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Dispari è bello: quando i rocker mollano il quattro quarti

Abbondanti ed evidenti nel prog e nel jazz, nascosti fino a essere percepiti come "normali" nel pop-rock, i tempi irregolari muovono canzoni celebri. Contare per credere

Foto press

Negli anni del prog, sulla scia delle influenze della musica colta del Novecento e di quella tradizionale balcanica, era diventato consueto ascoltare brani basati su tempi fortemente irregolari, quanto meno per l’orecchio “occidentale”. Quelle piccole frazioni poste all’inizio del pentagramma iniziavano a sfoggiare i numeratori più inusuali: 5, 7, 11, 19, e così via. Una parte di quella aritmetica musicale, sia pure in maniera inconscia, si è sedimentata nella memoria del rock, pur intrinsecamente legato ai tempi cosiddetti regolari (ovvero i multipli del due e del tre).

Volendo leggere il fenomeno in senso concettuale, potremmo dire che nel prog l’adozione dei tempi dispari rispondeva all’esigenza di sottrarre la musica leggera alla sfera della fisicità (incarnata dal piede che batte spontaneamente “in quattro”), a tutto vantaggio di un ascolto tanto impegnato e intellettuale quanto lo era la composizione. Gli esempi qui riportati, viceversa, dimostrano come il rock sia spesso riuscito ad assimilare quei ritmi insoliti e a normalizzarli, anche per un orecchio “comune”. Perché se è vero che il rock è il linguaggio della gente, ricordiamoci cosa diceva Frank Zappa: «La gente non parla in 4/4».

All You Need Is Love

The Beatles

1967

In principio ci sono sempre loro. Anche brani apparentemente semplici, come questo, nascondono quasi sempre un qualcosa di anomalo. Sembra un 4/4 ma non lo è, lo si capisce sin dall’ingresso del coro: i Fab Four cantano «Love, love, love» e le nostre dita contano fino a sette, prima di ricominciare il giro. Tipico di Lennon, sperimentale per istinto, piegare la metrica alle esigenze della melodia e del testo (si ascolti Happiness Is a Warm Gun, con le sue sequenze di 3/8, 5/4, 6/4, 10/8, 12/8…). Ringo, altrettanto istintivamente, si adegua.

Whipping Post

The Allman Brothers Band

1969

Se Ringo deve sbrigarsela da sé, la band dei fratelli Allman stupisce per la sua scelta — piuttosto stravagante per l’epoca — di schierare un duo di batteristi-percussionisti, Butch Trucks e Jaimoe Johanson. I quali, nella traccia finale dell’eponimo album d’esordio (e ancor più nelle sue versioni live) inseguono i fratelli Duane e Gregg lungo un groove in 11/8, con quella suddivisione degli accenti 3-3-3-2 che sembra fatta apposta per convincerci che ci sia una piccola tessera di tempo mancante. Non a caso, il brano sarà tra le riletture live preferite da Zappa.

Money

Pink Floyd

1973

Si dice spesso che il tempo è denaro. Qui accade il contrario: è il suono di monete e registratori di cassa a dettare la scansione ritmica su cui si inserisce uno dei più celebri riff di basso che orecchio umano ricordi. Nonché l’esempio più noto di metro irregolare applicato al rock. Un altro 7/4 ben camuffato, che infatti a un certo punto torna in quattro: «Soprattutto per rendermi la vita più facile durante l’assolo», ha confessato David Gilmour tempo fa.

The Ocean

Led Zeppelin

1973

Stesso anno, stesso tempo. O quasi. La traccia che chiude l’album Houses of the Holy è tutta costruita su una sequenza ritmica in cui si alternano battute da 4/4 e da 7/4. Bonham, Page e Jones la seguono ostinatamente, come fosse un mantra, fino alla lunga coda shuffle in cui le briglie si sciolgono a tal punto da smentire il titolo che aveva aperto il disco (The Song Remains The Same)…

Solsbury Hill

Peter Gabriel

1977

Con un altro bel 7/4 arricchito da un elegante motivo armonico debutta da solista Peter Gabriel, il quale con i Genesis non aveva certo lesinato quanto a peripezie ritmiche e “apocalissi in 9/8”. Come per il brano degli Allman Brothers, anche qui il beat mancante conferisce un autentico moto perpetuo alla canzone, senza mai metterne in ombra le altre componenti. Un po’ come i Beatles, ma con un sovrappiù di intenzionalità.

Rusty Cage

Soundgarden

1991

Intenzionalità che, a leggere le dichiarazioni dei Soundgarden, sarebbe totalmente assente dal «fortuito» e oltremodo dispari 19/4 che destabilizza il finale di Rusty Cage (da 2’45”). Una modulazione ritmica che è quasi drammaturgica per come cambia l’atmosfera, resa particolarmente inquieta dalla scansione degli accenti: 3-3-3-5-3-2. «Sento che qualcosa è successo, ma non saprei dire esattamente cosa», rimugina l’ascoltatore, comprensibilmente smarrito.

Seven Days

Sting

1993

Così come Peter Gabriel, Sting riesce con maestria a dissimulare la complessità ritmica di questa hit, con una sprezzatura da far invidia al Cortegiano di Baldassarre Castiglione. «Cosa ci vuole a cantare mentre si suona il basso in 5/8?» sembra pensare Sir Gordon Sumner durante il video. Finezza tra le finezze, il pattern iniziale di Vinnie Colaiuta, che sovrapponendo alla griglia in cinque gli accenti binari dell’hi-hat e relegando il rullante sul quattro illude la nostra percezione ritmica, riportandoci virtualmente al caro vecchio 4/4.

Times Like These

Foo Fighters

2003

«Tempi come questi» non se ne trovano più facilmente, nel rock del Ventunesimo secolo. Ma Dave Grohl e soci calano sul tavolo un altro settebello, quello del riff che domina l’intro e l’inciso, sottolineato dalle robuste bacchettate del compianto Taylor Hawkins, la cui figura di due sedicesimi e un ottavo sull’ultimo beat di ogni misura riavvia il discorso come farebbero i «punto e a capo» battuti su una vecchia e massiccia macchina da scrivere.

15 Step

Radiohead

2007

I quindici scalini che Dantès deve discendere nel romanzo Il Conte di Montecristo? O quelli che conducono nel Tempio di Gerusalemme? Forse, più semplicemente, i quindici passi necessari per danzare su questo ritmo in cinque. Anche i Radiohead si cimentano con qualche digressione dispari: nel 2001 c’era stato il 7/8 di Morning Bell (da Amnesiac), che dal vivo verrà spesso unito a questo pezzo tratto dal successivo In Rainbows. Una scelta deliberata, ha spiegato Ed O’Brien, aggiungendo: «In Spagna, dove sono abituati alle palmas, i rapidi battiti di mani del flamenco, adorano questa scelta. Altrove in Occidente non abbiamo altrettanta familiarità con il ritmo».

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