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10 dischi ‘orrendi’ da rivalutare

Sono stati criticati, derisi, dimenticati. E invece c’era del buono in ‘Pop’ degli U2, ‘The Final Cut’ dei Pink Floyd, ‘The Soft Parade’ dei Doors, ‘Chinese Democracy’ dei Guns N’ Roses e ‘Lulu’ di Lou Reed coi Metallica

Sottovalutati, dimenticati, talvolta derisi. La storia del rock è piena di album che vanno riascoltati fuori dal contesto storico in cui sono usciti, e rivalutati. Ne abbiamo recuperati 10 sperando di farvi riscoprire anche solo un brano di cui, magari per partito preso, avete sempre ignorato l’esistenza.

“The Soft Parade” dei Doors (1969)

Il quarto disco dei Doors è considerato l’anello debole della loro discografia. Ma le cose stanno così? The Soft Parade arrivò dopo tre album frutto di una straordinaria urgenza creativa. Il fatto che presentasse uno stile elaborato fece storcere il naso ai più. In realtà, sotto allo strato di arrangiamenti e sovraincisioni pulsa ancora una band oscura, inquieta e fuori dagli schemi. Jim Morrison lasciò metà dei testi al chitarrista Robby Krieger, ma la sola title track vale ancora più di molti album del periodo.

“Music from The Elder” dei Kiss (1981)

Reduci dalla tiepida accoglienza riservata a Unmasked, i Kiss pubblicano un concept album tanto ambizioso quanto incompreso. Prodotto da Bob Ezrin, il disco rappresenta una sterzata vigorosa rispetto al classico sound del gruppo e, soprattutto per questo, viene snobbato dallo zoccolo duro dei fan. Un grave errore, perché il tentativo di rinnovarsi porta Gene Simmons e soci ad osare e a creare brani come A World Without Heroes, I e The Oath che oggi farebbero la gioia di tutti.

“Hot Space” dei Queen (1982)

L’utilizzo dei sintetizzatori per la composizione di The Game era stata vista come un affronto da parte di molti vecchi estimatori. Ma se l’album di Crazy Little Thing Called Love è ormai annoverato tra i classici di Freddie Mercury e soci, Hot Space è ancora considerato un disco minore. Figlio di un periodo molto travagliato, presenta brani in puro stile Queen come Put Out the Fire o Life Is Real, insieme ad altri offuscati da arrangiamenti spesso azzardati. Oltre che dal bagliore accecante di Under Pressure.

“Trans” di Neil Young (1982)

Se già Re-Ac-Tor aveva raffreddato l’affetto di molti fan, Trans diede un colpo micidiale alle credenziali di Neil Young. Sentire l’autore di My My, Hey Hey cantare gran parte dell’album col vocoder poteva spiazzare, ma i motivi della svolta erano profondi: con la tecnologia e la voce filtrata, Young tentava di comunicare con il figlio cerebroleso. E poi, per chi riesce ad arrivare alla fine, c’è sempre quel gioiello di Like an Inca.

“The Final Cut” dei Pink Floyd (1983)

Qualcuno lo considera l’ultimo album dei Pink Floyd classici, nonostante l’assenza di Richard Wright. Per altri è il primo lavoro solista di Roger Waters. Comunque la pensiate, The Final Cut ancora oggi appare come una sorta di costola di The Wall. Gli incubi bellici di Waters questa volta si fanno contemporanei, anche se talvolta appesantiti da testi un po’ prolissi, e la voce del bassista raggiunge vette di dolore mai toccate in precedenza. Dimenticato troppo in fretta, anche a causa della lotta fratricida che seguirà.

“Born Again” dei Black Sabbath (1983)

Frutto di una della collaborazioni più impensabili della storia del rock duro – i Black Sabbath con il cantante dei Deep Purple, Ian Gillan –, Born Again venne bollato come pastrocchio pretenzioso e senza idee e odiato dai molti fan legati a Ozzy Osbourne e Ronnie James Dio. Tuttavia, il tempo è galantuomo: oggi pochissimi di coloro che lo comprarono osano parlare male di brani come Trashed, Disturbing the Priest o della title track. L’amore per Tony Iommi portò Slash a recuperare il riff di Zero the Hero per Paradise City e Ian Gillan non si esprimerà mai più a questi livelli.

“Ballbreaker” degli AC/DC (1995)

Phil Rudd torna a suonare la batteria e ricompone la formazione di Back in Black, la band chiama Rick Rubin con l’idea di rinnovare il sound. Il risultato è un album per alcuni aspetti spiazzante, ma da riscoprire, con brani che farebbero ancora oggi la loro degna figura in qualsiasi nuovo lavoro della band australiana. Oltre alla title track e alla celebre Hard As a Rock, spiccano per energia e potenza The Furor e Burnin’ Alive.

“Pop” degli U2 (1997)

Per molti resterà sempre l’album di Discothèque, anche se chi ha avuto la pazienza di andare oltre il primo singolo sa bene che Pop è molto di più. Criticato, demolito e oggetto di scherno ai tempi dell’uscita, oggi Pop risulta invece fresco, pieno di idee e molto più creativo dei lavori della band dal 2000 in poi. Oltre ad essere uno degli album più sperimentali di Bono e compagni, contiene alcune delle ballate più intense del gruppo tra cui If God Will Send His Angels e, soprattutto, Wake Up Dead Man.

“Chinese Democracy” dei Guns N’ Roses (2008)

Quando, dopo un’attesa di ben quindici anni, il nuovo album della band di Axl Rose vide finalmente la luce, molti non lo presero nemmeno in considerazione, troppo presi a deriderne la gestazione e i cambi infiniti di formazione. Grave errore: nonostante il cambio di sonorità, Axl Rose dimostrava di non aver perso la capacità melodica che, insieme ai comportamenti bizzarri, aveva contribuito a renderlo l’ultima vera rockstar della storia. Da ascoltare senza pregiudizi.

“Lulu” di Lou Reed & Metallica (2011)

Lulu riuscì nell’impresa di scontentare tanto i fan di Lou Reed quanto quelli dei Metallica. Il disco pagò soprattutto la mancanza di fiducia da parte di entrambe le fandom. Se si analizzano i testi, infatti, si comprende che l’ex Velvet Underground non aveva perso un briciolo della propria poetica allucinata e della proverbiale voglia di provocare. Testi che la musica dei Metallica fa spesso diventare ancora più intensi.

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