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10 cover che non ci aspettavamo di sentire

Michael Jackson che rifà la Yellow Magic Orchestra, Springsteen che canta i Suicide, Dave Gahan alle prese coi Metallica, Johnny Cash che s’impossessa di Beck e altri incontri-scontri imprevedibili

Foto: Aldara Zarraoa/WireImage

Cover, che passione. Se c’è una cosa che non vai mai fuori moda sono le versioni personali di brani altrui, che a volte risolvono l’impasse di inventarsi qualcosa. Devi pubblicare per forza un pezzo e non sai che fare? Basta incidere una canzone di altri. Non sempre, però, le cover sono tuffo nella banalità più sconcertante. Anzi, a volte rappresentano un esercizio di contrasti fra l’artista che interpreta il pezzo e quello che l’ha scritto e/o pubblicato per primo. A volte ti chiedi come faccia a funzionare l’incontro tra mondi così distanti. Ecco allora un campionario di 10 cover che non t’aspetti e che a volte sono più interessanti dei pezzi originali.

We Are the World

The Residents vs USA for Africa

2016

C’è qualcosa di più distante dei Residents da USA for Africa? Eppure incredibilmente gli ex bulbi oculari riescono a tirare fuori abissi incredibili da quella bara dalla superficie patinata che è il brano originale, tanto che il pezzo di beneficenza per eccellenza, sceso dall’alto papato dell’opulenza delle superstar del pop, diventa un disperato appello di uno che si è calato un trip e non è più tornato dal down. E questa è probabilmente l’impressione più diffusa che hanno avuto i testimoni della serata Disfigured Night al Fillmore la cui sinossi inquietante potete leggere qui: un affondo lisergico sullo stato dell’umanità destinata a perdersi tra i suoi simulacri di bene e di male. Un capolavoro che smaschera l’aid pop tutto, fondamentalmente una richiesta d’aiuto a se stessi in un disperato tentativo di uscire dalle proprie allucinazioni paranoiche e dalle proprie coscienze pelose che si nutrono del dolore degli altri per sentirsi vivi. La fame nel mondo nei Residents diventa la fame del mondo, il compiacimento del benefattore eterna pena capitale.

Behind the Mask

Michael Jackson vs Yellow Magic Orchestra

2011

Uno degli autori di We Are the World era Michael Jackson. Ecco, anche lui aveva una concezione delle cover piuttosto singolare. Pensate al suo nome accostato a quello della Yellow Magic Orchestra di Ryuichi Sakamoto: non c’entrano nulla, eppure Jackson era in fissa con Behind the Mask, contenuta in Solid State Survivor della band giapponese, da quando Quincy Jones gliel’aveva fatta ascoltare. Mentre l’originale si basa sull’idea della maschera come metafora di una società sempre più tecnologicamente controllata e quindi priva di emozioni, Jackson la manomette aggiungendo una melodia e testi aggiuntivi che invece parlano di… una lei. Banale delusione amorosa contro distopia giapponese. La versione di Jackson sarebbe dovuta entrare in Thriller, ma le parti in causa non raggiunsero un accordo economico soddisfacente. Uscirà in una versione remix nel postumo Michael e in versione demo per il quarantennale di Thriller. È un adattamento piuttosto delirante, quasi di difficile ascolto, come se qualcuno cantasse sopra alla radio che passa qualcosa: forse la forma più estrema di campionamento possibile, cioè mettere direttamente una voce posticcia sull’esistente. Invece di stare dietro la maschera, Jackson la getta direttamente in faccia all’ascoltatore.

Nothing Else Matters

Dave Gahan vs Metallica

2021

Quando nel progetto Blacklist, ovvero le reinterpretazioni dei brani del Black Album dei Metallica per il trentennale, è uscito fuori il nome di Dave Gahan probabilmente molti avranno strabuzzato gli occhi. Cosa c’entra il principe del synth pop e voce storica dei Depeche Mode con le truzzate post thrash metal dei Metallica di quel periodo? A un certo punto Gahan ha voluto indurire la sua musica, è storia di Songs of Faith and Devotion, ma in apparenza le sue simpatie andavano al grunge. Sì, certo, in fondo Nothing Else Matters è una ballatona melodica, ma a parte questo la versione di Gahan toglie al brano la patina da americanozzi solo un pelo più tosti di Bon Jovi, portando in superficie l’autentico lirismo e forse rendendo giustizia all’idea originale. Dite che ci vuole poco? Non credo: Gahan si è concentrato sulla canzone, non su chi la cantava. Volendo essere sinceri, anche grazie a questa cover Nothing Else Matters sopravvive ai suoi autori, e meno male.

