È l’Italia del 2015: la trap della famosa ondata del 2016 è ancora in una fase embrionale fatta di singoloni che viaggiano principalmente su YouTube. Sfera è ancora quello di Ciny e si sta costruendo un nome e un personaggio aggirandosi nei backstage dei concerti dei suoi colleghi svapando a bordo di uno degli oggetti più iconici dell’annata in esame: l’hoverboard.
Gente come Guè caccia fuori album, come Vero, che suonano abbastanza caotici perché sospesi in un’epoca di profonda transizione, forse anche incertezza: ci trovi dentro il boom bap, il crunk di stampo Dogo, addirittura un feat. con un’icona del rap/rnb ripescata dai primi gloriosi Duemila: Akon. Altri, come i Uochi Toki, dall’underground e per l’underground continuano la loro missione, che però per definizione è fine a se stessa, (nobilmente) senza mire espansionistiche nel pop.
Dall’altra parte, nella zona della musica fatta con gli strumenti a corde e coi pezzetti di legno sbattuti sui tamburi, è un anno abbastanza florido, con slanci psych e strumentali che per diversi anni non si rivedranno più (e forse non si sono ancora visti, per lo meno del livello degli Heroin In Tahiti o la Squadra Omega).
Fatto questo breve preambolo, è ovvio che nel 2015, come ogni anno, la lista dei migliori dischi l’avevamo compilata. Ma qui, dieci anni esatti dopo, si tratta di tirare le somme, di stabilire chi ha superato degnamente la prova del tempo e chi no. Molte delle nostre scelte di allora rimangono salde in questa lista dei dieci migliori album del 2015. Altre sono scomparse, altre ancora sono state ripescate dalla panchina. In ogni caso, non è una classifica, e l’elenco è puramente cronologico in base al mese di uscita. Sia mai che i Calibro 35 se la prendono perché sono più in basso dei Pop X.
“Endkadenz Vol. 1” Verdena
Non è facile, neanche per la migliore band italiana, cacciare un disco che sia degno dei suoi predecessori, Wow ma soprattutto Requiem del 2009. Non è detto che i Verdena di fatto ci siano riusciti, ma Endkadenz Vol. 1, che oltretutto è solo il primo (più oscuro) dei due volumi che usciranno lo stesso anno, è speciale perché piuttosto estremo. Tanto per cominciare, e cito testualmente parole dell’Alberto Ferrari dell’epoca, è «roccia nel deserto, di notte. Tutto spiattellato». Tutto in saturazione e distorsioni, anche grazie all’uso massiccio del Petra, un fuzz artigianale made in Italy che praticamente asfalta tutto, dalle chitarre shoegaze dell’Inno del perdersi all’arpeggiatore nevrotico di Derek.
“Best Of” Pop X
Dieci anni fa dovevano ancora approdare a Bomba Dischi e fare er botto che già i Pop X pubblicavano il Best Of: come mai? Per il semplice fatto che in dieci anni (Davide e Walter hanno fondato il progetto synth pop nel 2005), nessuno se li era cagati di striscio, nessuno aveva la mezza intenzione di pubblicarli. Servono i regaz di Panico Dischi per raccogliere quelli che sono onestamente tra i più grandi inni del sagra-folk-elettronico (Cattolica, Pierino, Motoretta, ecc) e traslarli da un Bandcamp sgangherato a una pubblicazione vera e propria. Le grafiche fatte con paint però rimangono, com’è giusto che sia.
“Il limite valicabile” Uochi Toki
Sorvolando sul fatto che un disco con una copertina disegnata dal Dottor Pira merita di essere conservato alla Libreria del Congresso Intergalattico, Il limite valicabile dei Uochi Toki surfa sul confine tra il meme e la “”””sperimentazione”””” talmente bene che poi alla fine non può invecchiare. ‘Sti due matti sono la versione italiana e cazzara degli Sleaford Mods, ma con i bassi distorti al posto delle basi post-punk e motorik. Ironico anche che dopo il suddetto disco ne abbiano fatti almeno altri sette, ma per qualche motivo gli editor di Wikipedia hanno stabilito che il vero limite, stavolta invalicabile, per scrivere la pagina di un album del duo fosse proprio il lavoro del 2015. Loro direbbero molto probabilmente sticazzi, e noi con loro.
“DIE” Iosonouncane
Forse il disco più discusso dell’annata ’15. Poche tracce, per la precisione sei, troppe per un EP, troppo poche per un album, è il secondo lavoro riuscitissimo di un artista prima di allora sconosciuto ai più. Folklore sardo, esuberanze prog, chitarrine indie, colpi di cassa techno, synth retrofuturistici: il tutto, con un inspiegabile senso estetico, senza risultare un caciucco di tutti i generi/elementi di cui sopra, che in tutta onestà sono tanti e non sempre complementari, ecco.
