Nelle tantissime classifiche dei chitarristi più influenti della musica rock è difficile trovare il nome di Steve Hackett. In alcune, le più illuminate, compare al limite Robert Fripp, che per molti versi è stato una sorta di maestro per Hackett, che da lui ha mutato la voglia di sperimentare, di andare costantemente alla ricerca del suono particolare, inaudito. Di non mettersi costantemente in mostra con pose da guitar hero, ma stare chino sullo strumento a esplorarne tutte le particolarità, fino ai limiti estremi. Ma Fripp è l’uomo dei King Crimson, band da sempre rispettata da critica e pubblico. Quindi, quando nelle classifiche – insieme ai vari Gilmour, Page, Beck, Iommi, May, Blackmore – si vuole mettere un chitarrista “famolo strano”, si ricorre a lui.
Steve Hackett invece viene dai Genesis, che da sempre sono una brutta bestia per la critica e oggi paiono anche un po’ dimenticati dal pubblico mainstream, nonostante non manchino le celebrazioni (vedi l’ultima ristampa di The Lamb Lies Down on Broadway). Mentre molti artisti degli anni ’60-’70 continuano a essere idolatrati, la band di Peter Gabriel (prima) e di Phil Collins (dopo) è stata relegata un poco nelle retrovie, è diventato un gruppo da vecchi nerd forse a causa della scelta di dividere la carriera in due netti tronconi: dal prog più sofisticato al pop più becero. Perdendo quindi un poco di credibilità rock.
Ne fa le spese uno strumentista come Steve Hackett che invece meriterebbe più attenzione e studio proprio per le caratteristiche di cui si parlava, e per molto altro. In seno alla band, era sempre lì ad armeggiare la Gibson Les Paul, con suoni a volte stranianti (vedi molti esperimenti su The Lamb), con arpeggi impossibili, con parti a volte evidenti, altre meno che si rivelano però fondamentali. Hackett è anche sensibile chitarrista acustico, maestro alla chitarra classica e alla 12 corde, e appassionato solista, con esecuzioni passate alla storia come Firth of Fifth e altre destinate a cambiare il concetto di chitarra elettrica, vedi l’uso del tapping (su The Musical Box, The Return of the Giant Hogweed, Supper’s Ready, Dancing with the Moonlit Knight, per citarne alcune). Era stato sperimentato anni prima da alcuni chitarristi jazz e classici, portato nel rock da Hackett, reso celebre da Eddie Van Halen.
Altra particolarità di Steve è il suo muoversi agevolmente in svariati generi musicali. Ciò si è fatto evidente all’indomani dell’abbandono dai Genesis. Se l’esordio di Voyage of the Acolyte si muoveva ancora su atmosfere care alla band madre, con Please Don’t Touch si capisce che Hackett porta avanti una concezione musicale ad ampio raggio. Nel tempo il chitarrista si cimenta, oltre che con il prog, con il pop, il folk, la classica, la musica brasiliana, il jazz, il blues e l’elettronica.
Particolarità finale: gli album solisti di Steve Hackett a volte non sembrano nemmeno i dischi di un chitarrista. Interessato com’è al crossover tra stili, alle composizioni e ai suoni, non è raro che Hackett lasci sullo sfondo le sue abilità e il suo strumento per concentrarsi su altro. Il difetto di Hackett è forse quello di una creatività a volte ipertrofica, la pubblicazione di album a raffica tra opere soliste e tributi live e in studio ai Genesis (è costantemente in tour e mantiene alto il nome della band grazie alle riproposizioni del materiale storico). Per questo, e per festeggiare i 50 anni dalla pubblicazione del suo esordio Voyage of the Acolyte, pare utile concentrarsi su una classifica che prenda in esame i suoi dieci lavori indispensabili.
Blues with a Feeling
1994
È il disco che non ti aspetti da Steve Hackett: un album di puro blues, suo amore fin dall’adolescenza. E che classe, quanta maestria, da restare a bocca aperta nell’ascoltare uno strumentista dedito solitamente ad altri generi misurarsi con la musica delle radici. Come se l’avesse suonata da sempre. Chapeau.
To Watch the Storms
2003
È l’ultimo album dotato di una copertina realizzata da Kim Poor, moglie e musa del chitarrista, che si trova in mezzo a una tempesta quando realizza questo disco a causa di dissapori proprio con Kim che porteranno alla separazione. La tensione si avverte nelle 13 tracce di un lavoro che, per chi scrive, è l’ultima testimonianza realmente di valore nella produzione discografica di Steve. Mechanical Bride (tra King Crimson e Nine Inch Nails) e la romantica Serpentine Song le punte di diamante.
