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I 15 migliori album italiani usciti nel 1974

La canzone d’autore sempre più importante, il prog lontano dal barocco, il recupero del folk, le influenze jazz: 50 anni fa l’Italia che suonava aveva voglia di rivoluzione, politica e musicale

Foto: Mondadori via Getty Images

L’anno in cui in Italia le carte cominciano a mischiarsi è il 1974. Si sente nell’aria che qualcosa sta cambiando, lentamente ma inesorabilmente. Dopo la grande sbornia prog del biennio 1972-73 è come se il pubblico cominciasse a stufarsi delle lussureggianti atmosfere sinfoniche che avevano caratterizzato i capolavori degli anni precedenti. Il successo ha arriso alle formazioni che mirano al connubio rock + classica (Genesis in primis, ma anche PFM, Banco e Orme nel nostro Paese), ma forse ciò ha portato all’irreggimentarsi di un genere-non-genere che per sua natura doveva essere libero di introiettare liberamente quante più influenze possibili.

Quello che all’epoca è chiamato rock barocco, rock sinfonico o semplicemente pop sta avvitandosi su se stesso, si sta ripetendo, sta diventando di maniera. Per questo è necessaria aria nuova. Ecco quindi farsi strada suggestioni jazz, colte, sperimentali, avanguardiste, etniche, elettroniche a mischiarsi con il linguaggio di un rock che nel 1974 è al suo massimo grado di aderenza nei confronti della sfera sociale. La musica non è più unicamente ascolto, è rappresentazione della lotta politica. Lo sanno bene formazioni come gli Area ma lo mettono in pratica anche coloro che sembrano più distanti da certi mondi.

Ogni album è chiamato a rappresentare un desiderio di rivoluzione. Ottimo esempio di questa tendenza è Lucio Battisti. Non entra in discorsi politici ma rende rivoluzionaria la sua musica, nel 1974 come mai prima. Non è poi strana da questo punto di vista la riscoperta delle radici folkloristiche e di un cantautorato inquieto e nervoso, con testi sempre più inclini allo sviluppo di una coscienza critica da parte del pubblico. In tal contesto c’è anche chi si rifugia nel sogno.

La Terra

Aktuala

Aktuala è una comune che si muove tra piazze, cortili e qualsiasi luogo venga loro concesso per suonare. Seduti su tappeti persiani, suonano una musica che Brian Eno avrebbe poi definito «del quarto mondo». La loro musica ingloba il folk mediorientale, ma va oltre e si connatura come colonna sonora di un paesaggio esotico non definito, una sorta di terra promessa che accoglie la musica del mondo, senza barriere. La Terra è un paesaggio dell’anima, richiama il gusto della libertà, del viaggio dentro e oltre se stessi alla ricerca del vero.

Intorno alla mia cattiva educazione

Alusa Fallax

Intorno alla mia cattiva educazione è uno degli album più sottovalutati del prog italiano. E ciò è un gravissimo torto perché si tratta di un’opera che non teme il confronto con altre assai più blasonate. Le caratteristiche sono quelle usuali: un sound sinfonico che schizza tra PFM e Osanna, flauti “tulliani”, virtuosismi assortiti e aperture sinfoniche. Ciò che rende fascinoso l’unico disco della band milanese sono i testi. Difficilmente si è sentito tanto scoramento, senso di disfatta, disillusione e incomunicabilità come in questo album. Il protagonista si presenta a inizio disco letteralmente a un passo dal suicidio, da lì sarà una lenta e difficile risalita verso la luce. Non fatemi caso è una delle canzoni più belle di tutto il prog italiano.

Caution Radiation Area

Area

Il lavoro più difficile di Demetrio Stratos & co, quello con il quale è meno immediato trovarsi in sintonia. Ma quando lo si penetra è un mondo che si spalanca. Dopo l’inizio di Cometa rossa, in linea con l’esordio di Arbeit Macht Frei, il resto divaga in territori febbricitanti tra sciabordate free jazz, campionamenti ante litteram e un modo di suonare in piena e totale anarchia che non fa a meno di gettare semi di alienazione. Qui dentro c’è Lobotomia, con Patrizio Fariselli che dal vivo, al buio, tendeva il cavo di un sintetizzatore per farlo toccare dai presenti. Più lo toccavano più le frequenze salivano, mentre i componenti della band provvedevano a legare il pubblico con fili di lana colorati. Un happening musical-politico dove non esistevano più barriere tra artista e pubblico.

