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Barbari gentili: la guida alle canzoni acustiche dei Led Zeppelin

Sono celebri per i riff esplosivi, gli assoli lancinanti, il blues turbocompresso, le urla guerresche. Ma adoravano anche il folk e Joni Mitchell, conoscevano la tradizione, suonavano a spina staccata

Foto: Mirrorpix via Getty Images

Jimmy Page aveva tutto in testa dall’inizio. La musica dei Led Zeppelin, lo ha spiegato tante volte, doveva essere un’architettura di luci e ombre, una sinfonia di pieni e vuoti. Nelle canzoni del gruppo ci sarebbero state forza bruta e gentilezza, istinto primordiale ed elaborazione concettuale, pulsione sessuale e finezza cerebrale, metallo pesante (prima che il termine diventasse d’uso comune) e delicatezza. Ci fu, da subito, un altro lato della medaglia a controbilanciare gli amplificatori in overdrive, i riff esplosivi e gli assoli lancinanti, il blues turbocompresso, la batteria devastante di John Bonham, le urla orgiastiche o guerresche di Robert Plant. Robert e Jimmy adoravano Joni Mitchell e certi suoni sognanti che arrivavano dal Laurel Canyon, il folk revival dei Fairport Convention e della Incredible String Band, gli arpeggi di Davey Graham e di Bert Jansch, la poetica lunare e visionaria di Roy Harper, la musica acustica e le chitarre suonate senza spina. Questione di DNA e di educazione musicale, riflesso del mood del tempo e della musica che allora gli girava intorno anche se in radio e in classifica lasciava poche tracce e per scovarla bisognava avere antenne dritte e orecchie aperte.

Gli Zeppelin non erano i Black Sabbath o i Deep Purple, sempre (o quasi) con il volume a palla e il pedale del distorsore acceso. Cresciuto con lo skiffle e svezzato da una miriade di session in sala di incisione in cui bisognava adattarsi a ogni evenienza, Page amava imbracciare anche chitarre Martin e dodici corde, mentre Plant cercava una corrispondenza sonora ai suoi ideali hippie e flower power, Bonham aveva suonato con Tim Rose e John Paul Jones, un altro uomo per tutte le stagioni, come Jimmy era stato in studio con Donovan. Fu comunque una sorpresa, per qualcuno uno shock, quando nel ’70 decisero di riservare un’intera facciata del loro terzo album a canzoni folk e (semi)acustiche, ispirati da quelle idilliache giornate di primavera che Plant e Page avevano trascorso in un remoto cottage gallese del diciottesimo secolo sprovvisto di acqua corrente e di energia elettrica (il cantante c’era stato da bambino in vacanza con la famiglia). Robert con moglie, figlia piccola e cane al seguito, Page con la fidanzata Charlotte Martin, due roadie ingaggiati per sbrigare le faccende quotidiane: quel breve soggiorno scandito da camminate rigeneranti nella natura selvaggia, da qualche visita al pub del villaggio più vicino e da serate trascorse davanti un camino crepitante sotto la luce delle candele produsse un mazzo di canzoni che finirono su III, su IV, su Houses of the Holy e su Physical Graffiti, a volte totalmente trasformate da arrangiamenti elettrici (The Rover e Down by the Seaside, mentre Over The Hills and Far Away conservava la sua dimensione acustica e pastorale nella parte introduttiva) ma capaci di aprire nuovi orizzonti al gruppo soprattutto nella fase centrale della sua vita artistica (non ne rimane traccia negli ultimi due dischi, Presence e In Through the Out Door).

Anche dove l’elettricità si infiltrava e finiva per prendere il sopravvento – Ramble On, naturalmente Stairway to Heaven: sintesi e fusione suprema tra gli Zeppelin acustici ed elettrici e di ogni stile musicale toccato dalla band – le chitarre acustiche erano morbidi pennelli che permettevano a Page di arricchire la tavolozza di colori e la gamma timbrica del sound, mentre Plant vi trovava la sponda ideale per i suoi testi ispirati a Tolkien e alle leggende celtiche, di sapore mistico ed esoterico. Tra il ’70 e il ’72, alla Earls Court di Londra nel ’75 o nel tour americano del ’77, il breve set acustico diventava un momento sospeso, ipnotico e incantato dei loro concerti. In studio, un filone musicale ricco e seducente che, in aridi termini statistici, rappresenta circa il 20 per cento della produzione. Sedici canzoni che vi riproponiamo in ordine cronologico di pubblicazione e che ascoltate di seguito, o rimescolate nella sequenza preferita, compongono una playlist alternativa, parallela e suggestiva al classico best of: come diceva sogghignando il loro temibile manager Peter Grant, i Led Zeppelin sapevano anche essere dei barbari gentili.

