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10 one-hit wonder anni ’80 che meritavano di più

Band come Freur, Industry e Propaganda non sono meteore da Arena Suzuki, ma gruppi con una musicalità “militante” che prima di farcela hanno bazzicato l’underground. Storie di artisti promettenti che hanno fatto il botto e si sono persi (e qualche volta ritrovati)

Foto: Fryderyk Gabowicz/Picture Alliance via Getty Images

Quando si pensa agli anni ’80, ci si ricorda a volte di canzoni che rimangono in testa e di gruppi che non si sa che fine abbiano fatto e soprattutto non si sa da dove siano partiti. In teoria sono meteore musicali ingiustamente sottovalutate, in pratica è gente che arrivava in classifica dopo un bagaglio “militante” senza compromessi e senza dubbio weird. Abbiamo raccolto dieci esempi di queste musicalità borderline indagando sulle loro storie perché possano essere un esempio di come i tempi sono cambiati: ieri vincevano le meteore, oggi i meteorismi.

Kissing the Pink

Storia curiosa quella degli inglesi Kissing the Pink, che iniziano come band new wave affiliata ai toni scuri di marca Joy Division, tanto che il primo singolo Don’t Hide in the Shadows è prodotto da Martin Hannett. A differenza della band di Manchester, i Kissing the Pink si ibridano col new romantic (ritornelli ariosi in maggiore, tappeti di sintetizzatori, sassofono). Segno che la band è di difficile catalogazione, tanto che nell’album d’esordio Naked del 1983 si nota la capacità di essere singolari, tra un synth pop complesso negli arrangiamenti e sentori di funk bianco con qualche spruzzo di Devo. Alcuni brani come Desert Song sembrano addirittura glo-fi ante litteram e in generale si sente la tensione a creare un nuovo tipo di pop che possa essere universale ma di ricerca. Il produttore di questo debutto impeccabile è Colin Thurston, l’artefice del successo di Duran Duran, Talk Talk e Human League. Ed è una seconda scelta in quanto il gruppo avrebbe voluto dietro la consolle Brian Eno, tanto per capire da che parte stavano. Arrivano al 54° posto nel Regno Unito evidenziando potenzialità commerciali che conoscono una battuta d’ arresto col successivo What Noise, il quale – incredibilmente – non viene distribuito fuori dall’Inghilterra e non entra in nessuna classifica: ed è assurdo perché il sound vede un pioneristico uso del campionamento e si lancia verso l’era digitale quando la maggior parte dei colleghi è ancora indecisa sul da farsi. Forse è il loro capolavoro, che prepara il terreno alla conversione mainstream ma senza escludere brani di una certa durezza quasi industrial, come l’isterica Love and Money. La questione crea come immaginabile delle defezioni all’interno della band e il risultato si ascolta nel loro disco più conosciuto, Certain Things Are Likely del 1986. È il o la va o la spacca dei KTP, che cercano a tutti i costi di fabbricare a tavolino delle hit escogitando un pop moderno che leviga le asperità del passato in favore dei jukebox e questo è il grande limite del disco, che se anche produrrà due tormentoni come One Step (un caso commerciale in Italia) e la title track, non riuscirà a vendere abbastanza per scongiurare la fine del contratto. Torneranno solo nel 1993 con un disco assurdo di psichedelia rave stile new summer of love dal nome Sugarland che a tutt’oggi rimane il testamento sorprendente e bizzarro di una band brillante che per cercare il successo si è inconsapevolmente suicidata.

