Altri 20 dischi fondamentali per capire il punk italiano | Rolling Stone Italia
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Altri 20 dischi fondamentali per capire il punk italiano

Dalla Milano del Virus alla Roma dell'hardcore, ecco la seconda parte della ricognizione del punk di casa nostra. Parafrasando i Sorella Maldestra, se i primi 20 album hanno fatto la storia, questi hanno fatto la geografia

Altri 20 dischi fondamentali per capire il punk italiano

I Giuda

Foto: press

Altri 20 dischi? Perché no, visto che il punk in Italia ha prodotto ottimi risultati. E poi, come avviene in qualunque lista, anche nella prima parte mancavano alcuni pezzi da novanta che potete invece trovare qui. Nessun disco postumo, tranne un’eccezione di cui vi accorgerete, solo in formato LP o cassetta (quindi niente singoli o EP), e il tentativo di indagare più a fondo su cosa sia stato il punk, nelle sue mille forme, qui in Italia. Altri 20 suggerimenti, dunque, per colmare alcune lacune e avere un quadro d’insieme più interessante e completo. Farà discutere? Potete scommetterci…

Sorella Maldestra “Cadavere” (1979)

Li chiamavano, con un po’ di superficialità e snobismo, “gli Skiantos delle risaie”, per via della provenienza vercellese, ma i Sorella Maldestra – nome meravigliosamente punk, peraltro – erano molto di più. Tant’è che, con grande acume, rispondevano che se la band di Freak Antoni aveva fatto la storia, loro avrebbero fatto la geografia. In verità, fu proprio il compianto Freak a fornirgli il contatto con la Harpo’s Bazaar, che pubblicò il loro unico parto discografico, su cassetta (poi ristampato in vinile anni più tardi). Cadavere è un trionfo di punk rock brutale, scorretto fin dai titoli (Perché non mi caghi, Noia, Vengo, Scella, Me ne frego) e con alcuni inni dementi indimenticabili come la title track e Io sono un fric, che faceva rima con “e sfascio tutto con il cric”. Come non amarli?

Wretched “Libero di vivere, libero di morire” (1984)

Nati e cresciuti a Milano all’interno del leggendario squat Virus, in Via Correggio 18, i Wretched dei fratelli Gianmario e Fabietto Mussi sono forse il migliore esempio di quello che potremmo definire “hardcore all’italiana”. “Chaos non musica”, come predicavano loro, diventati assieme ad altri giganti come Discharge, Anti Cimex o Disorder gli antesignani di ciò che anni dopo si sarebbe chiamato crust o d-beat. L’esordio su singolo assieme ai biellesi Indigesti mostrava ancora il lato più selvaggio della loro musica ma, dopo altri due 7” leggendari, i Wretched hanno condensato tra i solchi di Libero di vivere tutta la rabbia di quegli anni selvaggi. I classici sono quasi tutti qui: Mai arrendersi, Spero venga la guerra, Finirà mai, Disperato ma vivo

CCM “Into the Void” (1986)

Tra i primi in Italia a incidere un singolo punk autoprodotto, addirittura nel 1979, i Cheetah Chrome Motherfuckers si sono rapidamente trasformati in una hardcore band originale e senza paragoni, non solo in Italia. Uno dei gruppi preferiti di Jello Biafra dei Dead Kennedys, il quartetto fronteggiato dallo straordinario Syd Migx è stato tra i pochi a potersi misurare direttamente con i campioni del genere negli Stati Uniti. Proprio al termine di un tour, i CCM sono entrati in studio di registrazione a Indianapolis con Paul Mahern degli Zero Boys. Il risultato è Into the Void, segno del superamento in atto degli stretti confini del genere, in favore di una musica libera e più sperimentale. A completare il tutto, una copertina da incubo di Winston Smith con il lettering di un amico della band, il futuro autore di fumetti Gipi…

Nabat “Un altro giorno di gloria” (1986)

