Gli album anni ’70 del Banco del Mutuo Soccorso, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Gli album anni ’70 del Banco del Mutuo Soccorso, dal peggiore al migliore

Concept sull’evoluzione dell’uomo, progressive, canti per prigionieri politici, classica, richiami al melodramma: ecco il meglio della produzione del gruppo di Francesco Di Giacomo e Vittorio Nocenzi

Gli album anni ’70 del Banco del Mutuo Soccorso, dal peggiore al migliore

Il Banco del Mutuo Soccorso negli anni '70

Foto: Mondadori via Getty Images

“Nella storia del rock ci sono tante rockstar, ma un solo Banco del Mutuo Soccorso”. Così il 6 luglio 2002, all’ippodromo romano delle Capannelle, Francesco Di Giacomo dà il via all’esibizione della sua band per festeggiare i trent’anni dall’uscita del primo album. E le parole del compianto Di Giacomo sono quantomai veritiere, allora come oggi. Il Banco del Mutuo Soccorso è infatti qualcosa di unico all’interno della storia della musica italiana, così come sono uniche molte delle formazioni che daranno lustro all’epoca d’oro del prog nel nostro Paese. Il Banco però è unico tra gli unici e riesce a dare vita a un suono del tutto originale nella sua commistione tra melodramma italiano, pulsioni del rock più incandescente, jazz e classica. La voce di Francesco ha fatto storia a sé, così come i testi, scritti insieme a colui che ha composto la quasi totalità del materiale della band romana: il tastierista Vittorio Nocenzi.

I testi dicevamo, moderni ancora oggi nel dipingere uomini e donne smarriti che cercano sempre e comunque di afferrare quello slancio vitale che li possa portare a capire qualcosa in più del mondo in cui vivono. Così come è vitale la figura di Di Giacomo, grande uomo da tutti i punti di vista al quale bastava aprire bocca per illuminare, con il suo canto e con i sempre lucidi siparietti tra un brano e l’altro. Nel frattempo Nocenzi tesse le sue trame sonore fatte di intrecci di tastiere, con un pianoforte sempre in movimento (suonato in coppia con il fratello Gianni) e incastri ritmici (con Renato D’Angelo al basso e Pierluigi Calderoni alla batteria) spesso di una difficoltà immane, forti debitori della lezione di uno Stravinskij, per dire. Il tutto però arriva fresco, si potrebbe dire quasi semplice all’orecchio, quando semplice non è affatto. A condire il tutto ci pensano la chitarra e la tromba di un altro grande purtroppo scomparso: Rodolfo Maltese.

Da quel 2002 di acqua ne è passata sotto ai ponti, Di Giacomo e Maltese non sono più tra noi, ma Vittorio Nocenzi ha preso in mano il timone e sta fieramente traghettando in giro per l’Italia una formazione del BMS nuova di zecca, con in testa il cantante Tony D’Alessio che riesce nel miracolo di non fare rimpiangere più di tanto Di Giacomo. Il gruppo ha dato anche alle stampe, a distanza di quasi trent’anni dal precedente, un nuovo ottimo album in studio, Transiberiana.

Ma questa è storia recente, facciamo di nuovo qualche passo indietro, andiamo agli inizi, nel 1968, quando un diciassettenne Vittorio Nocenzi strappa la possibilità di un’audizione presso la RCA. A quel tempo i solisti non tirano più di tanto e così Nocenzi si inventa di essere parte di una band che non esiste. In pochi giorni, insieme al fratello minore Gianni e a una serie di amici musicisti ecco che il gruppo è pronto, e si chiama Banco del Mutuo Soccorso non a caso, è infatti proprio un Mutuo Soccorso quello che in quel momento serve. I provini frutteranno un contratto ma il Banco con Nocenzi voce solista avrà vita breve e lasciti discografici postumi. Ci vorrà nel 1971 l’incontro con Francesco Di Giacomo, Renato D’Angelo e Pierluigi Calderoni, rispettivamente voce, basso e batteria del gruppo Le Esperienze, e con Marcello Todaro, chitarrista dei Fiori di Campo, per rendere stabile una formazione che farà storia.

