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Cinque dischi per riscoprire Charles Mingus

Il 22 aprile 1922 nasceva il jazzista più incazzato, collettivista e poliedrico di tutti

Charles Mingus, foto di David Redfern / Redferns

Multietnico e multiculturale Charles Mingus lo era per natura, di certo non per scelta. Un po’ afroamericano, un po’ cinese, un po’ svedese e un po’ indiano, il contrabbassista ha mosso i primi passi nel mondo del jazz con Art Tatum. Nato il 22 aprile 1922 a Nogales, in Arizona, Charles Mingus ha fatto del suo sangue misto una bussola musicale: Duke Ellington, Strauss e Ravel, la musica latina e quella popolare, il blues e il rock, non c’è ancora stato un artista più dinamico e curioso di lui. Il suo zampino è presente in praticamente tutte le evoluzioni della musica jazz, da Ellington all’hard bop, passando per il free e per le contaminazioni fusion.

Charles Mingus, soprattutto, era un tipo incazzato. Nella sua autobiografia, Peggio di un Bastardo, sono raccontati i primi anni della sua vita, la rabbia verso il razzismo e la passione politica espressa anche e soprattutto attraverso la musica. L’idea dell’improvvisazione totale, senza standard, senza direzione, è figlia di una concezione della vita collettivista – e per certi versi orgiastica – che non lo abbandonerà mai. Ecco 5 dischi da riscoprire – anche uno dietro l’altro, a vostro rischio e pericolo – per festeggiare il suo compleanno. Si, non c’è Mingus Ah Um, ma ascoltatelo lo stesso.

1. Pithecantropus Erectus (1956)

L’apertura di Mingus verso forme musicali più free e meno legate alla forma modale inizia di fatto con Pithecantropus Erectus, disco pubblicato nel 1956 con Atlantic Records. Il contrabbassista si presenta in studio con una formazione essenziale: due sassofoni (Jackie McLean al contralto e J.R. Monterose al tenore), contrabbasso (Mingus), pianoforte (Mal Waldron) e batteria (Willie Jones).

Le composizioni, invece, sono tutto tranne che essenziali: Pithecantropus Erectus, la title track che apre l’opera, è una suite che racconta l’evoluzione della specie umana. Il brano si chiude con un’improvvisazione totale, polifonica, su un tempo che saltella dai 4/4 ai 6/4. L’unica composizione non firmata da Mingus è A Foggy Day, uno standard scritto da George e Ira Gershwin inciso in versione nostalgica: un saluto commovente ai rumori di San Francisco.

2. Tijuana Moods (1962)

“L’album che lo stesso Charles Mingus considera come la sua opera migliore. Qui lui e i suoi migliori musicisti hanno rivissuto in musica un eccitante – e controverso – viaggio per le vie di una città di confine messicana”. Così si legge sulla cover di Tijuana Moods, disco che Mingus incise nel ’57 ma pubblicò solo 5 anni più tardi, nel 1962. Perchè? La sua etichetta del periodo, la RCA, era troppo concentrata su Elvis Presley.

La formazione, questa volta, è più ricca: al tradizionale quartetto jazz si aggiungono percussioni, nacchere e ben tre voci – una dello stesso Mingus.
Tijuana Moods è un concept album – sì, nel 1957 –, la storia di un turista e del suo viaggio nelle perversioni di una città di confine. È facile intuire cosa sia cambiato a livello musicale: il disco è intriso di influenze latine che, insieme alle sfuriate jazz, disegnano una città perduta, fumosa, orgiastica e schizzata.

3. Charles Mingus presents Charles Mingus (1960)

Nel 1959 un uragano – che di cognome faceva Coleman – colpì la scena jazz newyorkese. La pubblicazione di The Shape of Jazz to Come è stata un evento epocale per i musicisti dell’epoca, compreso Mingus. A differenza di Miles Davis (che considerava Coleman uno “svitato”) e Dizzy Gillespie, però, Mingus ha accolto con grande entusiasmo l’approccio avanguardista del sassofonista papà del free jazz. Charles Mingus presents Charles Mingus, registrato rigorosamente live ai NOLA Penthouse Studios di New York – e in un solo giorno, il 19 novembre 1960 -, è un disco irripetibile.

Da Folk Forms, No.1, un purissimo blues, fino a Original Fables of Faubus, brano di protesta scritto contro il governatore dell’Arkansas Orval E. Faubus – il “fascista supremo” -, le composizioni del disco sono vertiginose sia dal punto di vista armonico che da quello testuale. La Columbia era terrorizzata, e Mingus decise di passare alla più progressista Candid. Ascoltando questo disco, poi, è impossibile non innamorarsi di Eric Dolphy.

4. Blues & Roots (1960)

«Questo è un disco insolito – presenta solo una parte del mio mondo musicale, il blues. Un anno fa, Nesuhi Ertegün mi ha suggerito l’idea di un disco nello stile di Haitian Fight Song. Voleva dare in pasto ai miei critici un trionfo di musica soul: gospel, blues, swingata, ultraterrena. Ci ho pensato su, ho passato la mia infanzia a battere le mani in chiesa, e ho capito che il blues può fare tante cose oltre allo swing. Così ho accettato», queste sono le parole con cui Mingus ha presentato Blues & Roots.

Oltre al contrabbassista, nell’album hanno suonato John Handy, Jackie McLean, Booker Ervin e Pepper Adams (ai sassofoni), Jimmy Knepper e Willie Dennis (al trombone), Dannie Richmond (batteria), Horace Parlan e Mal Waldron (pianoforte). In questo disco è reso esplicito in maniera definitiva l’amore di Mingus per la musica tradizionale afroamericana: atmosfere gospel avvolgono tutte le composizioni in una vera e propria celebrazione delle radici musicali della sua gente.

5. The Black Saint and the Sinner Lady (1963)

Ogni volta che penso a Charles Mingus mi suona in testa l’inizio di questo disco. Per molti – quasi tutti – è la sua opera più compiuta, un album angosciante ma tenero, violento e pacifico, primordiale e complesso a un tempo. L’album è un’unica composizione, una suite divisa in quattro tracce e sei movimenti: è un’opera ambiziosa e densissima di idee. Da un lato la tragedia del popolo afroamericano, dall’altro il racconto della psiche dello stesso Mingus.

Nelle note di accompagnamento, infatti, sono presenti passaggi molto personali, scritti dal contrabbassista e dal suo psicoterapeuta, il Dr. Edmund Pollock. Proprio dal tour (trionfale) che ha seguito la pubblicazione del disco sono state estratte le incisioni incredibili del Great Concert di Parigi, Stoccarda e Berlino.

Charles Mingus è morto il 5 gennaio 1979 a soli 56 anni, dopo mesi di battaglia contro il morbo di Gehrig. Lo stesso giorno, 56 capodogli si sono arenati sulla spiaggia di Acapulco. Un aneddoto strano, improvvisato.

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