Freur

Ricordate degli Underworld, giusto? Sì, quelli di Born Slippy, dalla colonna sonora di Trainspotting. Ebbene, forse c’è gente che ancora non conosce il loro passato di new wavers. Col nome di Freur, Karl Hyde, Rick Smith e altri tre accoliti si fanno spazio nella scena dei primi anni ’80 cercando una via personale a un suono che si sta oramai standardizzando. E in effetti nel 1983 sembrano trovare la quadra, racimolano un contratto per la CBS e pubblicano il primo album Doot Doot che nel suo piccolo cova i semi dell’innovazione. La band sceglie come nome un logo grafico impronunciabile, tanto che la casa discografica li costringe a trovare un corrispettivo linguistico (molto prima del love symbol di Prince). La musica è un primo esperimento di techno-ambient che flirta col pop, la dance e ovviamente con gli strascichi del new romantic. Questo audace tentativo di fare qualcosa di inedito sembrerebbe essere premiato dalla classifica: la title track avrà un discreto successo anche in Italia, a volte anche come tappeto per rulli Fininvest, ma gli altri quattro singoli estratti dal disco non vanno da nessuna parte. Il motivo è semplice: a Doot Doot manca la capacità di compattare intuizioni eterogenee a misura di orecchio medio, così che all’ascolto l’effetto è un “né carne né pesce”, e in fondo il fascino del disco sta proprio lì. Nel secondo album Get Us Out of Here del 1986 il gruppo propone un pop moderno patinato e fin troppo tongue in cheek, omogeneo ma a scapito delle idee che vengono giocoforza sacrificate. L’album non produrrà neanche una hit, ragion per cui verranno presi a pedate dalla label con conseguente scioglimento. Prima però, nel 1985, un passaggio cruciale, cioè la colonna sonora – mai pubblicata – del film horror Underworld sceneggiato da Clive Barker. Un commento sonoro più cupo e a volte vicino a certe cose dei Sisters of Mercy, ed è da qui che ripartiranno prendendo in prestito il nome per il nuovo progetto: stavolta le cose andranno per il verso giusto e gli Underworld diventeranno uno dei gruppi simbolo degli anni ’90 “technusi”.

Picnic at the Whitehouse

Gruppo dal nome che in qualche modo canzona il vezzo di Reagan di organizzare informali party estivi sul prato della Casa Bianca, i Picnic at the Whitehouse si formano a Londra e sono un mix anglo-tedesco. Musicalmente si sente in maniera peculiare nel singolo We Need Protection, anno 1985, in cui la dance/EBM tedesca si unisce a sprazzi di marca Frankie Goes to Hollywood e relative produzioni ZTT. Un brano di pop digitale senza sbavature, una hit perfetta anche nell’evocare la paranoia nucleare e l’impotenza dell’essere umano di fronte ad essa. Il cantante Edwin Hind veniva dai Virgin Dance, una formazione che sembrava un incrocio tra Simple Minds, Spandau Ballet e Japan. Con i Picnic entra invece un certo tipo di soul elettronico. Basti pensare che all’inizio il cantante della formazione sarebbe dovuto essere Terence Trent D’Arby. Lui sbancherà molto presto le classifiche internazionali, mentre i Picnic porteranno a casa risultati minimi dai successivi singoli, a volte costruiti nel tentativo di avvicinarsi alle sonorità di Madonna e affini. L’unico album, TheDoors Are Open, a dispetto del titolo non apre granché se non alla fine dell’idillio tra i membri della band. C’è da dire che anche in questo caso dopo i Picnic c’è una svolta per un ex membro: il batterista Cliff Hewitt entrerà negli Apollo 440, che diventeranno nei ’90 una band di culto del big beat contaminato.

Industry

Band americana dall’evoluzione quantomeno singolare, gli Industry iniziano nel 1978 con il nome di Industrial Complex e nel 1980 pubblicano l’EP Logging Time, un assalto sonoro nel quale la minimal wave si incrocia con l’industrial: sembra che i Cabaret Voltaire si trovino a fare un incidente d’auto contro i Devo, con abbondante uso di nastri magnetici, sequenze impazzite, ritmi dispari e spastici, ma con la caratteristica di avere un grande gusto melodico anche se chiaramente disturbato da queste influenze sperimentali. Altra caratteristica è che la band si esprime prevalentemente tramite EP. Il sequel Turning to Light come da titolo è un manifesto di intenzioni: si sterza verso un synth pop temperato nella sua acidità in modo da risultare piuttosto accattivante (il membro più estremo, ovvero Geyer, viene d’altronde messo alla porta). La Capitol ne intuisce il potenziale commerciale e li mette sotto contratto. Si potrebbe pensare che stavolta sia il momento giusto per un album, e invece no, nel 1983 stampano ancora una volta un EP, Industry, che contiene State of the Nation, una hit che farà il giro delle classifiche di tutto il mondo ma che negli Stati Uniti si fermerà all’81° posto probabilmente per il messaggio antimilitarista, retaggio degli Industry più duri e puri, su quello che però è diventato un synth pop patinato che strizza l’occhio al new romantic britannico (vengono spesso chiamati gli Spandau Ballet americani). La formula potrebbe essere quella vincente e l’anno dopo si decidono a sfornare il loro primo LP, Stranger to Stranger, aggiungendo alcuni brani e incorporando l’EP di cui sopra. Strano a dirsi, ma è proprio sul lungo supporto che perdono terreno, tanto che si sfalderanno in breve tempo. Il cantante e principale compositore Jon Carin si riciclerà come session man e autore per grossi nomi come Bryan Ferry, Psychedelic Furs, Kate Bush, ma soprattutto – e curiosamente – sia con i Pink Floyd di Gilmour che con il Waters solista. Ad ogni modo State of the Nation col passare del tempo è diventato quasi il brano simbolo degli anni ’80 e della relativa tensione bellica.

