10 dischi per capire cos’è stato il new pop anni ’80 | Rolling Stone Italia
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10 dischi per capire cos’è stato il new pop anni ’80

Ai tempi della seconda British Invasion, gli americani iniziarono a chiamare così il pop inglese d’esportazione che si stava allontanando dalla cupezza e dal carattere underground della new wave. Un po’ di album da riascoltare

10 dischi per capire cos’è stato il new pop anni ’80

Martin Fry e Mark White degli ABC

Foto: Tim Roney/Getty Images

«Odiavo l’espressione new wave. Sembrava troppo trendy e che potesse sparire nel giro di un anno». Lo diceva Denis McNamara, supervisore della programmazione della radio WLIR di Long Island, tra i primi responsabili del passaggio nei primi anni ’80 dalla new wave al new pop nelle radio americane. New pop è un termine-ombrello adottato dagli americani per evidenziare una musica nuova di importazione inglese (in sintesi, la seconda British Invasion) senza le caratteristiche cupe e underground della new wave. Anzi, all’interno del “genere” confluivano molti new wavers ripuliti, gruppi di blue eyed soul, realtà elettroniche patinate, jangle pop a iosa, rock AOR tecnologizzato ed ex gruppi DIY duri e puri che ora pensavano al cash.

Il teorico del new pop (e anche pratico, visto che fondò gli Art of Noise) fu il giornalista musicale inglese Paul Morley che individuò il senso di stanchezza che l’autoghettizzazione e la cupezza della new wave stavano dando alla musica, riducendo la novità in un cliché: era quindi necessario più edonismo, maggior attenzione alla pulizia dell’immagine, un calcio al pessimismo tanto per.

Se è vero che l’etichetta new pop è a uso e consumo del pubblico statunitense, è altrettanto vero che ci sono punti in comune tra tanta eterogeneità che oggi possiamo riconoscere anche in Italia dove il termine non ha mai significato granché: in primis il tentativo di bucare le classifiche americane usando i videoclip, sfruttando l’ascesa di MTV e facendo l’occhiolino sia all’alternative che al mainstream.

A fronte di band che hanno fatto la storia del new pop creando un ponte tra queste due realtà rimanendo a tutt’oggi un riferimento globale (pensiamo agli U2, ai Simple Minds, ai Dire Straits, agli Eurythmics, agli Scritti Politti, agli Human League, agli Wham!, ai Culture Club, ai Frankie Goes to Hollywood e a tutto il filone new romantic da top 10), ce ne sono molte altre che hanno vissuto l’ebbrezza di entrare nelle classifiche americane ma che le masse oggi hanno dimenticato. Forse perché, in effetti, portatori sani di un nuovo pop che ancora adesso rimane incontaminato. Qui una selezione (o meglio, un campione vista la vastità della cosa) di dieci dischi fondamentali da riascoltare.

Steeltown

Big Country

1984

«Ha scritto le canzoni che avrebbero voluto scrivere gli U2», ha detto The Edge al funerale di Stuart Adamson, cantante e compositore dei Big Country. Reduce da una band fondamentale per il punk/new wave scozzese come gli Skids, Adamson fonda i Big Country con l’intenzione di allargare il raggio di ascoltatori integrando poesia e denuncia sociale. Impossibile non pensare a Steeltown come un’ode al periferico, alle wastelands operaie, a tutto quello che il thatcherismo voleva all’epoca mettere sotto il tappeto. Più forti degli U2 dal punto di vista dei testi, tecnicamente mostruosi (il chitarrismo di Adamson e di Bruce Watson, che imita cornamuse gaeliche grazie all’uso del pitch, viene da molti paragonato all’impatto di un Hendrix sulle scene), con un feeling capace di muovere a commozione anche i muri (When the Rose Is Sawn o East of Eden) e basato su un originalissimo mix di folk, post punk e approccio cantautorale. Alla regia è Steve Lillywhite alla produzione anche degli U2 e che che già si era distinto nel debutto The Crossing. Sarà il loro primo numero uno in Inghilterra dopo la buona prova del precedente album, ma negli Stati Uniti le tematiche “socialiste” metteranno sull’attenti gli ascoltatori (il concept era correlato alla città di Corby, nella quale alla chiusura delle acciaierie gli operai si ritrovarono senza lavoro e disperati), facendo crollare il disco al 70simo posto della classifica quando il precedente si assestava a un ottimo numero 18. Dopo il mezzo recupero commerciale di The Seer (rovinato però in fase di missaggio, la Mercury impone un taglio pulito), la band non riesce a riacciuffare la popolarità conquistata negli Stati Uniti, tornando nel fiero terreno alternative. Ingoiato dai demoni dell’acolismo, Adamson si suicida nel 2001 ponendo fine a una delle più grandi parentesi poetiche rock della storia (sì, poi i Big Country sono tornati senza di lui, ma potete immaginare i risultati).

