A 12 anni dalla scomparsa, Lou Reed resta una delle figure più radicali, poetiche e inafferrabili della storia del rock. La sua ombra continua infatti a proiettarsi lunga sulla musica contemporanea: pochi artisti hanno saputo raccontare i bassifondi, il desiderio, la devianza e la solitudine con la stessa lucidità spietata e la stessa grazia ruvida. Dalla furia urbana di Transformer alle confessioni cupe di Berlin, fino agli esperimenti estremi degli ultimi anni, la carriera solista di Reed è un viaggio attraverso tutte le possibilità del suono e della parola. E la sensazione è che quando parlava dei personaggi delle sue storie, il vero protagonista fosse sempre lui.
In qualche modo, Lou Reed ha insegnato al rock come essere sgradevole e irresistibile allo stesso tempo. Poeta metropolitano, punk prima dei punk, amico di Warhol e Lester Bangs e nemico di chiunque volesse addolcirlo, ha passato la carriera a fare esattamente quello che voleva: a volte geniale, a volte insopportabile, quasi sempre avanti rispetto a tutti. Sono ancora molte le cose di Lou che non abbiamo afferrato e questo perché, fino alla fine, ha fatto scientificamente in modo che non potessimo afferrarle. Per celebrarlo, abbiamo messo in fila i dieci album che raccontano meglio la sua avventura solista.
Magic and Loss
1992

Se in New York aveva parlato degli amici scomparsi a causa dell’Aids e Songs for Drella era un’elegia per l’amico Warhol, Magic and Loss è un album incentrato quasi completamente sulla morte, sulla mancanza. Ispirato dalla malattia e dalla morte per cancro di due amici, il cantautore Doc Pomus, e probabilmente “Rotten” Rita, una figura della Factory di Andy Warhol, Magic and Loss è l’ennesima dimostrazione del momento di grazia di Lou, che nonostante il tema tetro e malinconico e l’assenza di brani concepiti come singoli, riesce persino a raggiungere il primo posto nella classifica Billboard Modern Rock Tracks con What’s Good. Il dualismo magia e perdita per Reed rappresenta più in generale l’accettazione del fatto che non esista nulla senza il suo opposto, che si possa quindi trattare un tema così intenso e doloroso non solo con alcuni dei testi più poetici e intelligenti di sempre, mettendo in primo piano sentimenti come impotenza e paura, ma anche col sarcasmo che ne aveva sempre caratterizzato la visione della vita.
Sally Can’t Dance
1974

Per l’amico/nemico Lester Bangs, Sally Can’t Dance rappresenta il momento in cui Lou Reed vende l’anima al diavolo per raggiungere i primi posti della classifica con un album alla portata di tutti. E lo rimarcherà senza peli sulla lingua per molti anni. Decontestualizzato, l’album pare tutto tranne che un’opera che strizza l’occhio alla massa. Il nuovo look di Lou, biondo e quasi rasato, mostra tutti i turbamenti dell’autore, il brano che dà il titolo al disco parla di una ballerina che non potrà più danzare perché è stata trovata morta nel bagagliaio di una Ford, Kill Your Sons racconta dell’esperienza dell’elettroshock…insomma non proprio roba composta pensando alle classifiche. La casa discografica gli chiede immediatamente un album dello stesso tenore, per sfruttare l’incredibile successo commerciale. Lou si presenta con i feedback di Metal Machine Music.
Songs for Drella
1990

Registrato in dieci giorni in presa diretta e senza l’aggiunta successiva di alcuna sovraincisione, Songs for Drella vede ricongiungersi, per la prima volta dal 1972, Lou Reed e John Cale con l’intento di celebrare la vita del loro mentore Andy Warhol. Drella (unione di Dracula e Cinderella) era infatti il nomignolo con cui veniva appellato il fondatore della Factory dalle persone che lo conoscevano meglio. Il ciclo di canzoni si concentra sulle relazioni interpersonali e sulle esperienze di Warhol, con brani che rientrano in tre categorie: il punto di vista in prima persona di Warhol, narrazioni in terza persona che raccontano eventi e vicende, e commenti in prima persona su Warhol da parte di Reed e Cale. In generale, le canzoni trattano gli eventi seguendo l’ordine cronologico. Accolto come uno dei capolavori assoluti di entrambi, anche se per ammissione stessa di Cale era quasi tutta opera di Reed, l’album aprirà la strada alla reunion dei Velvet Underground.
Coney Island Baby
1976