Finta la sbornia del Bologna rock, la città diventa terra di conquista per due opposte fazioni di giovani ribelli: da un lato la corrente anarchico-libertaria dei RAF Punk di Jumpy Velena (poi Helena) e Laura Carroli con la loro label Attack Punk Records, dall’altro il punk stradaiolo di Steno e dei suoi Nabat. Fra i primi a professare il verbo skinhead in Italia, i quattro bolognesi raccolgono attorno al loro sound grezzo e sincero moltissimi kids disillusi e pronti a scendere in piazza. Non per nulla, il loro singolo d’esordio si chiama Scenderemo nelle strade, bissato dal provocatorio Laida Bologna e, finalmente, dal lavoro della maturità, Un altro giorno di gloria. Uscito anche questo per la personale C.A.S. Records, l’album fotografa i Nabat al picco della notorietà e della capacità espressiva.

Crash Box “Finale” (1987)

Non c’erano solo i Wretched al Virus, come potete ben immaginare, ma una moltitudine di band che spaziava dall’hardcore più violento a quello più melodico e americano. Di quest’ultima corrente facevano parte i milanesi Crash Box, guidati dal cantante Maniglia, figura chiave del punk nostrano. Pubblicato dalla T.V.O.R. On Vinyl, etichetta legata alla fanzine Teste Vuote Ossa Rotte di Stiv Rottame (e dello stesso Maniglia), Finale è il vero e proprio esordio sulla lunga distanza dei Crash Box dopo cassette e singoli di ottima fattura. Al suono melodico originale si aggiunge un retrogusto thrash opera del chitarrista Tommy Massara, in prestito dagli amici metallari Extrema, tra i primi esperimenti del genere in Italia. Gli amanti di D.R.I. e Corrosion Of Conformity apprezzeranno…

Franti “Non classificato” (1987)

L’unica eccezione di questa lista – nessuna raccolta compilativa postuma – è rappresentata da un box, disponibile prima in vinile e poi in tempi più recenti su CD, dei torinesi Franti. A ben vedere, pure loro rappresentano una straordinaria eccezione, in virtù di una proposta sonora che del punk incorpora più l’afflato politico e rivoluzionario, la rabbia e l’autoproduzione che non la musica. Cresciuti con l’insegnamento libertario e pacifista degli anni ’60 e ’70, i Franti di Lalli, Stefano Giaccone e Vanni Picciuolo hanno semplicemente estremizzato la loro proposta sonora innestando qualche nervatura punk su un tessuto rock e folk, finendo per diventare uno dei gruppi più originali del rock italiano. Non classificato raccoglie tutto il materiale pubblicato nei primi ’80, compresi i due lavori più importanti, lo split con gli amici punk Contrazione e l’album Il giardino delle quindici pietre.

Ritmo Tribale “Kriminale” (1990)

Esaurita la spinta dell’hardcore e con la rinascita melodico/californiana ancora di là da venire, i milanesi Ritmo Tribale si sono trovati nella difficile posizione di chi deve innestare nuove idee in un genere ormai svuotato di energia e rabbia. Con l’incoscienza di chi non ha nulla da perdere, il quintetto registra un piccolo capolavoro con cui chiude di fatto la prima fase di vita, prima di trasformarsi in una rock band alternativa di grande successo. Kriminale, racchiuso da una copertina che immortala le macerie del Leoncavallo, prende forza dal corpo agonizzante dell’hardcore e fugge oltre, rendendo omaggio al passato – Anarkia, Warhead, Vorrei non vorrei –, ma cercando al contempo di costruirsi un futuro che, retrospettivamente, sarà davvero brillante, come testimoniano Kosì dolce, il blues di Julian e la ballad Huomini.