Go West

Go West

1985

I Go West sono uno di quelle band inglesi che ben rappresentano l’American dream degli anni ’80. Dopo una serie di porte in faccia, il duo riesce a trovare un contratto mandando solo due pezzi all’etichetta Chrysalis: uno è We Close Our Eyes, nel 1985 un tormentone che spopola schizzando nella classifica americana soprattutto per merito del video in pieno boom di MTV (gli autori sono Godley and Creme, ex 10cc, registi di alcuni tra i più famosi videoclip dell’epoca). I due fanno una sorta di mix tra synth pop, rock digitale e blue eyed soul. Trainato dal singolo, l’album Go West sbanca anche negli Stati Uniti e su nove pezzi, cinque diventano singoli di successo. Insomma, sembra proprio che debbano diventare una pesante realtà del new pop, e invece si arenano col secondo album, Dancing on the Couch, frutto del tentativo di essere più “seri” e ricercati (qui ampio è il crossover tra il blues/jazz e un pop ultrasintetico), con una comparsata di Kate Bush. Nel 1990 però King of Wishful Thinking entra nella colonna sonora di Pretty Woman, facendoli rientrare nelle classifiche americane (ottavo posto). Più forti nei singoli che nell’album che ne deriverà, ovvero Indian Summer, i Go West tornano presto nel dimenticatoio, nonostante siano ancora in attività per un pubblico di nostalgici.

The Golden Age of Wireless

Thomas Dolby

1982

È uno dei più alacri smanettoni di tastiere elettroniche della sua generazione. Già nei primi ’70 sperimentava con nastri magnetici e sintetizzatori da costruirsi in casa, da cui il soprannome Dolby (come il famoso sistema di riduzione del rumore). Ma è negli ’80 che dalla cameretta viene portato all’attenzione del grande pubblico, non passando da uno dei tanti gruppetti dell’epoca (anzi, militava nei Camera Club di Bruce Woolley poi Soft Boys), ma dai Foreigner, che all’epoca registrano 4 e lo reclutano ai sintetizzatori. Relegato a session man invece di venire scritturato come solista, con i proventi delle prestazioni si autofinanzia il primo album The Golden Age of Wireless, creando una sua etichetta, la Venice in Peril, che poi si appoggerà alla EMI. Potrebbe essere considerato un classico della new wave elettronica, ma è già qualcosa d’altro, trascende il genere per quel feeling new pop che mette insieme una serie di influenze alla portata di tutti e quindi, il più delle volte, viene relegato in un cantuccio dai puristi wave. The Golden Age of Wireless è il suo disco più completo, una cornucopia di synth e sampler, dagli argomenti come il sentimento di guerra incombente che modifica le relazioni tra gli uomini (ricordiamo che ci troviamo in piena Guerra fredda) e nello stesso tempo è intriso di slancio futurista. Sarà ripubblicato cinque volte e ogni volta, cambiando la scaletta e inserendo versioni diverse dei pezzi, trasformerà la narrazione così come il destino commerciale del disco (la versione del 1983 arriva tredicesima negli Stati Uniti). Per via del quasi flop del successivo The Flat Earth (intriso di jazz e world music) Dolby viene da molti considerato una meteora. Nel 1993 fonda la società di tecnologie audio interattive Beatnik, con le quali fino al 2011 produce colonne sonore di videogiochi e tonnellate di suonerie per cellulari. Insomma, bene o male Dolby ce lo siamo sempre trovato in mezzo, classifiche o meno.