“Babe, I’m Gonna Leave You” (da “Led Zeppelin”, 1969)

L’album Joan Baez In Concert (1962) fu uno degli LP che Jimmy Page mise sul piatto, il giorno d’estate del 1968 in cui Robert Plant gli fece visita nella sua casa galleggiante a Pangbourne, sul Tamigi, per parlare di musica e discutere di un possibile futuro professionale insieme. La canzone che il chitarrista amava di più, e su cui si era già esercitato a lungo quando accompagnava Marianne Faithfull, era un folk blues di fine anni ’50 firmato da Anne Bredon e intitolato Babe I’m Gonna Leave You, di cui nel primo album degli Zeppelin stravolgerà l’arrangiamento sovraincidendo parti di chitarra acustica ed elettrica, alternando sequenze in fingerpicking a sezioni in cui il sound dell’intera band deflagra alla massima potenza, amplificandone il mood spagnoleggiante e il pathos drammatico grazie anche all’interpretazione passionale e acrobatica di Plant. Inizialmente accreditato con la dicitura “Traditional, arr. by Jimmy Page”, solo in seguito riporterà correttamente come autrice la Bredon che, a quanto si dice, ricevette poi sostanziose royalty a titolo di compensazione. Resta uno dei vertici del folgorante debutto, e Plant la ripropone tutt’oggi regolarmente in concerto con i Sensational Space Shifters. Nel luglio del 2015, lui e la Baez si sono trovati a condividere il cartellone del Paleo Festival di Nyon in Svizzera: in quella occasione Robert non poteva fare a meno di chiamare Joan sul palco a cantare in duetto la canzone.

“Your Time Is Gonna Come” (da “Led Zeppelin”, 1969)

Se Babe, I’m Gonna Leave You è una delle canzoni più celebri del debutto degli Zeppelin, Your Time Is Gonna Come è forse la più dimenticata: trascurabile per il testo misogino che preannuncia alla perfida donna amata l’imminente resa dei conti, è uno strano ma piacevole pastiche folk pop psichedelico introdotto dagli accordi maestosi di un Hammond che sembra un organo a canne, vivacizzato da un raro coro cantato a quattro voci da tutti i membri del gruppo e da un brillante arrangiamento in cui si intrecciano una chitarra acustica e una Fender pedal steel che Page aveva preso a prestito per la session. Proposta dal vivo soltanto nel primo tour in Scandinavia nel ’68, è stata ripresa dal chitarrista durante i tour con i Black Crowes del 1999-2000.

“Black Mountain Side” (da “Led Zeppelin”, 1969)

In questo brano strumentale che emerge dalle ultime note in dissolvenza di Your Time Is Gonna Come, Jimmy Page non si fa scrupolo di evocare già nel titolo il celebre traditional britannico Blackwaterside e in particolare la versione che ne incise Bert Jansch nell’album Jack Orion (1966), pur senza riconoscere formalmente il contributo creativo del chitarrista scozzese (un vecchio vizio ricorrente). «Non ne abbiamo mai parlato», ha spiegato in varie occasioni il musicista scomparso nel 2011, raccontando che Page è sempre stato evasivo al riguardo e dicendosi poco interessato a una eventuale transazione economica («che me ne farei di tre Rolls Royce?»). «Page ha fatto lo stesso con Davy (Graham)», aveva aggiunto in un’intervista rilasciata nel 2007, «appropriandosi del suo arrangiamento di She Moved Thro’ The Fair». Un altro famoso brano di antiche origini irlandesi da cui Jimmy prese spunto per la sua White Summer, uno strumentale che già eseguiva con gli Yardbirds e che nei primi anni degli Zeppelin proponeva dal vivo proprio in medley con Black Mountain Side. Ad aggiungere un tocco esotico alla versione di studio registrata in un’unica take sono le tabla di Viram Jasani, compositore, sitarista e percussionista britannico nato nel 1945 a Nairobi, in Kenya.