Tilt (Immagini per un orecchio)

Arti & Mestieri

Il prog si amplia a dismisura. L’esordio dei torinesi Arti & Mestieri crea un nuovo e più aperto (almeno per l’Italia) modo di intendere la musica progressiva. Non è più rock, non è più jazz, non è più jazz-rock, non è più sinfonico. Al tempo stesso è tutto questo. Tilt è fatto di equilibrismi di stampo Mahavishnu e di oasi crimsoniane con Mellotron a cascata. I brani sono legati tra loro a formare una lunga suite nella quale si perde la concezione di spazio, tempo e stili. Tilt trasla la libertà di cui il jazz si fa da sempre portatore verso nuovi lidi, esprime perfettamente la parola progressive.

Clic

Franco Battiato

Dopo il rock sperimentale di Fetus e Pollution e le malinconie synth-mediterranee di Sulle corde di Aries, in “Clic” Battiato sposa definitivamente l’elettronica, il minimalismo e la contemporanea. Nel ’74 crea l’IDM e l’ambient con Propiedad prohibida e con I cancelli della memoria, offre la sua versione della musique concrète in Rien ne va plus: andante, tagliuzza e ricompone la realtà in Ethika fon ethica e si concede un unico brano cantato, No U Turn, nel quale cerca di esorcizzare un’inquietudine che poco tempo prima lo aveva quasi condotto al suicidio. Più che un disco la testimonianza di una folle lucidità.

Anima latina

Lucio Battisti

Dopo avere inanellato una hit dietro l’altra Battisti mette in dubbio tutto, compresa la sua immagine di cantante di successo con un album denso e sperimentale, dove l’influenza della musica latina, derivante da un viaggio in Brasile con Mogol, è solo il pretesto per la costruzione di un’opera totalmente prog, che attinge a piene mani da Gentle Giant e Tangerine Dream. La voce e le classiche melodie battistiane sono spesso fantasmi, bisbigli nascosti tra gli strumenti che hanno lo scopo di focalizzare l’attenzione sul costrutto musicale. Un Battisti trasfigurato che anticipa quello, ancora più estremo, del periodo panelliano.

I buoni e i cattivi

Edoardo Bennato

Con chitarra acustica e armonica, Edoardo Bennato è il Bob Dylan italiano dotato di una veemenza superiore a quella del maestro americano. È inquieto, schizza come una lama, prende per mano l’ascoltatore come un novello Peter Pan (di cui avrà modo di cantare) e lo porta a fare i conti con se stesso e con il mondo che lo circonda. Nel concept del suo secondo album sono i buoni, quelli con la faccia pulita e i modi accomodanti che alla fine diventano coloro da temere. C’è la scuola che dovrebbe insegnare a pensare, ma serve a irreggimentare, c’è il progresso che schiaccia i cittadini, c’è la critica ai nazionalismi di qualsiasi genere. Mai prima un cantautore italiano era stato così diretto e sfrontato; la voce perentoria di Edoardo e la sua chitarra che macina passione tracimano dai solchi.

Biglietto per l’Inferno

Biglietto per l’Inferno

Droga, isolamento, fuga, rifiuto dei dogmi sociali e religiosi. Tutte le problematiche tipiche di un giovane dei primi anni ’70 sfilano qui in cinque brani pregni di una rabbia e di una frustrazione che ancora oggi colpiscono come pugni in faccia. Il Biglietto per l’Inferno, da Lecco, passa alla storia per l’inedita fusione delle tipiche istanze prog-classicheggianti con un furente hard rock di marca Deep Purple/Uriah Heep. Il cantante Claudio Canali è completamente coinvolto nella dolorosa storia di una sconfitta, di una perdita delle illusioni e di un suicidio. Anni dopo Canali prenderà i voti e entrerà in una comunità monastica.

La finestra dentro

Camisasca

Battiato produce questo album shock suonandovi anche il sintetizzatore. Ha conosciuto Juri Camisasca a militare e ha compreso le particolarità del ragazzo. Del resto come rimanere indifferenti a uno che canta di topi nel cervello, si re-immagina Gregor Samsa, si cala nelle profondità della terra per ritrovarsi nella fattoria degli animali di Orwell, parla di trans e conclude immaginandosi Dio. Il tutto in canzoni dai contorni aguzzi che ruotano febbrilmente mostrando in continuazione le diverse facce del suo autore, cantate con una voce che va dall’isterico all’aulico.