Dream into Action

Howard Jones

1985

In piena sbronza di MTV, uno di quelli che ne incarnano il sogno colorato è Howard Jones. Personaggio dal background progressive quando teenager emigra in Canada, al ritorno nel Regno Unito decide di studiare musica al college, facendosi le ossa in varie band fino a diventare un esperto di diavolerie elettroniche tanto da essere probabilmente il primo ad usare l’interfaccia MIDI con le sue tastiere. Per ottenere un contratto discografico prende in affitto il Marquee e invita le etichette a vederlo suonare live. Senza band di supporto ovviamente: bastano lui e i suoi synth. L’esibizione prevede addirittura un momento nel quale grazie alle loro interfacce le tastiere si mettono a suonare da sole mentre lui se ne va a passeggio. BBC Radio 1 lo invita a fare una session e la Warner si fa avanti, tanto che nel 1983 è già lanciato nei primi posti della classifica, entrando anche nella top 30 americana. Ciuffo tipico del giro new romantic/synth pop, Jones si discosta da quella scena per veicolare messaggi positivi e per usare la tecnologia nella maniera più pulita possibile, cosa che non è tanto visibile nell’ottimo album d’esordio che, successo a parte, rimane debitore di certi gruppi fondamentali come gli OMD. La seconda prova Dream into Action è un inno all’ottimismo del self-made man anni ’80, ma anche alla pace tra i popoli (Like to Get to Know You Well è in pratica la sua People Are People) e alla speranza di tempi migliori (Things Can Only Get Better). L’album sbanca nel Regno Unito e rimane nelle classifiche americane per quasi un anno. Jones sembra imbattibile, oltre ai suoi successi la sua precisione nell’arte della sintesi e dell’arrangiamento digitale lo renderà quasi un guru della materia e lo porterà al Live Aid, pieno di star del new pop. Già dal terzo disco, però, il pubblico comincia a disinteressarsi del suo sano ottimismo e quando un certo tipo di suono digitale prende piede, lui che ne è assoluto pioniere viene superato dai suoi emuli. Negli anni ’90 viene scaricato impietosamente dalla Warner e ripiega come autore (tra l’altro anche dei Propaganda), rimanendo relegato al profilo della vecchia gloria.

The Dollar Album

Dollar

1982

Tra quelli che meglio hanno interpretato (o anticipato) il new pop ci sono questi due inglesi che militavano nei Guys ’n’ Dolls, band di un certo successo a metà ’70. Poi Thereza Bazar e David Van Day si innamorano e mollano il gruppo per inseguire da soli i propri sogni di gloria. I fatti danno loro inizialmente ragione, dopo due singoli che si fanno strada nella classifica, il terzo (Love’s Gotta Hold on Me) arriva al numero 4 in classifica nel Regno Unito. L’album Shooting Stars entra anche nelle chart americane con il singolo semi-omonimo, ma la musica è un prodotto pop ben fatto ma non dissimile da molti dischi del periodo. E infatti il secondo album non bissa i risultati del primo nonostante gli innesti rock. Bazar ha un’intuizione folgorante. Contatta una vecchia conoscenza del periodo Guys ’n’ Dolls, ovvero Trevor Horn dei Buggles, il quale accetta di produrli. Il risultato probabilmente stupisce gli stessi Dollar: improvvisamente il duo, da fenomeno pop con poca credibilità, diventa l’anello mancante tra i Kraftwerk e il crooner Vince Hill. Un suono cristallino, in cui l’elettronica digitale innalza le melodie a livelli paradisiaci, con tanto di utilizzo pioneristico di campionamenti e affini, con una lungimiranza incredibile sull’Europop che verrà (ma anche sul glo-fi e l’hyper dei 2000). Horn firma una manciata di pezzi che arrivano puntualmente nella top 20, con Mirror Mirror e Give Me Back My Heart che schizzano al quarto posto della classifica inglese e rendono The Dollar Album un classico che profuma di futuro. Mentre Horn diventerà il grande produttore che conosciamo, i Dollar vengono mollati al loro destino, “usati” come cavie da laboratorio, forse uno dei motivi per cui il duo (separato sentimentalmente da un pezzo) comincia a dare segni di insofferenza e tensione, dividendosi nel 1983 in Giappone proprio mentre il singolo Two Hearts è in promozione. La coppia tenterà la reunion, ma a parte un settimo posto nel 1987 con una cover degli Erasure (Oh l’amour), la spinta creativa era chiaramente già finita negli anni d’oro di Horn.