“Friends” (da “Led Zeppelin III”, 1970)

Subito dopo le scorribande vichinghe, il riff martellante e il terrificante grido di battaglia di Immigrant Song il terzo album dei Led Zeppelin cambia completamente registro con questa ballata dal sapore indiano nata durante il soggiorno tra le colline gallesi di Snowdonia, ispirata vagamente a Neil Young e in cui la chitarra acustica ad accordatura aperta utilizzata in funzione ritmica si fonde con una originale partitura per archi ideata da John Paul Jones (stranamente non menzionato come coautore accanto a Page e Plant). Suonata una sola volta dal vivo a Osaka nel 1971, secondo quanto riporta lo storico e biografo del gruppo Dave Lewis nel libro Led Zeppelin – A Celebration venne reincisa insieme a Four Sticks da Page e Plant con l’Orchestra Sinfonica di Bombay nel marzo del 1972: quelle due mitizzate registrazioni, spesso circolate su bootleg, sono state finalmente pubblicate in forma ufficiale nel 2015 nella ristampa “extended” dell’album Coda. Con The Battle of Evermore, That’s The Way e Gallows Pole, Friends è stata ripresa da Page e Plant nell’album No Quarter del 1994.

“Gallows Pole” (da “Led Zeppelin III”, 1970)

Un arcano e sommesso dialogo tra voce e chitarra introduce il pezzo che apre la facciata “acustica” di Led Zeppelin III, libero riadattamento di un antico folk blues tramandato sotto tanti nomi diversi (The Maid Freed from The Gallows, The Gallis Pole), reso popolare dal leggendario Huddie “Lead Belly” Ledbetter e conosciuto da Page grazie alla versione registrata dal californiano Fred Gerlach, uno specialista delle dodici corde, su un vecchio disco Folkways. Il banjo (per la prima e ultima volta in un disco degli Zeppelin), le chitarre acustiche a 6 e 12 corde e la Gibson elettrica di Jimmy, il basso e il mandolino di Jones e poi la batteria arrembante di Bonham si sovrappongono nel missaggio trascinando la canzone verso il finale convulso e accelerato mentre Plant, nella parte del condannato a morte, implora inutilmente il boia di risparmiargli la vita in cambio dell’oro e dell’argento portato dal fratello e dei favori sessuali della sorella. Se pensate che non sia possibile trasformare una ballata ultracentenaria in un rock and roll mozzafiato, (ri)ascoltatela.

“Tangerine” (da “Led Zeppelin III”, 1970)

Una delle ballate più dolci e placide del repertorio Zeppelin ha le sue origini all’epoca degli Yardbirds, quando Page (unico autore accreditato) scrive una canzone intitolata Knowing That I’m Losing You pubblicata ufficialmente solo nel 2017 sull’album Yardbirds ’68 in una versione da cui è stata cancellata la voce di Keith Relf. Nostalgico e sognante lamento che Plant presentava spesso dal vivo come «una canzone sull’amore nelle sue fasi più innocenti», vive di un delicato intreccio tra chitarra acustica e pedal steel di atmosfera westcoastiana: originale la scelta di includere la falsa partenza, quei primi otto secondi in cui Page cerca il tempo e l’accordatura con cui eseguire il pezzo.

“That’s the Way” (da “Led Zeppelin III”, 1970)

Il frutto migliore del periodo trascorso da Page e Plant a Bron-Yr-Aur, il cottage gallese in cui i due soggiornarono brevemente nella primavera del ’70, è questa riflessiva ballata dal titolo provvisorio di The Boy Next Door in cui Plant estrae dalle corde vocali i suoi toni più morbidi e suadenti e dalla penna il suo testo migliore (la storia di due bambini – o adolescenti, o forse amanti – divisi da discriminazioni e barriere sociali, in cui il cantante include anche le sue preoccupazioni ambientaliste e il ricordo dell’atteggiamento ostile da parte dei redneck conservatori di cui è stato vittima nei primi tour americani), mentre Page passa con delicata disinvoltura dall’acustica alla pedal steel, Jones suona un mandolino e Bonham maneggia con discrezione un tamburello. Robert e Jimmy la creano all’istante durante la sosta di una camminata in montagna, seduti ai bordi di un burrone, quando fissano melodia e accordi per voce e chitarra su un registratore portatile a cassetta; mezz’ora dopo, secondo quanto racconterà Plant in successive interviste, Page e la compagna Charlotte concepiranno la figlia Scarlet. Persino il critico musicale Lester Bangs, fustigatore e acerrimo nemico della band, scriverà di essersi commosso al suo ascolto.