Francesco De Gregori

Francesco De Gregori

Quello con la famosa pecora in copertina è il disco più intimo di De Gregori, quello in cui il cantautore romano si presenta totalmente a nudo – chitarra, voce e poco altro – in 11 canzoni dotate di uno struggente ermetismo poetico. A chi importa capire realmente di cosa canta? A chi si riferisce, cosa vuole raccontare? Se la sua arte ha fini politici o semplicemente vuole essere un ritratto dell’uomo in tutte le sue fragilità? Affrontare un album come questo vuole dire mettere da parte qualsiasi logica razionale e abbandonarsi al sogno, alla visione di un universo fatto di piccole cose tanto toccanti quanto sfuggenti. Anche questa è rivoluzione.

Rosso napoletano

Toni Esposito

Nei primissimi anni ’70 Tony Esposito si fa le ossa suonando batteria e percussioni per gente come Alan Sorrenti, Roberto Vecchioni e Francesco Guccini. Poi offre al mondo la sua idea di arte povera, alla portata di tutti, ma piena di inventiva e sensibilità. Comincia a percuotere padelle di ogni tipo per creare un sound che attinge dai bassifondi della sua Napoli e conduce alle alte sfere. Di questa tensione è fatto il suo primo album solista che nella suite omonima, lunga tutta la prima facciata, fonde rock, jazz, etnica, prog e brandelli elettronici in un viaggio immaginifico dai vicoli al paradiso.

Stanze di vita quotidiana

Francesco Guccini

La tagliente recensione di Riccardo Bertoncelli del sesto album di Francesco Guccini mandò su tutte le furie il cantautore, tanto che l’anno successivo il giornalista verrà citato in maniera altrettanto tagliente nella celeberrima L’avvelenata. In realtà Stanze di vita quotidiana è un’opera che Guccini non ha mai amato molto, una collezione di canzoni nelle quali la sua poetica raggiunge livelli profondi di malinconia (Canzone della vita quotidiana) e disillusione (Canzone della triste rinuncia). Una sorta di pessimismo cosmico che rischiava di trascinare l’autore in un pozzo di amarezza. Ma è propio questa densità dei sentimenti che lo rende unico, a patto di essere disposti a farsi pugnalare l’anima.

Li sarracini adorano lu sole

Nuova Compagnia di Canto Popolare

Ancora Napoli nella più straordinaria elevazione del patrimonio autoctono a cura di una formazione mai sufficientemente celebrata per la sua capacità di offrire il suono più autentico della città campana. Lontana dalla cartolina e dalle facili melodie, la proposta della Nuova Compagnia di Canto Popolare è intrisa di tutto il bello della verità. Li sarracini adorano lu sole è il disco più classico dell’ensemble, impreziosito dalla presenza della loro più celebre hit, quella Tammurriata nera che è una specie di inno sciamanico. Ma anche dalla dolcissima Ricciulina vero colpo al cuore. La voce di Fausta Vetere, il genio di Roberto De Simone, gli strumenti acustici finemente intarsiati negli arrangiamenti: quando si parla dello stato dell’arte nella musica popolare negli anni ’70 non si può prescindere da questo album.

Pierrot Lunaire

Pierrot Lunaire

L’esordio dei Pierrot Lunaire non ha la maturità di altre opere coeve in ambito prog. È un lavoro a tratti ingenuo e non certo suonato con la perizia che contraddistingue molte formazioni dedite al genere. Ma a modo suo è unico, dotato di un’atmosfera antica e decadente. Ascoltarlo è come aggirarsi al tramonto nel giardino di una magione abbandonata, tra statue, fontane e cancelli arrugginiti. Poi entrare nella villa, guardare gli arazzi sbiaditi, i drappeggi tarlati. Sentire il profumo di un nobile passato e inebriarsi al ricordo di un qualcosa che non si è mai vissuto.

Invenzioni

Renato Zero

La rivoluzione non passa solo per la musica e i testi, pure il modo di porsi ha la sua grande importanza in un 1974 che all’estero ha visto l’ascesa sempre più folgorante della stella di David Bowie e del glam rock tutto. E in Italia? Qui eravamo ancora in maglietta e jeans a zampa. Per fortuna arriva Renato Zero a imporre un personaggio destinato a shoccare i benpensanti e a proporsi come vera alternativa nostrana a Ziggy Stardust & similari. Invenzioni è il suo secondo album. Con fare apparentemente scanzonato Zero parla di temi come pedofilia, incomunicabilità, depressione e sentimenti espressi in maniera esplicita, come raramente era successo in Italia. Non è ancora lo zerofolle che tutti impareranno a conoscere, ma la strada è segnata.

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