori, che parla di solitudine, spaesamento, dipendenza, di vite che si sono impantanate da qualche parte. Spesso basate sulle chitarre acustiche, con abbinati qua e là beat semplici, le canzoni si fermano un momento prima di farti venire il magone, la voce ha una presenza notevole, non c’è alcunché di deprimente. «La musica di Vic Chesnutt» ci ha detto Chatten «mi ha ricordato cose che avevo dimenticato su come si scrivono le canzoni: trovare luce nella cupezza assoluta». E poi Chaos for the Fly ha i pezzi, come si usa dire, basta ascoltare Fairlies per rendersene conto. (CT)

8

Javelin

Sufjan Stevens

Ci sarebbe così tanto da scrivere sul ritorno del miglior cantautore della sua generazione, Sufjan Stevens. Partiamo dalla musica: Javelin è un disco che riporta Stevens nei suoni delicati e intimi di Carrie & Lowell, senza però dimenticare le grandi aperture e le coralità di album come Michigan o All Delighted People. E proprio come Carrie & Lowell, Javelin nasce da un lutto, quello del compagno di Stevens scomparso ad inizio anno. Il disco è arrivato poco dopo l’annuncio del cantautore di un’improvvisa malattia che gli ha fatto perdere l’utilizzo delle gambe, portando un ulteriore livello di profonda sofferenza nell’album che – come al solito – è un magnifico esempio di cantautorato moderno tra le immagini impossibili di Stevens e una composizione che ti innalza verso il divino. (MB)

7

Heaven Knows

PinkPantheress

In un momento storico dove, nei club, stava tornando prepotentemente il suono inglese (2 step, UK garage, jungle), c’era bisogno di un disco che fotografasse questo momento in chiave pop. A pensarci è stata PinkPantheress che – dopo un mixtape dai numeri importanti (To Hell With It) e una serie di singoli riuscitissimi (Pain, Just for Me, Boy’s a Liar, Break It Off) – ha chiarito il suo ruolo di nuova principessa della scena inglese. Un suono freschissimo (lo zampino è di quel genietto di Mura Masa), una voce che è una carezza, per un disco in cui non si skippa niente. (MB)

6

The Record

Boygenius

Difficile dire dove finisca il valore del primo album delle Boygenius e dove inizi il tifo (meritato) per il queer trio formato da Phoebe Bridgers, Julien Baker e Lucky Dacus, tre tipe capaci di farti ridere e di farti piangere (così dice che le ha viste dal vivo). Le tre si sono ritagliate nella cultura pop americana del 2023 il ruolo del supergruppo femminile che rivendica un posto solitamente riservato ai colleghi maschi. L’hanno fatto con un album vecchio stile, 12 canzoni, 42 minuti, che sollievo in un mondo di interminabili dischi-playlist. Di sicuro The Record beneficia della somma del lavoro di tre autrici dallo stile già consolidato e dell’alternanza fra folk e rock alternativo, armonie vocali morbide e momenti crudi, canzoni spezzacuori e altre in cui puoi fare air guitar, storie piccole e appeal pop. E insomma è difficile non fare il tifo per le autrici di canzoni come quella che dice “una volta ho preso le tue medicine per sapere com’è e ora devo comportarmi come se non sapessi leggerti i pensieri” o l’apertura a cappella di Without You Without Them oppure Not Strong Enough coi suoi echi dei Cure e il folgorante “always an angel, never a god”. A questo link c’è la loro prima intervista importante. (CT)

5

10,000 Gecs

100 Gecs

In un anno in cui tanto per cambiare il rock non è sembrato in grado d’indicare una via nuova ed eccitante, i 100 Gecs hanno suggerito a modo loro una strada per il rinnovamento: la follia giocosamente anarchica, rimedio perfetto alle lagne di retromaniaci e morti viventi. 10,000 Gecs racconta il caos in cui viviamo, abbracciandolo. Se non si vuole o non si riesce più a dare un senso al mondo, tanto vale ballarci su in modo sgraziato e devastarsi. Usciti dall’hyperpop e lanciati con quest’album verso il rock più tradizionale, Dylan Brady e Laura Les hanno fatto un disco figlio dell’epoca dell’all you can eat musicale, in cui le tendenze anche kitsch del rock anni ’90 e 2000 vengono fuse ai suoni della chip music e agli staccati dei Primus. La PC Music va a farsi un giro al Warped Tour, esagera con le droghe e vomita nonsense nei bagni chimici. (CT)