“Bron-Y-Aur Stomp” (da “Led Zeppelin III”, 1970)

Uno stomp, in gergo musicale, è una melodia, una canzone o un ballo dal ritmo marcato e veloce: esattamente come questo brano che già nel titolo (storpiato per errore) denuncia la sua origine gallese. È l’altra faccia di That’s The Way, un pezzo allegro, scanzonato e spensierato che Plant dedica (citandolo in coda al testo) al suo collie Strider, mentre dopo un’introduzione nuovamente “ispirata” da Jansch e dalla sua versione del traditional The Waggoner’s Lad Page si muove tra folk e jug music, pennate vigorose e fingerpicking («un incrocio tra Pete Seeger, Earl Scruggs e una totale incompetenza», scherzerà a proposito del suo stile), Jones suona un basso acustico a cinque corde e Bonham percuote cucchiai e nacchere. Funziona decisamente meglio della versione elettrica provata in precedenza, intitolata Jennings Farm Blues e pubblicata tra le bonus della ristampa di Coda. Con That’s The Way farà spesso felicemente coppia nella sezione acustica dei concerti degli Zeppelin.

“Hats Off to (Roy) Harper” (da “Led Zeppelin III”, 1970)

Il brano più debole di III è un’improvvisazione semiparodistica e di poche pretese liberamente ispirata a un vecchio blues di Bukka White, Shake ‘Em On Down (poi rielaborato anche in Custard Pie, il pezzo di apertura di Physical Graffiti). La voce di Plant è distorta da un amplificatore, Page suona una acustica con il bottleneck mentre il titolo è un esplicito omaggio al cantautore Roy Harper, amico della band, artista di spalla in alcuni dei loro tour e grande eccentrico del folk britannico (autore di dischi di culto come Stormcock e HQ e voce solista in Have a Cigar dei Pink Floyd). Ignaro di tutto, quest’ultimo scoprì l’esistenza di una canzone a lui dedicata solo quando Page gli consegnò in anteprima una copia dell’LP. È solo una piccola digressione, un filler, e non stupisce che non sia mai stata eseguita dal vivo.

“Hey Hey What Can I Do” (lato B del singolo “Immigrant Song”, 1970)

A lungo ricercato dai collezionisti per la sua difficile reperibilità, Hey Hey What Can I Do è il solo brano della discografia zeppeliniana a essere stato pubblicato in origine esclusivamente su 45 giri (sia in Europa che negli Stati Uniti). Eppure si tratta di un pezzo robusto e convincente che avrebbe tranquillamente potuto far parte della seconda facciata di III: registrato nel luglio del 1970, sprizza esuberanza ed energia rock and roll a dispetto dell’arrangiamento acustico a base di chitarre e mandolino, mentre Plant sfrutta la sua potenza di emissione e la sua estensione passando in scioltezza da tonalità profonde ai suoi inconfondibili acuti, sostenuto dai cori dei compagni. Una piccola perla nascosta del catalogo, dai primi anni ’90 inclusa in diverse ristampe, oggi disponibile sulle piattaforme digitali e riesumata da Page e Plant nel loro tour del ’95.

“The Battle of Evermore” (da “Led Zeppelin IV”, 1971)

L’amore degli Zeppelin (e di Plant in particolare) per il folk, per la storia britannica e per la fantasy dà forma a una suggestiva ballata a due voci in cui il frontman del quartetto interpreta il ruolo del narratore e la cantante folk inglese Sandy Denny, già nei Fairport Convention, la voce del popolo: sarà l’unica volta in cui in un disco degli Zeppelin si ascolta il contributo vocale di un ospite; alla Denny viene cavallerescamente assegnato anche un simbolo, composto da tre piramidi, nella busta interna dell’LP accanto a quelli che rappresentano i membri del gruppo. Il loro fitto botta e risposta nel testo ispirato da un libro sulle guerre d’indipendenza scozzesi che Plant aveva appena finito di leggere non è l’unica arma vincente di un brano dall’arrangiamento incalzante in cui Page si cimenta al mandolino (di proprietà di Jones, che suona invece una chitarra acustica). Un brano nato quasi per caso, ma baciato dall’ispirazione: quando gli Zeppelin la eseguiranno dal vivo nel tour americano del 1977 sarà Jones a fare da seconda voce al posto della Denny ma non sarà la stessa cosa.