Darktown
1999
Un’opera dal mood oscuro e tormentato, con la passione per i King Crimson che viene a galla brano dopo brano. Ma non è un difetto, il chitarrista è in grado di personalizzare tale influenza con la sua creatività, offrendo un interessante mix. Come avrebbe suonato nel 1999 un mix tra In the Court of the Crimson King e Selling England by the Pound? Darktown è la risposta.
A Midsummer Night’s Dream
1997
Nel 1997 Steve decide di offrire una sua versione sonora del Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare con una suite in 18 movimenti per chitarra classica e orchestra. Partiture strettamente imparentate con la musica sinfonica, ma dal pulsante cuore prog a illustrare scene e personaggi con grande aderenza. Chiudendo gli occhi pare realmente di trovarsi al matrimonio tra Teseo e Ippolita, con Puck a fare da contorno. Chiusura in gloria con l’apoteosi di Celebration, inno alla ritrovata armonia.
Guitar Noir
1993
Guitar Noir arriva dopo una pausa di quasi 10 anni dal rock. L’ultimo album di quel genere era stato il mediocre Till We Have Faces (1984), pesantemente influenzato dalla musica brasiliana. In mezzo solo l’acustico Momentum. Quando Steve torna lo fa con stile, con brani dal grande afflato melodico (la sua chitarra è al top proprio quando si concentra sulla melodia, più che sugli svolazzi solisti) e un’atmosfera spesso solare, ariosa. L’iniziale, bellissima Sierra Quemada è lì a dimostrarlo.
Bay of Kings
1983
Se Steve Hackett fosse stato un pittore probabilmente sarebbe appartenuto alla scuola preraffaellita. La splendida copertina di Kim Poor testimonia proprio questa aderenza, gli intarsi d’alta scuola alla chitarra classica, all’acustica e alla 12 corde fanno il resto. È il primo album totalmente acustico di Steve, con solo il contorno del fratello John al flauto e di Nick Magnus alle tastiere. Con temi realmente struggenti come quelli di The Journey e di Second Chance.
Defector
1980
Tra il 1979 e il 1980 con un duo di album come Spectral Mornings e Defector Hackett riesce a far breccia nelle classifiche inglesi. Segno che la sua proposta è giunta a una perfetta armonia tra ricerca e commercialità, con un gruppo di ottimi strumentisti e diverse influenze che rendono la musica aperta a 360 gradi. Defector ha momenti sinfonici (The Steppes), pop (Time to Get Out), acustici (Two Vamps As Guests), schizoidi (Slogans) e anche ironici (Sentimental Institution). Un vero saggio delle capacità tecniche e compositive di Steve.
Please Don’t Touch!
1978
Con grande sorpresa da parte di Collins, Banks e Rutherford, nel 1977 Hackett abbandona i Genesis, affinché la sua creatività non abbia più vincoli ed egli possa esplorare in lungo e largo. L’anno successivo è già tempo di Please Don’t Touch!, che chiarisce quanto la voglia di mettersi in gioco sia grande. Steve si contorna di una pletora di musicisti e ospiti, alcuni assai distanti dal prog come Randy Crawford e Richie Havens, per dar vita a 10 canzoni realmente libere, aperte, appassionate. Sue.
Voyage of the Acolyte
1975
Mentre i Genesis si pongono domande sul proprio futuro post Peter Gabriel, Hackett cerca di reagire incidendo una serie di brani solisti, accompagnato dalla sezione ritmica della band (Rutherford e Collins), dal fratello e da altri collaboratori. Se si cerca lo Steve più genesisiano è a questo disco che bisogna guardare. Contenuto in una copertina da urlo, offre perle acustiche, sconfinamenti nel jazz-rock, ma soprattutto momenti prog come Star of Sirius (con Phil Collins alla voce) e Shadow of the Hierophant, 12 minuti da sogno caratterizzati dalla voce di Sally Oldfield (sorella di Mike) e da un crescendo sinfonico devastante.
Spectral Mornings
1979
È l’album dal maggior successo commerciale di Steve, un’opera che fa centro da tutti i punti di vista. Spectral Mornings è la scattante Every Day, è la magia acustica di The Virgin and the Gypsy, è l’Oriente sintetizzato di The Red Flower of Tachai Blooms Everywhere, è l’apocalisse di Clocks – The Angel of Mons ed è anche l’ironia di The Ballad of the Decomposing Man, con addirittura spunti salsa. La seconda facciata poi è un crescendo: a partire dalle alte punte di lirismo di Lost Time in Cordoba, passando per la cupa Tigermoth e terminando con l’apice della title track, la più bella melodia creata da Steve per il suo disco più intenso e maturo.