“Sun and Violence” Heroin in Tahiti
È cosa abbastanza rara essere bravi sia a parole che a fatti: Valerio Mattioli e Francesco de Figueiredo, grandi penne tra le fondatrici della casa editrice Nero, fanno parte di questa piccola nicchia di gente sostanzialmente capace. «Francesco voleva suonare i droni, io volevo suonare la roba twang, ci siamo incontrati a mezza strada», aveva riassunto così Mattioli l’essenza del progetto Heroin In Tahiti, bello sia per il moniker (che bomba dev’essere farlo) che per l’identità grafica, che personalmente mi ha sempre ricordato cose molto stilose tipo i Ramleh. Chi poi ha letto Superonda del Mattioli sa bene a cosa si riferisce di preciso il critico romano quando parla di robe twangy: è esattamente il suono metallico della pennata sulla Stratocaster che si può per esempio trovare nelle chitarre degli Spaghetti Western musicati da Morricone. Insomma, deserto, psichedelia, dronazzi, ecc, ecc. Roba sospesa nel tempo e nello spazio (è musica strumentale, cazzo ne sai se l’hanno fatta due italiani o tre svedesi) e che quindi merita una menzione speciale in questa lista sconclusionata.
“Fertile” Stearica
Ascoltando Fertile degli Stearica, power trio torinese, viene quasi da chiedersi perché non esistono più loro dischi oltre il 2017. Pubblicato appunto l’ellepì per il ventennale dalla fondazione della band, i tre post-math-rocker devono aver pensato che il cerchio fosse giusto chiuderlo con la cifra tonda. Peccato, perché lungo le nove avventure sonore di Fertile, palesemente più delle improvvisazioni abbellite che brani scritti a tavolino, ci si addentra in un territorio inusuale, almeno per il ruock nostrano. Si saranno sciolti? Probabile. Ce li siamo dimenticati? Mai.
“Altri occhi ci guardano” Squadra Omega
Già a partire dal titolo, questo disco mi ha sempre dato la vibe paranoica di un cartone che non sai bene se ti è salito male oppure bene. È un giusto mezzo aristotelico tra paranoia e scariche di endorfine, tra oblio psichedelico totale e placidi momenti di lucidità. Fosse uscito negli anni ’70, probabilmente lo venderebbero ancora oggi negli autogrill.
“Πέτρα (Petra)” Mai Mai Mai
Antonio Tricoli aka Toni Cutrone aka Mai Mai Mai ama definire il suo progetto come Mediterranean Hauntology, prendendo in prestito il concetto filosofico coniato da Derrida (e poi esteso anche alla musica da Fisher, su tutti) e la cultura folkloristica del meridione, della Magna Graecia. Gli spettri di popoli ed epoche lontane tornano a infestare un presente in cui sì, è inscritto quello che verrà, ma porcaccia la miseriaccia ci viene precluso, offuscato, nascosto deliberatamente dal realismo capitalista. Una buona scusa per tirare fuori la macchina dei droni e dell’industrial noise e piazzarci dentro voci, balli, rimembranze popolane della Calabria.
“Vero” Guè
Come dicevamo più sopra, Vero di Guè, che all’epoca si faceva ancora chiamare Guè Pequeno per intero, è solo un tassello di un gigantesco mosaico che da lì a poco avrebbe completamente cambiato l’aspetto della musica italiana. Lo tsunami trap era dietro l’angolo e Guè poteva ancora permettersi di fare il Dogo, il boom bap o il crunk senza che qualche cagacazzo lo tacciasse di essere ormai obsoleto (poi l’anno dopo è arrivato Santeria col socio Marracash e anche il peggiore dei rosiconi è rimasto a casa muto). Tutto ciò per dire che il guercio è sacro e chi osa dire il contrario forse dovrebbe ripassarsi i Tribe Called Quest, i Wu Tang e compagnia bella. Il rap è prima di tutto essere cazzari e fregarsene di tutto e tutti, e Guè in questo ha una cattedra.
“S.P.A.C.E.” Calibro 35
Giunti al quinto album, i Calibro 35 si rendono ben presto conto che questa faccenda del funk poliziottesco alla lunga potrebbe stancare, loro in primis, rendendo stagnante un’idea bellissima ma pur sempre vincolante. E allora che fanno? Rimangono sulle sonorità vintage, soprattutto del loro decennio prediletto, i ’70, ma lo fanno puntando il nasino all’insù, verso lo spazio e tutto il mondo sci-fi che in quei lontani anni ha dominato al botteghino. Il risultato è prima di tutto un sospiro di sollievo per Colliva, Rondanini, Martellotta e banda: c’è vita oltre alla Milano a mano armata e l’hanno trovata proprio nello spazio interplanetario.
“Mainstream” BONUS: Calcutta
Bene, se sei giunto/a fin qui vuol dire che possiamo finalmente parlare del disco che ha stravolto il cosiddetto indie, e che forse gli ha dato una definizione più consona: itpop. Mainstream di Calcutta arriva come un fulmine a ciel sereno 10 anni fa anticipato da video che onestamente hanno fatto la storia, come Che Cosa Mi Manchi A Fare diretto da un ancora sconosciutissimo Francesco Lettieri che però saprà saggiamente declinare la formula bambino che canta per lanciare tutta l’epopea di Liberato, con NOVE MAGGIO. Tornando a Calcutta: Gaetano, Limonata, Frosinone, Del Verde. Di che stiamo parlando? Questo disco viene messo come bonus perché fa semplicemente parte di un altro campionato: quello che oggi, un decennio dopo, è diventato la serie A della musica cantautoriale italiana.