4

There’s a Tunnel Under Ocean Blvd

Lana Del Rey

Attraverso i racconti sulla sua famiglia, su una relazione finita, sul perenne conflitto tra l’essere vista, esposta, e allo stesso tempo voler essere invisibile, Lana Del Rey in questo disco ci rivela molto più su sé stessa rispetto a tutti i suoi lavori precedenti. Meno iconografia americana e più vita vissuta, reale, familiare. Confermando ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, di non essere in gara con nessuno. Lana è Lana, di nuovo, per sempre. (FF)

3

Let’s Start Here

Lil Yachty

Nessuno si sarebbe aspettato questo disco. Un po’ per il pregiudizio secondo cui i (t)rapper non posso fare altro che (t)rap, un po’ perché Lil Yachty non aveva mai dato l’idea che potesse finire in territori come quelli dello psych rock. Certo, come ha raccontato lui stesso, alcune chiacchiere con Kevin Parker aka Tame Impala e Andrew degli MGMT lo hanno ispirato, ma da qui ad arrivare a costruire un (concept) album così ce ne passa. Un’ora di maturità artistica, testi impegnati, arrangiamenti neo psichedelici (tra i musicisti coinvolti anche Alex G, Jake Portrait dell’Unknown Mortal Orchestra e Daniel Ceasar) per uno dei dischi più sorprendenti dell’anno. (MB)

2

Desire, I Want to Turn Into You

Caroline Polachek

Il 2023 è stato l’anno di Caroline, su questo c’è poco da discutere. Dopo quanto di buono mostrato con il primo solista (Pang, 2019), l’artista americana aveva bisogno di un album che la consacrasse definitivamente. Dopo una carriera di alti e bassi nei Chairlift e una serie di excursus di vario genere (a nome CEP e Ramona Lisa), l’incontro con quei rivoluzionari della PC Music è stato l’innesto per il definitivo salto a popstar. Desire, I Want to Turn Into You ci dimostra che si può fare un album di pop maturo e sexy, intelligente e divertente (un verso su tutti, “Sexting sonnets under the table”), tecnicamente impegnato ma semplice all’ascolto. Con l’aiuto di Danny L Harle e Sega Bodega alla produzione, Grimes e Dido in Fly to You (queste ultime gli unici featuring del disco) e un brano in omaggio alla scomparsa SOPHIE (I Believe), il lavoro è completo. Come dicevamo ad inizio anno, believe the hype, questa è brava sul serio. (MB)

1

The Ballad of Darren

Blur

Forse non sono i Blur che molti desideravano, ma sono pur sempre dei Blur grandiosi. Teoricamente la ballata sarebbe di Darren, ovvero Darren Evans, guardia del corpo della band ai tempi d’oro. In realtà si tratta della ballata di Damon Albarn giacché parte del disco prende spunto dalla sua vita e dai suoi fallimenti sentimentali, per poi rimuginare sulla provvisorietà dell’esistenza. E forse parla anche di questa band che ogni tanto si rimette assieme, fa un giro di concerti, regala gioia e poi sparisce di nuovo. Gli altri Blur assecondano il carattere di Albarn, il suo essere campione di racconti malinconici senza cadere nell’autocommiserazione, nel diarismo, nella narrazione senza fantasia, nella noia, arricchendo i pezzi di piani sonori che li portano in una dimensione tutta loro. Il risultato sono pezzi pop allo stesso tempo pensosi e leggeri. Morale: invecchiare bene si può e si possono scrivere canzoni belle e significative dopo i 50. In un’epoca in cui le band che si rimettono assieme fanno di tutto per evocare i vostri vent’anni, nel loro disco più emozionante di sempre i Blur cantano la loro età. (CT)

Schede di Mattia Barro, Filippo Ferrari, Claudio Todesco.

Iscriviti