I 15 migliori album internazionali del 2023 (fino a oggi) | Rolling Stone Italia
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I 15 migliori album internazionali del 2023 (fino a oggi)

Dal rock schizzato dei 100 Gecs alla neopsichedelia black di Lil Yachty, passando per Lana Del Rey, Gorillaz e il disco solista del cantante dei Fontaines D.C., il meglio dei primi sei mesi dell’anno

I 15 migliori album internazionali del 2023 (fino a oggi)

10,000 Gecs

100 Gecs

Il rischio alla base di 10,000 Gecs era uno solo: l’hyperpop non avrà rotto il cazzo? Tra vocine pitchate, chitarre metal e glitch computeristici, il rischio era annullare l’effetto sorpresa dell’esordio dei 100 Gecs. E invece, eccolo qua, un album capace di entusiasmare, di nuovo: attorno a tutta l’anarchia che ci mettono dentro, i 100 Gecs vincono perché scrivono melodie fortissime. Da quant’è che non si sentiva un disco rock tanto strambo e divertente, esaltante e allo stesso tempo pop, viscerale e spassoso?

The Record

Boygenius

Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus erano già cantautrici con una loro storia, amate da molti, soprattutto la seconda. Assieme, sono un trio alimentato dall’amicizia, dai libri, dall’ironia, da canzoni uniche. Il primo album (dopo l’EP di cinque anni fa) ha tutto: buone canzoni, belle armonie vocali, un’aria di complicità, folk vecchia maniera (e qualche chitarra elettrica indie). «Questa band» ci ha detto Baker «mi dà la possibilità di essere ambiziosa come non mi è permesso da solista». E poi sul palco le tre limonano: Crosby Stills & Nash non lo facevano.

Desire, I Want to Turn Into You

Caroline Polachek

Il secondo disco a suo nome è anche la consacrazione globale di una delle popstar più ricercate della scena. Dopo Pang, Desire, I Want to Turn Into You è un album – come da titolo – sul desiderio, «la forza motrice del mondo» come ci ha raccontato quando l’abbiamo intervistata. Il pop qui viene plasmato senza rispetto delle regole anche grazie alla regia sonora di Danny L Harle. Se fino ad adesso non era forse ben chiaro cosa si intendesse per avant-pop, questo disco ne è una spiegazione sonora eccellente.

Paranoïa, Angels, True Love

Christine and the Queens

La lunga trasformazione (personale, fisica, sonora) di Christine and the Queens giunge a una tappa importante. A pochi mesi dal non eccelso Redcar les adorables étoiles, Chris (che ora accetta i pronomi he/him) arriva a quello che fino ad ora è il suo album più ambizioso. Venti tracce, un concept album in tre atti (prodotto da Mike Dean) sugli angeli ispirato all’opera teatrale Angels in America di Tony Kushner e a Tommy degli Who in cui Madonna è presente in tre pezzi nel ruolo di un Grande Fratello onnisciente. Dentro c’è tutto: emotività e intimità, canzoni pop e sperimentazione, paranoia e angeli e il vero amore.

Multitudes

Feist

Ci sono artisti che hanno il dono universale – e apparentemente inesauribile – di scrivere belle canzoni. Leslie Feist è una di questi pochi. Ce lo ricorda – coi suoi tempi, giustamente lenti – da oramai venticinque anni e sei dischi (se non contiamo i quattro coi Broken Social Scene). Che dire quindi di quest’ultimo Multitudes? Che c’è ancora chi fa degli album da ascoltare dall’inizio alla fine, senza riempitivi, suonati come dio comanda. Grazie, Feist.

But Here We Are

Foo Fighters

È l’album migliore dei Foo Fighters da un sacco di anni a questa parte perché ha tutto quel che dovrebbe avere un disco della band. Compreso il fatto che è prevedibile, ma ci sta per un gruppo che esiste da quasi 30 anni. Un po’ per i testi, un po’ per la narrazione che l’ha preceduto, è difficile ascoltarlo senza pensare alla morte di Taylor Hawkins e della madre di Dave Grohl. Nonostante certi pezzi sulla perdita, la memoria e la morte, non è cupo. Di fronte alla tragedia, i Foo Fighters continuano ad essere i Foo Fighters e anche questo è rassicurante.

Chaos for the Fly

Grian Chatten

A questo punto non ci sono più dubbi: Grian Chatten è uno dei bei nomi del rock contemporaneo. Già lo sapevamo, trattandosi del frontman dei Fontaines D.C., ora ci crediamo ancora di più dopo averlo sentito alle prese con una serie di canzoni diremmo folk-pop, cariche di pathos, morbide e spettrali, lontane dallo stile del gruppo. «Stavo camminando di notte lungo Stoney Beach e l’album mi è arrivato dalle onde», ha detto con una certa fantasia Chatten. «Sono rimasto lì a guardarle e l’ho sentito: ogni parte, dalle progressioni degli accordi agli arrangiamenti degli archi». Ci vogliamo credere.