Hong Kong Syndikat

Arriva dalla Germania la trasmutazione di una band con riferimenti evidenti alla Neu Deutsche Welle in una s.p.a. da classifica mainstream. Autori di un disco d’esordio, Erster Streich, clamoroso tra la EBM dei DAF e il minimalismo dei Trio, tutto synth ritmiche motorik, chitarre funkettine kidcreoliane e una sana sporcizia wave, gli Hong Kong Syndikat vanno lentamente avvicinandosi a un pubblico più largo. Già con Olympia del 1984 concepito con gente del team dei Visage sviluppano una via al synth pop digitale senza scendere a compromessi. La qualità è alta, la possibilità di entrare nel mercato c’è, tant’è che riescono a tirare fuori Too Much, un pezzo da top 30 che porta il sound sintetico verso un cool jazz alla Matt Bianco meet Grace Jones, dalle influenze spiccatamente rétro, un ibrido affascinante tra synth pop e tradizione che però non regge alla prova del 33 giri. Never Too Much infatti, pur contenendo un altro hit minore come Concrete and Clay (cover degli Unit 4+2), sembra scialbo e costruito intorno alle idee del singolo trainante. Ma peggior sorte toccherà a Des Teutons pas Nippons, disco dimenticato dalla storia e non a torto. È tecnicamente inattaccabile, con tutti i suoni al loro posto e perfettamente aderenti al tempo (digitalizzazione ostentata, chitarre dal colore funk bianco stile INXS, tentativi di Minneapolis sound plasticoso alla Jesse Johnson) e arrangiamenti curati nei minimi particolari a scapito di canzoni senza nerbo. In pratica la sorte che tocca ai Duran Duran di Notorious, solo che agli inglesi va di lusso, mentre gli Hong Kong si sciolgono lasciando solo Gerd Plez a risorgere dal pantano dell’ industria discografica come autore di Falco.

Propaganda

Originari di Düsseldorf, sono capitanati da Ralf Dörper, noto per aver fatto parte del gruppo industrial Die Krupps col quale si è distinto per le gincane sperimentali. Ma in questo caso si dedica all’ibridazione del pop. Con l’inserimento della cantante Claudia Brücken, i Propaganda operano una svolta non indifferente. Paul Morley li mette sotto contratto per la ZTT di Trevor Horn, fanno i bagagli per il Regno Unito e l’avventura inizia. Il primo singolo Dr. Mabuse è un compromesso tra synth pop e sentori industrial a base di campionamenti digitali. Restano legati a certi usi underground e nonostante l’appeal popolare appaiono nella trasmissione The Tube eseguendo una cover di Discipline dei Throbbing Gristle. Ma è con il primo album A Secret Wish che la formula conquista definitivamente il mainstream: il disco e il singolo Duel vanno benissimo in classifica. Nel tentativo di spiazzare tutti, pubblicano come singolo il più scuro e radicale p:Machinery, che partendo dalle zone basse delle classifiche inglesi riuscirà ad arrivare primo in Spagna e a conquistarsi alte posizioni in tutta Europa, anche in Germania dove inizialmente viene censurato per una copertina in cui Ballard elogia i terroristi della RAF (mossa suicida che mette in luce lo spirito bohémien del gruppo). Sembra che le cose vadano a gonfie vele, ma il disastro è dietro l’angolo. Si accorgono infatti di aver firmato un contratto capestro con la ZTT per il quale non guadagnano nulla dalle loro opere. Finiscono alla Virgin per il secondo LP 1234 che vede in formazione due ex Simple Minds e Howard Jones in veste di autore, ma senza la voce di Brücken, uno dei motivi per cui album e singoli non vanno oltre le posizioni basse della classifica. Nonostante rimangano sprazzi ambient con citazioni di Lang, la musica della band suona come un ibrido tra Nick Kamen e il synth pop digitale di fine ’80 che esala l’ultimo respiro: ma siamo nei ’90, fuori tempo massimo. Nel 2018 la band si rifonda come xPropaganda, riuscendo incredibilmente nel 2022 a raggiungere l’undicesimo posto nelle classifiche UK, cosa mai successa prima di allora.

