I 20 migliori album del 2018 | Rolling Stone Italia
Classifiche e Liste

I 20 migliori album internazionali del 2018

Il rock sci-fi degli Arctic Monkeys, il ritorno introspettivo di Pusha-T e quello funk di Blood Orange, la nuova generazione di Snail Mail, Kali Uchis e Rosalía. La redazione di Rolling Stone ha scelto i migliori album internazionali del 2018.

I 20 migliori album internazionali del 2018

Artwork by Stefania Magli.

20 Mark Lanegan – With Animals

With Animals è il secondo album frutto della collaborazione tra il leggendario ex-frontman degli Screaming Trees, Mark Lanegan, e il bluesman Duke Garwood, seguito di quel Black Pudding che ci aveva incantato nel 2013. Questa volta, però, i due artisti hanno scritto un album spirituale, sacrale, dove la voce di Lanegan affoga tra loop e chitarre blues. Un album notturno, inquietante e magnetico.

19 Black Panther, the Album

Curata da Kendrick Lamar, la colonna sonora di uno dei film essenziali dell’anno è essa stessa essenziale. Una sberla in faccia di novità musicale, di black power, una complessa ricerca sul tema black music, tra nomi nuovi e grandi classici.

18 Sons of Kemet – Your Queen is a Reptile

Insieme al collega americano Kamasi Washington, Shabaka Hutchings ha allargato i confini della nicchia jazzistica per arrivare nelle nostre playlist Spotify, e magari anche nelle casse di qualche barbecue hipster. Your Queen Is a Reptile, pubblicato con i suoi Sons of Kemet, è il disco jazz dell’anno.

17 ASAP Rocky – Testing

Non sappiamo se il titolo di TESTING fosse un modo informarci che questo era un test di A$AP Rocky per vedere se sarebbe riuscito nell’impresa impossibile di fare un disco incredibilmente bello, fresco ma già un classico, e contemporaneamente risultare lui il rapper più figo e cool di tutti. Perché, nel caso, il test è stato superato a pieni voti.

16 Arctic Monkeys – Tranquility base Hotel & Casino

Alex Turner si tuffa di testa dentro il sogno Americano filtrato dalla sua personalissima visione per quello che probabilmente è il lavoro più complesso dei suoi Arctic Monkeys. Tranquillity Base Hotel + Casino è un album affascinante, per certi versi prezioso, dove migliaia di sfumature sonore si intrecciano in un impasto difficile da confinare in una definizione, sintomo spiazzante della capacità camaleontica del frontman della band, trasformatosi per l’occasione in crooner decadente, lontanissimo dal ragazzino che travolse il rock nei primi anni zero. Con buona pace per la dedica a Julian Casablancas.

15 Idles – Joy as an Act of Resistance

Sarà per la Brexit, ma oggi le band che vengono dall’Inghilterra sono capaci di trasformare in sano rock quella che è una generazionale, solenne incazzatura. E i più interessanti per noi sono gli IDLES, che alla violenza della loro musica uniscono testi personali e coraggiosi. Un album che è un concentrato di onestà, gioia, rabbia e dolore. Post-punk dal cuore infranto, eppure ancora pulsante.

14 The Carters – Everything is Love

La famiglia è tutto. E lo sanno Jay Z e Beyoncé, che utilizzano questo disco come una terapia di coppia. A chiudere la trilogia, cominciata con Lemonade e proseguita con 4:44, un disco pieno di rap, trap, Migos e Pharrell. “I can’t believe we made it”, canta Queen B in Apeshit. Invece ce l’avete fatta, coniugi Carter. E ci avete insegnato che i panni sporchi non si lavano in casa, ma al massimo su Tidal.

13Jon Hopkins – Singularity

Jon Hopkins ha scritto il suo ultimo album dopo un lungo periodo passato a studiare la meditazione trascendentale. Singularity è un’opera di paradossi, dove la cassa dritta convive con il pianoforte minimal, il clubbing con la contemplazione psichedelica, la classica con il linguaggio binario.

12Cat Power – Wanderer

Cat Power ha scritto Wanderer in viaggio, dopo una malattia al sistema immunitario, i problemi con l’etichetta discografica e un figlio appena nato. È un disco minimale con un songwriting intimo, più vicino agli esordi della cantautrice che all’ultimo Sun, figlio di una dialettica impossibile tra il bisogno di una casa e la voglia di andarsene. Tanto semplice quanto emozionante.

11 Let’s Eat Grandma – I’m All Ears

Rosa e Jenny sono due e fanno musica insieme da quando hanno 13 anni, cioè dal 2013. Il primo I, Gemini ha fatto breccia quando avevano 16 anni (il 2016) e ora che sono diventate maggiorenni è arrivato I’m All Ears. Ma se finora hanno giocato a fare le gemelline, adesso è il momento di diventare grandi e soprattutto dimostrare che Let’s Eat Grandma non è mai stato un gioco adolescenziale per loro.

10 Mariah Carey – Caution

Mariah Carey torna con un disco che riporta il suo sound tipicamente r’n’b al 2018, grazie ai nomi che troviamo dietro al banco del mixer: Poo Bear, Timbaland e Blood Orange. I fan della prima ora potrebbero sentire la mancanza della ballatone classiche del suo repertorio, ma se la conseguenza è avere un disco maturo come Caution, ben venga.

9 Beach House – 7

Nonostante sia l’album meno introverso e più accessibile mai registrato dai Beach House, 7 è un lavoro sbalorditivo pieno di grandi canzoni e momenti di meraviglia. Perfetto sia in cuffia che a una festa con più di un invitato.