Cracker Island

Gorillaz

Coerente ma non prevedibile, solido ma non noioso, consistente ma non banale. Cracker Island, l’ottavo (qui ci sarebbe da discutere) disco in studio della band di Damon Albarn abbandona le solite montagne russe e cerca la pace in un suono rotondo, analogico, caldo, privo di spigoli digitali. Dieci tracce mature, ben scritte, arrangiate con eleganza e cultura, rinvigorite da una scelta eccellente di collaboratori: Bad Bunny, Beck, Stevie Nicks dei Fleetwood Mac, Thundercat, Tame Impala, Bootie Brown, Adeleye Omotayo degli Humanz Choir.

Scaring the Hoes

Jpegmafia & Danny Brown

Dopo cinquant’anni è giusto chiedersi ogni tanto: il rap ha ancora qualcosa da dire? Stando a questo disco collaborativo tra l’iconoclasta Jpegmafia e il rapper underground Danny Brown la risposta è: assolutamente sì. Interamente prodotto da Jpegmafia (ascoltatevi Fentanyl Tester per capire le sue capacità produttive, un brano di due minuti e mezzo con dentro almeno tre generi e un sample di Milkshake di Kelis), Scaring the Hoes è un disco per chi ama rap ed elettronica sperimentale e chi non ha paura di intraprendere un viaggio sonoro folle ma avvincente.

Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd

Lana Del Rey

Ok, 80 minuti di autoanalisi sono forse eccessivi, ma Ocean Blvd dimostra che razza d’autrice è Lana Del Rey, una che mischia il suo classicissimo cantautorato americano, dall’atmosfera rétro, elegante e morbosetta con qualche suono elettronico per raccontare storie personali e famigliari. Lei lo considera «un album di nomi». È po’ Norman Fucking Rockwell! e un po’ Born to Die. Si entra con l’one-two-ready di The Grants e si sbuca fuori da Taco Truck x VB in stato di trance.

Let’s Start Here.

Lil Yachty

C’è una linea che un rapper può o non può attraversare nella propria carriera e quella linea consiste nell’abbandonare i beat al pc per gli strumenti e le produzioni suonate. A suo modo una linea che determina una certa maturità personale (è il tema centrale di quest’album) e artistica (pensiamo a quanto successo con Tyler, The Creator o Mac Miller) che in questo caso porta Lil Yatchy al next level. Neopsichedelia black.

Council Skies

Noel Gallagher’s High Flying Birds

E alla fine, Noel Gallagher ha fatto uno dei suoi dischi solisti migliori limitandosi a fare Noel Gallagher. Messa da parte l’ambizione di produrre musica al passo coi tempi, che non è onestamente il suo, il musicista inglese ha reagito a un periodo non particolarmente felice rifugiandosi e portandoci con lui in un passato famigliare, in canzoni lievemente malinconiche e riflessive. Aria di casa sua, in attesa degli inediti «fuckin’ amazing» degli Oasis.

This Is Why

Paramore

Partiamo dal fatto che per noi This Is Way è stata tra le migliori canzoni del 2022. Attorno a questo album avevamo quindi molte aspettative che Hayley Williams e soci hanno ampiamente rispettato. A loro detta, il disco è ispirato in parte al suono dei primi Bloc Party (The News e C’est comme ça ci fanno capire subito cosa intendono) in cui la band riesce nel salto di maturità tanto atteso. La calma è arrivata dopo i continui cambi di formazione e finalmente i Paramore possono abbandonare il ruolo di band giovanilistica per puntare a diventare una rock band senza età.

In Times New Roman...

Queens of the Stone Age

La dimostrazione che si possono fare bei dischi anche senza grandi canzoni. Li si può fare, beninteso, se si ha l’impatto sonoro dei Queens of the Stone Age, qui particolarmente crudi, delle movenze meccaniche implacabili, con spigoli appuntiti e accenni di sana violenza, e pure una canzone come Cornavoyeur in cui si sentono echi di Bowie. Le invenzioni stanno nei timbri e nel mondo in cui le bad vibes di Josh Homme, che viene da un periodaccio, trovano sfogo non solo nei testi cupi, ma anche e soprattutto nei groove schiacciasassi e nei riff robotici ed eccitanti.

Rat Saw God

Wednesday

Rumoroso, destabilizzante, sgraziato, un po’ country e un po’ (tanto) alternativo, Rat Saw God è uno spaccato di vita ai margini. I Wednesday sono i nuovi campioni dell’indie rock sudista e le loro canzoni sono piccole storie di formazione e di abisso rurale-urbano, una messa in scena grottesca, affascinante e geolocalizzata. Un magnifico casino, come abbiamo titolato la nostra recensione.