Il quinto album da studio di Reed giunge solo un anno dopo la pubblicazione di Metal Machine Music e si avvicina di più a quello che avrebbe voluto la RCA dopo Sally Can’t Dance. Sorta di celebrazione dell’estetica omosessuale, come e se non di più di Transformer, l’album tratta per lo più i sentimenti di Lou per Rachel Humphreys, la donna transgender con cui da tempo intrattiene una lunga e intensissima relazione amorosa. Allo stesso tempo il disco evoca ricordi nostalgici e pieni di tenerezza nei confronti di Coney Island, il luogo mai dimenticato dove Lou aveva passato l’infanzia prima di trasferirsi con la famiglia a Long Island. Come disse in un’intervista nel 1979: «Dire “I’m a Coney Island baby” alla fine della canzone è come dire: non ho ceduto di un solo centimetro rispetto a quel periodo della mia vita». Non mancano i soliti ripescaggi dall’esperienza con i Velvet (She’s My Best Friend risaliva al 1969) e i momenti più crudi da strada, come la claustrofobica Kicks che racconta la storia di un serial killer tratteggiandone la figura con toni violenti e iperrealistici.
Ecstasy
2000

Ecstasy può essere considerato l’ultima raccolta di canzoni della carriera di Lou Reed. Nei 13 anni successivi, infatti, l’ex Velevet Underground pubblicherà The Raven, basato sull’opera di Edgar Allan Poe, uno strumentale legato al suo amore per il Tai Chi e Lulu in compagnia dei Metallica. Vista in quest’ottica, l’opera rappresenta la summa di tutti i temi trattati da Reed nei 30 anni precedenti. In esso troviamo infatti la violenza, le parafilie, i personaggi e tutte le contraddizioni e l’infinito dolore della sua poetica. Talvolta Lou appare aver fatto pace con la vita, ma subito dopo parla di amori malati o racconta il degrado della prostituzione come ai vecchi tempi. Come spesso accaduto in passato, il disco è una montagna russa di temi e sonorità: si passa dall’iniziale Paranoia Key of E, col suo riff alla Stones e un ritmo che spesso pare andare in direzione opposta rispetto al classico parlato di Reed, a brani ossessivi come Mystic Child e Mad, per poi rallentare e ripartire senza soluzione di continuità. Il tema dell’amore, alla fine, risulta comunque il più trattato. Rock Minuet e la follia di 18 minuti di Like a Possum dimostrano che Lou continua per l’unica strada conosciuta: la sua.
Street Hassle
1978

Se Metal Music Machine rappresentava la folle trasposizione rumoristica dell’esaurimento nervoso che aveva colto Lou alla metà degli anni ’70 (oltre che il più grande vaffanculo possibile alla sua casa discografica), la sinistra aura che aleggia su Street Hassle non era certo più rassicurante. L’album inizia con uno dei casi più emblematici di disagio psichico mai messo in atto in una canzone: Gimmie Some Good Times. Il brano mostra Lou cantare mentre in sottofondo un’altra delle sue personalità distrugge Sweet Jane: poco più di tre minuti di delirio, in cui l’autore sembra lottare contro il proprio vecchio io, facendo a pezzi uno dei suoi maggiori successi e prendendosi gioco di se stesso senza un briciolo di ironia. Il resto è meno psicotico, ma decisamente disomogeneo: dalla lacerante title track in cui compare anche Springsteen, a brani r&b come I Wanna Be Black, fino al solito ripescaggio dall’epoca Velvet di Real Good Time Together.
Berlin
1973