TXT

Dalla Germania un’altra meteora che attraverserà i cieli delle classifiche del 1985. Con il singolo Girl’s Got a Brand New Toy, i TXT (da non confondersi con la semi omonima band sudcoreana) ottengono un successo figlio del passaggio globale dal synth pop verso lidi danzerecci. Il loro suono è un mix di elettronica, drum machine e chitarrismo, a volte paragonabile allo stile degli Alphaville, a volte invece direttamente legati alla dance digitale in ascesa. Markus, il chitarrista, è un militante della Neu Deutsche Welle, tanto da interpretare anche il film manifesto sul genere Gib Gas – Ich will Spaß in cui appare anche Nena. Markus unisce le forze con l’ossigenato inglese Mark Jefferis, dalle caratteristiche androgine/gender bender e un vocione quasi gotico: il suo look sembrava diretto surrogato dello stile di Martin Gore nei Depeche, in più è un polistrumentista e autore che bazzica le band underground teutoniche. Da lui vengono i brani del duo, ai quali Markus dà il cerone musicale adeguato per renderli solidi, aiutati anche nei testi dal bassista Ken Taylor, session man che oltre a girarsi tutta la nuova musica del periodo suonerà proprio con gli Alphaville. Un talent scout della CBS li nota nell’84 in azione nei club tedeschi, proponendo loro l’incisione di un album, What About You, esperienza che però rimane isolata. Dopo l’exploit del primo singolo e il riscontro del successivo 45 giri Cold as Ice, la CBS decide di lanciare altri due singoli estratti che non vanno da nessuna parte, facendo ricredere l’etichetta sulla posizione del duo nel mercato. Il quale nel frattempo però ha riflettuto molto sul “circo” di apparizioni televisive in playback, comparsate, marchette promozionali, tutte cose che probabilmente lo sta allontanando dallo spirito originario. Si sciolgono gettando al vento l’obbligo contrattuale di un secondo album. I motivi dell’abbandono non sono mai stati chiariti e da quel momento i due si dedicano ai rispettivi progetti solisti.

Fra Lippo Lippi

I Fra Lippo Lippi arrivano dalla Norvegia e nel 1985 diventano popolari per una serie di hit tra le quali Shouldn’t Have to Be Like That. Nessuno potrebbe sospettare che dietro quel sound innocuo e radiofonico si nascondono dei new wavers accaniti. Esordiscono nel 1980 con l’EP strumentale Tap Dance for Scientists che è un clamoroso e illuminante esempio di minimal wave sperimentale assolutamente invendibile. Non contenti, l’anno dopo se ne escono con l’album In Silence, che è praticamente la risposta norvegese ai Cure e ai Joy Division. Ma poi ecco spuntare nell’83 il secondo album Small Mercies con melodie limpide e una sensibilità maggiormente pop, in linea con certe cose di John Foxx. La critica inglese si interessa a loro e decidono così di registrare Songs del 1985 che è il definitivo allontanamento da certi lidi alternativi a favore della scrittura pop tout court. Non avendo un’etichetta interessata a produrlo e promuoverlo, fanno tutto da soli vendendo 5000 copie in Norvegia. La Virgin, fiutando un possibile affare, si fa avanti e loro propongono una nuova versione di Songs, riregistrato e col rifacimento di vecchio materiale (il produttore è David M. Allen, che tra gli altri è il responsabile del successo di Disintegration dei Cure). La mossa gli permette una fama internazionale che dura il tempo di un paio di singoli. L’album Light and Shade del 1987, prodotto dall’ex Steely Dan Walter Becker, fallisce l’obiettivo di consolidarne il successo. Caduti nel trappolone del pop di facile ascolto, i Fra Lippo Lippi vengono scaricati brutalmente dalla Virgin, ma stranamente ottengono un incredibile successo nelle Filippine, Paese che li acclama come star e puntualmente li manda nelle zone alte della classifica.