Klasse Kriminale “I ragazzi sono innocenti” (1993)

Pare quasi un passaggio di testimone quello tra i bolognesi Nabat, a fine corsa verso i tardi ’80, e i savonesi Klasse Kriminale, guidati da un’altra figura storica dell’oi! italiano, Marco Balestrino. I KK si formano infatti con la band di Steno – oltre ai classici Sham 69 – come punto di riferimento e dopo qualche prova meno riuscita, centrano il bersaglio con I ragazzi sono innocenti. Sono presenti – e come poteva esser altrimenti? – tutti i cliché del genere, dai cori da cantare a squarciagola ai testi battaglieri snocciolati sopra a un sound stradaiolo fino al midollo che si concede qualche strizzata d’occhio al reggae. Tutto funziona bene e fila liscio, mettendo in mostra una sincerità che manca a moltissimi dei concorrenti dei KK. Se anche voi sognate “ragazze con la t-shirt degli Angelic Upstarts, ragazzi innocenti, birre, donne e ciminiere”, allora siete nel posto giusto.

Paolino Paperino Band “Pislas” (1993)

Con un pizzico di fortuna avrebbero potuto essere i Punkreas o i Senzabenza, a livello di popolarità quanto meno. Invece, piuttosto incredibilmente, i modenesi Paolino Paperino Band non sono mai riusciti a sfondare come avrebbero meritato, lasciando in eredità per fortuna almeno un paio di ottimi dischi. Sono il mini-LP Fetta, che meriterebbe anche solo per il pezzo che lo intitola, e Pislas, un album che mette in fila tutte le loro influenze: hardcore melodico, Bad Brains, metal, ska, NoFx, Skiantos, il tutto al servizio di una tecnica invidiabile e di testi arguti, profondi, caustici, divertenti e che, come si conviene a una punk band, raccontano il proprio (e anche il nostro) presente in modo mirabile. Tafferugli, a distanza di anni, resta uno dei pezzi più belli del punk italiano.

Growing Concern “Seasons Of War” (1994)

Mentre nel resto del mondo – e dopo poco anche in Italia – impazza il nuovo hardcore melodico di NoFx, Green Day e Rancid, a Roma si sviluppa e matura una scena molto più brutale, imparentata con il metal e con quanto sta succedendo in ambito straight edge negli Stati Uniti. Tra i principali esponenti della rinascita capitolina ci sono i Growing Concern, quintetto che arriva alla definitiva prova su LP dopo aver inciso cassette, singoli ed EP. Il titolo illustra con precisione la brutalità del disco, ricco di episodi veloci e urlati nello stile del miglior Rollins. La classica partenza a bruciapelo e la successiva parte mosh sono le due caratteristiche chiave di molti pezzi e ne garantiscono il successo in ambito underground.

Banda Bassotti “Avanzo de cantiere” (1995)

Non di solo hardcore si vive a Roma, però, e la dimostrazione arriva da una delle combat band più celebri della penisola, la Banda Bassotti del recentemente scomparso Angelo “Sigaro” Conti. Attitudine fieramente stradaiola, un filo doppio che li lega a un’etichetta di movimento come la Gridalo Forte e un look tipicamente skinhead caratterizzano la proposta sonora di Avanzo de cantiere. Uno dei pezzi, Beat-ska-oi!, chiarisce fin dal titolo le coordinate sonore in cui si muove la Banda, a cui vanno aggiunti un punk rock clashiano e i testi che raccontano la realtà di tutti gli emarginati di questo mondo. Potere al popolo cantano in un pezzo e, a differenza dell’omonimo partito nato molto dopo, non ci pare di sentire alcuna retorica. Punk + skins = TNT si diceva una volta: eccovi servita la ricetta giusta.