“Going to California” (da “Led Zeppelin IV”, 1971)

Un altro classico, che Plant esegue ancora con frequenza in concerto. Stavolta il tema è più concreto (la ricerca della donna ideale si intreccia a un commento sui terremoti che poco prima avevano scosso la California) mentre la citazione di una ragazza “con l’amore negli occhi e i fiori tra i capelli” che “suona la chitarra, piange e canta” non può non far pensare all’adorata – da lui e da Page – Joni Mitchell. Due chitarre acustiche (a sei e dodici corde) e un mandolino (stavolta suonato dal suo legittimo proprietario, John Paul Jones) intessono lo sfondo strumentale di una delle canzoni più gentili, quiete e riflessive del catalogo Zeppelin, soffusa di contenuta malinconia e di ideali flower power, una romantica elegia il cui protagonista sogna di ripartire da zero e di rifarsi una vita nella Terra Promessa. La miglior risposta a chi considerava e considera la band soltanto “sangue e tuono” (per dirla con le parole di Plant).

“Bron-Yr-Aur” (da “Physical Graffiti”, 1975)

Un altro brano concepito durante la permanenza nell’omonimo cottage, è un breve intermezzo strumentale in cui Page si esibisce da solo con una Martin D-28 ad accordatura aperta evocando ancora una volta lo stile di maestri anticonvenzionali della sei corde acustica come Graham e Jansch. Apprezzabile la sua scelta di non correggere alcuni errori e di non attenuare il cigolio prodotto dallo scivolamento delle dita sulle corde: va a tutto vantaggio del calore e della spontaneità della performance.

“Boogie with Stu” (da “Physical Graffiti”, 1975)

Lo Stu del titolo è il “sesto Stone” Ian Stewart, road manager e pianista della band di Mick Jagger e Keith Richards che aveva già suonato in Rock and Roll e che qui si diverte a strimpellare un vecchio pianoforte scordato nella stanza principale di Headley Grange, la magione diroccata dell’East Hampshire che era uno dei covi preferiti degli Zeppelin. Totalmente improvvisato in studio sia nel testo che nella musica, con Bonham a dettare vigorosamente il ritmo, Page al mandolino e Plant alla chitarra acustica e alla voce, il pezzo a metà tra boogie woogie e country blues richiama così tanto Ooh My Head di Ritchie Valens che la band inserirà nei crediti anche la madre del musicista scomparso in un incidente aereo con Buddy Holly e The Big Bopper il 3 febbraio del 1959, “il giorno in cui la musica morì”. Un divertissement senza pretese ma che mette di buon umore, come le risate che chiosano il brano dopo le ultime battute affidate al solo Bonham.

“Black Country Woman” (da “Physical Graffiti”, 1975)

Ancora spontaneità e un approccio da “buona la prima”. Durante la registrazione di Black Country Woman, all’aperto nel giardino degli studi Stargroves di Mick Jagger, sfreccia in cielo un aereo e il suo rombo rimane registrato sul nastro. Che fare, cancellare tutto e rifare da capo come suggerisce il fonico Eddie Kramer? «No, lascialo», intima Robert Plant prima di attaccare questo country blues con un titolo che omaggia l’area geografica di provenienza del cantante e di John Bonham, la regione industriale delle Midlands annerita dai fumi industriali di fabbriche e fonderie. Estromesso da Houses of the Holy, è un pezzo dal piacevole sapore roots e genuino che, pur senza essere memorabile, nel calderone stilistico di Physical Graffiti ha una sua ragion d’essere.

“Poor Tom” (da “Coda”, 1982)

Scarto di Led Zeppelin III, Poor Tom è un altro pezzo partorito a Bron-Yr-Aur che diventa in studio un blues semiacustico in stile jug band, con un drumming insistente da parte di Bonham e Plant impegnato all’armonica. Il titolo sarebbe ispirato al nome di uno dei protagonisti principali del romanzo di John Steinbeck La valle dell’Eden, il testo è di matrice blues (un uomo scopre il tradimento della moglie e la uccide con un colpo di pistola), il risultato atipico e un po’ confuso. Una outtake dal destino segnato, come la compagna fedifraga del povero Tom.

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