8 Snail Mail – Lush

Lush, il primo vero album di Snail Mail, è un romanzo di formazione suonato benissimo e scritto con semplicità. Lindsey Jordan se ne frega dei virtuosismi, e la sua capacità di stare dentro il brano e non davanti ha un che di prodigioso, così come i suoi racconti di brutti amori, brutte feste, solitudini enormi.

7Pusha-T – DAYTONA

Con DAYTONA Pusha T continua col vizietto di campionare dischi Motown (Come Back Baby spicca davvero di molto sugli altri sei pezzi) tenendo così vivo, vegeto e in perfetta salute il rap quello vero, quello che non ha niente a che vedere con quell’altra roba SKRRRT che si sta inglobando tutto. Per quanto poi sugli unici due featuring ci siano scritte in oro le parole Kanye West e Rick Ross, Pusha dà il meglio quando non deve condividere con nessuno le barre. E più è introspettivo il beat, più Pusha si apre. Come succede in Infrared, che del disco è la signora indiscussa.

6Earl Sweatshirt – Some Rap Songs

Scritto dopo la morte improvvisa del padre con cui doveva riconciliarsi dopo anni di abbandono, il nuovo album di Earl Sweatshirt è il capolavoro quieto di un artista che non ha bisogno delle esagerazioni della trap, ma di un rap onesto dove le parole vengono prima di tutto. Accompagnato da beat circolari e sample di Soul Superiors, Billy Jones e Endeavors, Earl ha scritto una collezione imperdibile di belle canzoni su brutte emozioni.

5 Yves Tumor – Safe in the Hands of love

Yves Tumor fa parte di quel ristrettissimo gruppo di artisti che potremmo riunire sotto il titolo “il pop secondo Warp Records”. E anche se non siamo del tutto sicuri che Sean Bowie sia il suo vero nome, questo ultimo album conferma che in realtà quel Bowie è forse un omaggio a chi prima di lui ha fatto del trasformismo e dell’eccentricità il suo marchio di fabbrica. 

4 SOPHIE – Oil of Every Pearl’s Un-Insides

Alcuni hanno parlato di hyper-pop, altri di pop accelerationista, altri ancora si sono divertiti con la formula del post-qualcosa per cercare di comprendere un album di cui gran parte del fascino sta proprio nel non essere inquadrabile dentro una definizione di genere. Con il suo primo vero LP, SOPHIE conferma le sue doti straordinarie da producer, con un disco che ricorda un bouquet in cui raccogliere i colori più originali della musica elettronica contemporanea, filtrati da una visione musicale matura e massiccia. Le atmosfere dark di Oneohtrix Point Never, accenni alla PC Music à la Rustie, l’uso gigioneggiante dei synth in stile Hudson Mohawke, la sperimentazione di Arca o la lontananza sonora di Julia Holter, tutto attraversato dalla stella fissa Autechre; se poi a corredo c’è una voce che sembra strappata da una reginetta del pop 80’s, il risultato è un album stratificato e caleidoscopio, ma fruibile anche a chi non mastica spesso la sintesi elettronica.

3Blood Orange – Negro Swan

Negro Swan riparte da dove avevamo lasciato Dev Hynes, dal funk angelico con cui aveva raccontato l’estetica delle sottoculture gay latine e nere nella New York degli anni Ottanta, tra camerate e pista da bello, ritratte senza cedere al feticismo passatista. Nel nuovo lavoro, invece, i toni si fanno chiaroscurali, malinconici a tratti, ma l’elemento che emerge con maggiore forza è uno strenuo senso di resistenza e di speranza che ci piace leggere come il tentativo di proiettare una luce oltre lo steccato di questi tempi stupidi. La voce narrante della giornalista e attivista transgender Janet Mock è il filo conduttore di un album più frammentario rispetto al precedente, ma che proprio nella sua multiformità disvela l’enorme talento di Blood Orange: non cerca la hit, non presenta canzoni che balzano all’orecchio prima di altre, si limita a snocciolare un incredibile flusso di intuizioni musicali, meravigliosamente cesellate e arrangiate, che si compongono nella regale compiutezza d’insieme solo ad album concluso.

2 Kali Uchis – Isolation

La musica che Kali Uchis ha scritto per il suo affascinante debutto non appartiene a nessun tempo e nessun luogo. La colombiana è una weirdo del pop capace di suonare vintage e futuristica nella stessa canzone. Il suo esordio, Isolation, è allo stesso tempo funk, bossa, reggaeton e soul, colorato con sfumature psichedeliche.

1 Rosalía – El mal querer

Dopo due singoli clamorosi ci aspettavamo qualcosa di incredibile da Rosalía e, per la grazia di una qualche divinità musicale, stavolta non siamo stati ingannati. Rosalía non è una popstar usa e getta, non è una meteora, non è l’ennesima fregatura del mercato latino. Figlia di una generazione che vuole rilanciare la cultura latina al di fuori dei canoni di quella porcheria che abbiamo ormai sintetizzato in reggaeton becero da radio, Rosalía, nonostante i suoi appena 25 anni, ci dà una lezione di storia della musica spagnola in undici capitoli, racchiusi sotto il nome di El Mal Querer: un bignami di flamenco e copla, la tradizione spagnola impreziosita da inserti contemporanei, come elettronica, ritmiche vagamente trap, armonizzazioni digitali. Più che flamenco trap, siamo nel post-flamenco. Forse El Mal Querer non è un disco perfetto, ma di certo è un disco bellissimo.