Erode “Tempo che non ritorna” (1997)

Orgoglio proletario, come uno dei titoli contenuti su Tempo che non ritorna, potrebbe essere il sottotitolo di uno dei migliori album punk degli anni ’90, ricco di inni da cantare allo stadio (la celeberrima Frana la curva, che fa il paio con Pro Patria, incisa qualche tempo prima) o in mezzo al pogo sotto a un palco scalcinato, meglio ancora se a un loro concerto. Stalingrado, Sangue, sudore e lacrime, Banditi e Panico panico sono i vertici di un disco che, a distanza di anni, mette d’accordo un po’ tutti ed entusiasma ancora come al primo ascolto. Se gli stoici distributori porta a porta di Lotta Comunista avessero provato per una volta a sostituire questo CD al solito giornale, siamo certi che avrebbero ottenuto risultati migliori.

Nerorgasmo “Nerorgasmo” (1997)

Una delle più incredibili storie del punk italiano è senza ombra di dubbio quella di Luca ‘Abort’ Bortolusso e dei suoi Nerorgasmo, nome di punta dell’ala nichilista del movimento. Attivo fin dagli albori del punk con i Blue Vomit, di cui riprenderà parecchi pezzi, Abort è stato un frontman senza uguali, oltre che un grande talento, coadiuvato spesso, in fase compositiva, da Simone Cinotto. Lo si capisce senza ombra di dubbio in questo unico album che recupera i brani del rarissimo singolo del 1985 e offre nuove versioni di vecchi classici della precedente incarnazione. Prima di andarsene da questa terra, il cantante fa in tempo a consegnare ai posteri alcuni inni imprescindibili per il genere come Nato morto, Mai capirai, Banchetto di lusso, Passione nera e Io mi amo.

Derozer “Alla nostra età” (1999)

Alla loro età, cioè vent’anni dopo questo disco, i Derozer sono ancora in giro davanti a un pubblico in delirio, a dimostrazione di come quella miscela di punk -rock e melodia, con cantato in italiano, è sempre una formula vincente. Figli reietti dell’operoso nord-est, Sebi, Spasio e gli altri membri del gruppo rappresentano dal 1993 – anno in cui uscì la loro prima cassetta, seguita a ruota dal bel singolo 144 –, una possibile via tutta italiana al punk, a braccetto con i compari Shandon, Senzabenza, Punkreas, Pornoriviste. Tutti quelli che, negli anni ’90, hanno contribuito a creare una scena nazionale di buon successo e non solo artistico, una volta tanto. Andate a un loro concerto, aspettate che suonino Branca Day e poi date un occhio a quello che succede.

Bingo “Close Up” (2000)

All’inizio del nuovo millennio, Alex Vargiu, qui con il nickname Alex Dissuader, è un veterano della scena punk della capitale, avendo già militato come bassista nei Bloody Riot. Qui però, dà finalmente sfogo alla sua passione per il punk rock stile “killed by death”, quello più marcio e rancido, senza fronzoli, inciso da band senza futuro e, spesso, senza tecnica alcuna. I Bingo, nome che fa rima con “nel culo te lo spingo”, come ricorda proprio Alex, sono scorretti, perdenti e, dunque, perfetti per questo tipo di suoni. Tra brani originali che paiono usciti da oscuri 45 giri dimenticati dal tempo (Telephone Addict, I’m Female, Kick Out Your Boredom) e omaggi a oscuri eroi come Guilty Razors e Vom, i Bingo ci ricordano di quando il punk era una cosa per pochi selezionati cultori.

Cripple Bastards “Misantropo a senso unico” (2000)

Nel 2000, anno in cui esce questo disco, i Cripple Bastards possono vantare nella loro discografia oltre una ventina di uscite, spesso in coabitazione con altri pesi massimi del grind mondiale, disponibili su qualunque supporto conosciuto (cassetta, vinile a 7”, 8”, 10”, LP, flexi, manca solo il laser disc probabilmente…). La creatura di Giulio The Bastard (voce) e Alberto The Crippler (chitarra) giunge qui all’apice della sua prima fase, quella puramente grind e scevra da qualunque altra influenza. Misantropo a senso unico unisce il nichilismo dei testi di Giulio a ben 94 pezzi (avete letto bene), quasi un record del mondo. Parecchi dei loro classici li trovate in questo marasma sonoro, da Il tuo amico morto a Quasi donna… femminista, per finire con la blasfema Dio è solo m***a. I deboli di cuore possono passare all’album successivo.