The Lexicon of Love

ABC

1982

A raccogliere il testimone dei Dollar sono gli ABC, che vengono da tutt’altro background. Il sassofonista Stephen Singleton e il factotum Mark White militavano infatti nei Vice Versa, una band che era in linea con un certo synth pop estremo. Gli ABC partono alla conquista degli Stati Uniti. Impresa sulla carta ardua perché la formula voluta da Martin Fry è quella di fare disco music con attitudine punk e tornare a Cole Porter nella narrazione invece delle solite tematiche “industriali”: quindi amore, amore e ancora amore, tirando fuori concetti che sembravano sepolti dalla new wave come ad esempio il matrimonio. Mentre i Duran Duran falliscono miseramente in questo tentativo di unire disco e post punk, gli ABC vanno sul sicuro, forti della produzione di Trevor Horn che già in qualche modo ha sondato il terreno con il successo dei Dollar. Intorno a loro degli arrangiatori e session man di eccezione tra cui i futuri Art of Noise al completo. Con una produzione così brillante, patinata e nello stesso tempo potente, gli ABC diventano paladini del nascente movimento new romantic. Il singolo The Look of Love è una hit in Inghilterra e segna la prima di una lunga serie di irruzioni nella classifica americana, dove si piazza al numero 18 (l’album entra nella top 30). Unico neo dell’operazione, il brutale licenziamento del bassista Mark Lickley per Brad Lang, voluto da Trevor Horn che più avanti si pentirà del gesto. Poco male, con la formazione riarrangiata gli ABC si assicurano una presenza fissa nella classifica americana fino al 1987 di Alphabet City, inizialmente pensato come commiato ai fan. Continueranno invece fino al 1997 con alterne fortune e alterne sperimentazioni (ad esempio con la house music), allontanandosi però sempre di più dal mirino delle masse. Ad ogni modo, The Lexicon of Love è un disco fondamentale del new pop anni ’80 e uno dei punti di riferimento globali per chi voglia fare un disco mainstream degno di questo nome.

The Riddle

Nik Kershaw

1984

Nik Kershaw è un’altra figura chiave del new pop: look coi capelli sparati, musica che è una specie di ponte tra le sensibilità new wave, synth pop, pop AOR e fusion. E proprio Fusion si chiama la band dalla quale Kershaw si separa nel 1982. Il manager che trova via Melody Maker lo porta alla MCA. Dai Fusion, Nik si porta via una canzone, che poi diventerà la hit Human Racing, titolo anche del suo primo album che entra di prepotenza nella classifica americana. Ma il singolo che lo farà davvero esplodere è Wouldn’t It Be Good, trainato da MTV che manda a rotazione il video in cui Nik interpreta un alieno in green screen. L’album è il suo maggiore successo commerciale, ma la critica lo snobba e allora a questo punto mira in alto e registra l’LP The Riddle, quello con l’omonimo singolo sbancatutto e il video allucinato che mixa senza apparente filo logico il mondo di Batman e Le avventure di Alice nel Paese delle meraviglie. È una prepotente virata verso una commistione tra jazz e synth pop, con soluzioni acrobatiche che a volte ricordano i primi Level 42 (non a caso in una traccia fa capolino Mark King al basso). Insomma, non un disco facile, che infatti negli Stati Uniti entra nella zona bassa della classifica nonostante i singoli (notevole anche Wide Boy). Kershaw sembra capace di sfornare l’album definitivo, ma il successivo album Radio Musicola è un flop clamoroso che però – guarda il caso – viene osannato dalla critica. Tornerà nelle classifiche britanniche solo nel 2012 con il sofferto Ei8th, che seguendo le orme di Howard Jones viene pubblicato sulla propria etichetta, un esempio di come il new pop degli ’80 sia poi diventato, silenziosamente, un veicolo per aprire le porte della musica indipendente dei 2000.

The Method to Our Madness

The Lords of The New Church

1984

Ci sono band che hanno subito metamorfosi clamorose per adattarsi al new pop. Un esempio è quello dei Lords of The New Church, un supergruppo formato da Stiv Bators dei Dead Boys, Brian James dei Damned e i restanti membri presi dagli Sham 69 e dai Barracudas. Parliamo della crema del punk/post punk inglese e americano che improvvisamente comincia a spostarsi musicalmente su cose più accessibili e sovrapprodotte, inserendo anche altri elementi oltre la fascinazione gothic, come lo ska e un rock che sa di palasport. I fan del punk li disconoscono mentre un nuovo seguito di giovanissimi viene attirato da un immaginario spettrale ma non troppo. Messi sotto contratto dall’etichetta IRS (famosa per essere diretta dal fratello di Stewart Copeland dei Police, di cui era manager), pubblicano nel 1982 un primo disco omonimo che ancora ha radici nello stile delle band di origine. Col secondo Is Nothing Sacred?, prodotto con Todd Rundgren, la situazione cambia e il new pop è già entrato nelle loro intenzioni (c’è enfasi sui sintetizzatori e c’è persino – eresia! – una sezione di fiati, cosa impensabile prima). Il video di Dance with Me diretto da Derek Jarman viene scambiato erroneamente per un inno alla pedofilia e trasmesso su MTV col contagocce. Annusando il vento che arriva dagli Stati Uniti, raddrizzano il tiro virando il loro stile verso l’heavy rock infilandolo però in una lavatrice wave che sa di pulito: The Method to Our Madness è il loro disco più “coerente” grazie alla produzione di Chris Tsangarides (capace di lavorare con i Judas Priest così come coi Depeche Mode). Scioltisi nel 1989 con Bators, che morirà tragicamente nel 1990, che li licenzia in diretta sul palco, si riformano nel 2001 non facendo una grandissima figura.