Da qui in avanti cominciano le vicende discografiche di seguito analizzate. Vicende che prendono in esame unicamente i dischi usciti nel corso degli anni ’70, l’epoca d’oro del Banco, quella nella quale la band ha sfornato, uno dietro l’altro, una serie di album che devono assolutamente mancare nelle case di ogni appassionato di musica. L’epoca che ha fatto del gruppo romano una delle formazioni più importanti del nostro rock. Badate bene: non è una classifica dal più brutto al più bello, ma dal bellissimo all’indispensabile.

8Banco (1975)

Il BMS vola in Inghilterra, Greg Lake e Keith Emerson li vogliono parte della Manticore, la loro etichetta personale che sta facendo la fortuna internazionale di un’altra band italiana, la PFM. Per presentarsi al pubblico anglosassone si opta per una sorta di compilation di brani già apparsi nei dischi precedenti, con pezzi ri-registrati per l’occasione (R.I.P., Metamorfosi), alcuni remix (Dopo… niente è più lo stesso, Traccia II, Non mi rompete) e due brani inediti (Chorale e L’albero del pane). Detto che gli inediti sono di qualità eccelsa, il disco vale anche per i brani già conosciuti, qui cantati in inglese con testi (a cura di Marva Jan Marrow) che mantengono intatto il loro spirito. Musicalmente le rivisitazioni aggiungono freschezza e particolarità a un tessuto artisticamente già completo.

7Garofano rosso (1976)

Colonna sonora del film Il garofano rosso di Luigi Faccini, tratto dall’omonimo romanzo di Elio Vittorini, Garofano rosso fa a meno della voce di Di Giacomo e mette in luce tutte le capacità strumentali della band in una serie di composizioni che vivono di luce propria anche senza il contributo delle immagini e si spingono spesso a toccare territori jazz ed etnici.

6…di terra (1978)

Come il precedente anche …di terra è un disco strumentale, arrivato in un momento in cui i gusti del pubblico stanno radicalmente cambiando e le ampie tessiture del gruppo romano cominciano a star strette a chi cerca suoni meno impegnativi. Con la sua solita caparbietà la formazione risponde con il suo disco più sperimentale e classicheggiante. Una lunga suite sinfonica realizzata con l’apporto dell’Orchestra del Conservatorio di Santa Cecilia diretta da Antonio Scarlato. L’influenza del compositore russo Igor Stravinskij è più che mai manifesta, ma il Banco aggiunge un calore tutto mediterraneo alle composizioni, le quali, anche se mancanti della voce, mettono in luce sinuose costruzioni ritmico/armonico/melodiche. I titoli dei brani sono i versi di una poesia di Francesco Di Giacomo.

5Canto di primavera (1979)

Mentre il pubblico italiano sta definitivamente voltando le spalle alle raffinatezze di prog & derivati, il Banco tira fuori un album leggero, nella migliore accezione del termine. Primaverile si potrebbe dire rifacendosi al titolo. Con brani più corti ma non mancanti della consueta inventiva, momenti che si spingono verso certo jazz-rock e una mistura sonora tipicamente mediterranea, con suoni acustici ed elettrici in perfetto equilibrio. Sul tutto aleggia però una sensazione di malinconia, quella di un momento di grandi sogni e speranze che stanno definitivamente tramontando. Il picco melanconico di Lungo il margine è emblematico al riguardo. La gioiosa title track mescola invece una melodia secentesca dell’Alta Savoia con un canto tradizionale palestinese.