Peawees “Dead End City” (2001)

Se i Manges sono l’anima ramonesiana di La Spezia, allora i Peawees rappresentano quella più rock’n’roll (con un occhio ai Social Distortion) della città ligure. Come gli amici e colleghi, anche il quartetto guidato dal cantante e chitarrista Hervé Peroncini comincia la carriera intorno alla metà dei ’90, sulla scia dell’esplosione mondiale del punk. Proprio in Italia si forma una delle migliori scene devote al sound primitivo fatto di tre accordi e di uno sguaiato “one-two-three-four” gridato in apertura di brano, ma i Peawees si differenziano quasi immediatamente dal plotone di amici andando a pescare a piene mani dal rock’n’roll originale. Dead End City rappresenta le solide fondamenta su cui i quattro costruiranno una carriera che continua tuttora con grandi soddisfazioni e ottimi dischi. Ma se volete vedere dove è iniziato tutto, provate con ‘Cause You Don’t Know Me e Road To Rock’n’Roll.

Thee S.T.P. “Troublemakers #1” (2002)

Nati come epigoni di un certo punk rock alla Ramones, i piemontesi Thee S.T.P., con alla voce un personaggio carismatico come Il Metius, si sono rapidamente trasformati in una versione italiana e piuttosto credibile di gruppi come Backyard Babies, Hellacopters, Gluecifer e via di rock’n’roll scandinavo di fine anni ’90 e primi 2000. Proprio con la band di Dregen (la prima citata, ma in verità pure la seconda) è forse il paragone più calzante per questo Troublemakers #1, un album che suona ancora benissimo a quasi vent’anni dalla sua uscita, merito di talento, tecnica strumentale e una manciata di ottimi brani come Kick You Out, Town Called Misery e Good Clean Fun. Fate il paio con il successivo Paradise & Saints (2006) e avrete tutto l’indispensabile.

Laghetto “Sonate in bu minore per quattrocento scimmiette urlanti” (2003)

Già dal titolo si dovrebbe capire dove stiamo andando a parare infilando i bolognesi Laghetto in questa classifica. Quartetto bolognese in cui hanno militato ben due disegnatori di fumetti di gran successo (Francesco “Ratigher” D’Erminio, ora direttore editoriale della casa editrice Coconino Press, e Andrea “Tuono Pettinato” Paggiaro), i Laghetto sono uno stranissimo ibrido tra hardcore, screamo, emocore e metal, in cui si alternano testi surreali, continui cambi di tempo e atmosfere, bordate violente e pezzi quasi math-rock, in un frullatore che non lascia scampo. Impossibile abituarsi al loro sound, figurarsi poi a titoli di pezzi come L’odore dei pomeriggi (quando li butti via), SS Napoli Football Players 1982-1989 (in cui ovviamente c’è una lista dei nomi dei giocatori), Proud of My Pappagorgia o Devoured by Carla Bruni.

Giuda “Racey Roller” (2010)

L’ultima next big thing della scena italiana si chiama Giuda, arriva da Roma e annovera dei veterani della comunità punk rock locale, attivi già con il nome Taxi, piccole leggende da quelle parti. La conversione/maturazione arriva sul finire degli anni zero, quando i quattro decidono di omaggiare un vecchio amore, quello per il glam di T-Rex e Slade, opportunamente mischiato con il punk rock, l’oi! e qualche spruzzata di hard rock dei 70s. Il risultato finale va oltre ogni rosea aspettativa e il successo mondiale (proprio così) dei Giuda è lì a testimoniarlo, tra tour americani ed europei, dischi di classe e una fan base con pochi eguali. Il debutto, Racey Roller, è solo un punto di partenza, quello più ricco di classici da cantare a squarciagola ai concerti.