Pinky Blue

Altered Images

1982

Band nata tra membri del fan club di Siouxsie and The Banshees, la carriera degli Altered Images inizia quando i Banshees permettono loro di aprire i concerti del periodo di Kaleidoscope. John Peel si accorge di loro e li invita alle sue session, la Epic li mette sotto contratto. I primi singoli non vanno granché bene, anche perché il primo si intitola Dead Pop Stars ed esce dopo l’assassinio di Lennon, ma già dall’album di debutto smussano le radici post punk per qualcosa che possa superare la nicchia. Prodotti da uno dei loro eroi, Steven Severin dei Banshees, ottengono un suono che è la versione speculare di Souxsie: dove lì ci sono asprezza e oscurità, qui invece tutto è solare (con la voce da topolino della cantante Clare Grogan, probabilmente ispirazione per Alison Shaw dei Cranes, anche se quest’ultima ne fa una versione “mortifera”). A fare la differenza è Martin Rushent, l’artefice del sound di Dare degli Human League: mette le mani sul singolo Happy Birthday, trasformandolo in una hit clamorosa, dritta al secondo posto delle classifiche del Regno Unito. Pinky Blue dell’82 è interamente affidato a Rushent il quale confeziona per loro un perfetto vestito new pop: rende le ingenuità della band un punto di forza e rende il suono più gonfio e “ottimista” con piccoli innesti elettronici. La svolta funziona e l’album è il loro più venduto (con il singolo I Could Be Happy grimaldello per aprire le porte del mercato americano), ma la critica li accusa di aver venduto l’anima per diventare commerciali. Osservazione più che giusta e nel 1983 esce Bite, album in cui l’intenzione pop è limpida (con una Clare Grogan in copertina ripulitissima e fascinosa). Nonostante in produzione ci sia anche Tony Visconti, l’album – raffinatissimo peraltro – non scala le classifiche e la band si scioglie a ridosso del primo tour americano. Si riformano nel 2021 per aprire i concerti degli Human League e pubblicare l’anno dopo il nuovo disco Mascara Streakz che vede la collaborazione di Bernard Butler, ex guitar hero degli Suede, e che entra nella top 30 inglese.

Too-Rye-Ay

Dexys Midnight Runners

1982

Nati dalle ceneri di una band punk di razza come i Killjoys, la band fondata da Kevin Rowland sarà una delle prime a raccogliere i frutti della seconda British Invasion. Con l’obiettivo di fondere il punk la new wave e il soul di stampo Stax, inventano una miscela esplosiva. Già dal nome che richiama la dexedrina, droga usata dai fan della Northern Soul per ballare tutta la notte, i Dexys hanno una street credibility che finirà anche nel look (inizialmente una citazione dello Scorsese di Mean Streets) e soprattutto nel sound. Dopo il mezzo flop del primo singolo, dovuto a una produzione non all’altezza, si rifanno con il super venduto Geno, singolo dedicato al cantante R&B Geno Washington, primo nel Regno Unito. Nel primo album Searching for the Young Soul Rebels sono allo stesso tempo pop (per la mistura di generi e il mood) e antisistema. Ma il vero botto lo fanno col successivo Too-Rye-Ay, una formazione rimaneggiata, cambio di look (rurale se non campagnolo), regole ferree sul palco (niente alcolici) e nuovo sound: stavolta alla miscela precedente si aggiunge il folk celtico. Il disco contiene Come on Eileen, uno dei brani simbolo degli anni ’80 che traina l’ album anche negli Stati Uniti. Il successivo Don’t Stand Me Down sarà un flop totale di pubblico e critica, nonostante in retrospettiva verrà visto come il loro Pet Sounds. Si riformeranno ufficialmente nel 2003 con risultati altalenanti, anche se nel 2023 rientrano in classifica in Inghilterra con l’album The Feminine Divine dimostrando che il new pop nasconde sempre delle sorprese, ancora oggi che il pop di new, diciamolo, non ha più quasi nulla.