4Come in un’ultima cena (1976)

Ancora il disincanto tipico della seconda metà dei ’70, il crollo delle aspettative del ’68, le speranze di una nuova e più illuminata società anti-capitalista che vengono spazzate via dagli orrori del terrorismo e dal disimpegno crescente. Questo e molto altro va a finire in Come in un’ultima cena, momento di confronto tra le (dis)illusioni del protagonista e la dura legge di una società in pieno cambiamento che finirà per rifugiarsi in discoteca pur di non pensare. I brani sono una meraviglia di intuizioni sonore, leggermente meno articolate che nei dischi precedenti, ma non per questo carenti di fascino, con una serie di testi che toccano diverse corde dell’animo, insinuano dubbi, cercano di scardinare le convenzioni. Il finale di Fino alla mia porta è una vera ascesa emozionale.

3Darwin! (1972)

“Il creato si è creato da sé”, canta ironicamente Francesco Di Giacomo ne L’evoluzione, a mettere in dubbio false credenze religiose e secoli di oscurantismo. Darwin! (con il punto esclamativo) è il buon senso che si erge a faro per illuminare gli uomini e farli uscire dall’ignoranza. Un concept che parte dalle origini della vita e si spinge fino a fotografare un’evoluzione che gradualmente si è fatta involuzione, con uomini che vivono dentro “scatole di pietra dove non si sente il tempo”, mentre “la voglia di fuggire che mi porto dentro non mi salverà”. Il Banco, sei ragazzi di 19-25 anni che sognano un futuro diverso e mettono in guardia tramite metafore. Ancora molta speranza nelle loro mani e nel loro canto, suoni primordiali, paura, slancio. Sul tutto il tempo che stritola come una macina: Ed ora io domando tempo al tempo (ed egli mi risponde: non ne ho!).

2Io sono nato libero (1973)

La libertà in tutte le sue forme è il concetto che sta dietro a questo straordinario compendio di suoni e parole. Io sono nato libero prende le mosse dalla lunga Canto nomade per un prigioniero politico, ispirata dal violento colpo di stato del Cile (1973) e si inoltra nelle riflessioni di un prigioniero politico. Riflessioni colme di dolore, ma anche di un’innata speranza: l’uomo è nato libero e nessuna prigione può tenere sotto chiave le sue idee. Non mi rompete è l’ironico e leggero tentativo di andare oltre le avversità, La città sottile è il mondo moderno che mina la libertà promettendo la stessa, Dopo… niente è più lo stesso sono le amarezze di un soldato che torna dalla guerra, Traccia II è la speranza. Un disco che andrebbe studiato in tutte le scuole per capire cosa sono veramente la musica e la poesia, quanto le parole e le note possano essere potenti nel loro tentativo di fare pensare le persone, di cambiare il mondo.

1Banco del Mutuo Soccorso (1972)

Primo posto (ma in realtà ex aequo con il precedente) per lo storico debutto che porterà il BMS dalle cantine di Marino alle vette delle classifiche. Banco del Mutuo Soccorso presenta tutto il mondo della formazione, a tratti in maniera ancora ingenua, ma già pregna di tutta la passione musicale e poetica. Oltre a brani che passeranno alla storia come R.I.P. (violenta cavalcata con un finale sinfonico da brividi) e Metamorfosi (10 minuti di saliscendi sonori al cardiopalma) l’album è elevato dalla presenza de Il giardino del mago, la più bella suite della musica italiana, quasi 20 minuti di poesia e sogno, quello per un pensiero diverso, realmente rivoluzionario. Diceva Di Giacomo a proposito a Opera Incerta: “Io a quell’epoca avevo 25 anni, e a quell’età si è pieni di sacro furore artistico e si scrivono cose che ti riguardano, le tue crisi, i tuoi desideri. Ne Il giardino del mago ho scritto del cambiamento, della forza, della possibilità, del piacere di aprirsi agli altri. Sono cose comuni a tutti in quel ‘lager’ che è l’età che va dai 18 ai 27-28 anni, un’età in cui pensi di poter cambiare il mondo anche se poi, come dice Nino Manfredi in C’eravamo tanto amati, ‘volevamo cambiare il mondo, ma il mondo ha cambiato noi’. Ma questo non vuole affatto dire essersi arresi”.

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