King

Con Love and Pride nel 1985 gli inglesi King fanno il botto, diventando una vera e propria rivelazione inserita di peso nel filone new romantic (d’altronde il produttore è Richard James Burgess, ex Landscape e artefice dei primi due album degli Spandau Ballet, che per l’occasione suona anche la batteria). Le radici della band stanno nel gruppo new wave/ska Reclutant Stereotypes, in cui il cantante Paul King si distingue per la voce personalissima, tanto che la nuova band prende nome da lui (all’epoca interessante contraltare al nome di Prince). Il primo album va alla grande raggiungendo i primi posti nelle classifiche, anche se curiosamente all’inizio non funziona e le cose si sbloccano solo dopo un’apparizione televisiva. King ha un look eccentrico fatto di mullet e anfibi colorati con lo spray, essenzialmente proto grebo. Steps in Time è comunque un disco ispirato, prodotto magistralmente e potrebbe essere considerato uno dei capolavori del periodo e invece è snobbato ancora oggi dalla critica. Il secondo album Bitter Sweet, produce hit da top 30 (tra queste la super romantica Taste of Your Tears) e abbandona il sapore new wave lasciando solo una pietanza pop ben confezionata che trasforma i King in una specie di boy band. Forse proprio a seguito di una crisi d’identità dovuta a queste scelte artistiche il gruppo si sfalda dopo soli due anni, lasciando Paul da solo. Giocherà la carta solista nel 1987 con l’album Joy, prodotto da Dan Hartman (sì, quello di Relight My Fire, rifatta anche dai Take That), con ospiti come Nona Hendryx e Carlos Alomar, fido collaboratore di Bowie, spostandosi su territori più rock e mantenendo la raffinatezza dei vecchi King. È un flop e King ripiega su una carriera da vj di MTV.

Wang Chung

I Wang Chung esordiscono come band new wave dal nome leggermente diverso, Huang Chung. Il tiro è quello del primo new romantic, con grande fascinazione per i Roxy Music. La Arista crede in loro e li mette sotto contratto, ma l’album d’esordio Huang Chung non entra in classifica. Ci riprovano con Points on the Curve virando verso il synth pop: il disco è un gioiellino del genere, a suo modo attento alle nuove tecnologie e a un suono ad alta definizione (alle manopole c’è Chris Hughes, produttore dei Tears for Fears ed ex Adam and The Ants tra i tanti), e stavolta riescono a conquistare il mercato statunitense e inglese con il tormentone Dance Hall Days. La scelta di abbandonare l’Arista per firmare alla Geffen è decisiva. Convinti dall’ etichetta a cambiare nome per renderlo meglio pronunciabile nei paesi anglofoni, vengono reclutati per firmare la colonna sonora del film To Live and Die in L.A. di William Friedkin, entrando di diritto nel mainstream. Mosaic del 1986 è il loro album di maggior successo commerciale, con una serie di singoli da top 10. Si spostano sulla dance, eliminando qualsivoglia sperimentazione. Trasformati in un gruppo che insegue le tendenze delle masse, commettono il passo falso definitivo registrando The Warmer Side of Cool che li trasforma improvvisamente in un gruppo digital rock. È il 1989. Se da una parte prevedono le tendenze dei ’90, col ritorno del rock in classifica grazie al grunge e ai vari gruppi alternative, è anche vero che perdono la bussola smarrendo la loro identità e di conseguenza anche il pubblico. Scottati dall’insuccesso del disco, si sciolgono di lì a poco, collaborando singolarmente con personaggi come Jon Moss dei Culture Club e Tony Banks dei Genesis. Si riformano nel ’97 entrando nel calderone delle vecchie glorie, dandosi a tour nostalgici e operazioni trite come riarrangiare i loro pezzi con l’orchestra. Tazer Up! del 2012, tra recuperi e materiale inedito, suona clamorosamente indie per delle vecchie volpi del pop well crafted.

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