Aspramente criticato, quando esce Berlin viene accolto come la nemesi totale di Transformer. Chi si aspettava un Lou Reed ormai schiavo del successo smodato di Walk on the Wild Side evidentemente non aveva capito con chi aveva a che fare. Spinto da Bob Ezrin a sviluppare la storia della coppia presente nel suo primo album senza Velvet, Lou mette in scena uno dei racconti più disperati della storia del rock, parla di una coppia di tossici che finisce in modo straziante. Qualcosa ancora oggi di difficile da ascoltare senza stare malissimo. Risultato? Il mood depresso dell’opera quasi fa uscire di testa Ezrin e il disco si rivela un disastro colossale. Oggi è considerato uno degli apici della sua poetica decadente.
The Blue Mask
1982

Quando giunge a comporre The Blue Mask, Lou Reed è forse al punto più basso della sua carriera, ma sta cercando di risolvere i suoi problemi personali. È un periodo di grossi cambiamenti, con un matrimonio appena avviato e una voglia sincera di ripulirsi che si era già intravista nei suoi (apparentemente) innocui album appena precedenti. In pochi, quindi, si sarebbero immaginati un album di tale portata. Lo stimolo maggiore arriva da Robert Quine, fan numero uno al mondo dei Velvet e amico da anni di Lou. Il suo stile chitarristico, simile a quello di Sterling Morrison, si sposa a meraviglia con quello di Reed, la cui vena creativa impenna. Rolling Stone US lo ha descritto così: «Quello che nemmeno John Lennon era riuscito a fare. Lou Reed ha unito il suo Double Fantasy e il suo Plastic Ono Band dimostrando che quei due percorsi finalmente si sono fusi».
Transformer
1972

Diciamo la verità, per il grande pubblico Lou Reed è stato e rimarrà sempre quello di Transformer (e, se vogliamo esagerare, di Rock’n’Roll Animal). Un po’ perché si tratta dell’album contenente i brani più conosciuti della sua carriera solista, da Perfect Day a Walk on the Wild Side passando per Satellite of Love e poi perché, dopo l’insuccesso dell’album di debutto, la RCA acconsente a un secondo capitolo solo a patto che siano coinvolti David Bowie e Mick Ronson, reduci dal successo di Ziggy Stardust. A differenza del disco precedente, questa volta i brani sono quasi tutti nuovi, ad eccezione di Andy’s Chest e Satellite of Love che provengono ancora da vecchie session dei Velvet Underground. Tra tutti gli album inseribili nell’immenso calderone glam dell’epoca, resta forse il più genuino, lascivo e credibile insieme al debutto di pochi anni dopo dei New York Dolls. Come per ogni fase successiva della sua carriera, il ruolo di portabandiera di qualsiasi tipo di messaggio va strettissimo a Lou, così come il clamore mediatico che ne segue. Un po’ per indole, un po’ per orgoglio, Reed cambierà subito rotta, parlando per anni delle registrazioni di Transformer come di un periodo davvero povero di divertimento e di stimoli.
New York
1989

Chi se non il re di New York poteva creare un’opera completamente incentrata sulla Grande Mela? Dopo essere stato quasi completamente dimenticato dagli acquirenti di dischi e considerato ormai più l’icona di un tempo passato che un artista ancora capace di lasciare il segno, Reed sforna uno degli album più importanti della sua discografia, che viene accolto come un miracolo da pubblico e critica. Dirty Blvd è il pezzo che lo riporta in vetta alla classifica dei singoli, ma è tutto il concept, che Lou invita ad ascoltare in un’unica seduta come se fosse un libro o un film, a sbalordire per crudezza, poesia ed attualità. Esempio più calzante è Halloween Parade, che parla dei tanti conoscenti scomparsi a causa dell’Aids in un momento storico in cui il virus viene trattato ancora come un tabù dai media. Nel corso delle canzoni, Lou cita una lista infinita di nomi e cognomi, dall’amico John Mellencamp a Jimi Hendrix, da Rudy Giuliani a Mike Tyson, passando da Budda e la Vergine Maria per arrivare fino all’attivista afroamericano Jesse Jackson e Donald Trump. Mica male per un disco uscito nel 1989.