Discipline

Propaganda vs Throbbing Gristle

1982

I tedeschi Propaganda sono stati un nome di punta nella scena elettronica mainstream degli anni ’80, commerciali pur avendo un assetto di ricerca di tutto rispetto e un produttore come Trevor Horn (che li teneva in scuderia sotto la sua etichetta ZTT), già mentore di Frankie Goes to Hollywood e Art of Noise. Capaci di uscite molto cupe quanto di ariose melodie come quella di Duel, erano a loro modo provocatori, ma mai totalmente sopra le righe. Accostarli ai Throbbing Gristle e alla loro iconoclastia sembra quasi uno scherzo, eppure lo scherzo lo fecero i Propaganda incidendo e suonando a sorpresa questa cover nel 1984. Della Discipline originale non c’è altro che la parola, anzi neanche quella (il titolo rimaneggiato è Disziplin), il resto è praticamente nuovo, un trip nel campionamento digitale e nella vera e propria “digestione” di un concetto più che di un suono. Magie del futurismo al quale proprio la ZTT (lo Zang Tumb Tumb di marinettiana memoria) si riferiva, non c’è dubbio.

Rowboat

Johnny Cash vs Beck

1996

Cash è un personaggio più unico che raro: il country singer dalla grande voce e soprattutto dalla vita vissuta è stato uno dei grandi vecchi che si è interessato alle novità e non si è mai rifugiato nel passato. È risaputo che (a parte il grunge dei Soundgarden che infatti rifarà) in lui si nascondeva un cuore industrial, e questo lo prova il fatto che abbia cantato i Nine Inch Nails e i Depeche Mode e soprattutto che Danzig abbia scritto appositamente per lui Thirteen. Molto meno spesso si ricorda che era un fan del lo-fi, in particolare di Beck. Nel 1996 di Unchained interpreterà la sua versione di Rowboat, che il giovane americano aveva inserito in Stereopathetic Soulmanure. La loro connessione è curiosa, in quanto l’attitudine iconoclasta, cazzara e fondamentalmente noise di Beck è lontana dal rigore del vecchio Cash. Musicalmente poi non ne parliamo, uno eclettico al limite della malattia, incapace di fermarsi su uno stile, e l’altro colonna portante di un genere. Per far capire la differenza abissale, Cash interpreta Rowboat pensando ad alcuni momenti difficili della sua carriera, dandogli il peso di un inno, mentre Beck l’aveva scritta praticamente in cinque minuti solo per far fare un’ospitata a un suonatore di lap steel guitar conosciuto in un country club dove era stato invitato a suonare. L’aveva invitato in studio rendendosi conto di non avere uno straccio di brano country (e comunque Rowboat non è del tutto country, ma piuttosto anti folk nella sua ironia).

Dream Baby Dream

Bruce Springsteen vs Suicide

2014

Mai artisti sono stati più lontani di Springsteen e dei Suicide, giusto? Beh, errato. L’amore per il rock’n’roll sfegatato di Alan Vega è lo stesso del Boss, il quale sviluppò con lui un amicizia vera, tanto da far capolino negli studi mentre registravano il secondo Suicide (e pare che Nebraska sia nato proprio perché ispirato dalla band newyorkese). Bruce si innamorò di questo singolo stand-alone del 1979 e in effetti sembra venire più dal suo repertorio che da quello dei due scoppiatoni. Ma se pensate a Born in the U.S.A., beh, quel loop infinito che alla fine fa il pezzo non è forse qualcosa già previsto da Jukebox Babe di Alan Vega?

I Don’t Want to Grow Up

Ramones vs Tom Waits

1995

Sono all’apparenza distantissime anche le storie di strada fumose e primitive di Tom Waits e quelle nichiliste-fumettose dei Ramones. Eppure, di tutti i brani del canzoniere waitsiano, I Don’t Want to Grow Up potrebbe venire fuori dal cilindro del gruppo newyorkese. La band ne dà una versione punk-rock ovviamente tirata alla sua maniera e si lascia alle spalle l’arrangiamento acustico “matusa ma non troppo” di Waits. Da lamentazione alcolica la canzone diventa un manifesto di intenzioni: crescere mai e se dovesse accadere che sia solo fisicamente, mai di cervello.

White Lines (Don’t Don’t Do It)

Duran Duran vs Grandmaster & Melle Mel

1995

Chiunque affermi che nei Duran Duran ci sia anche un briciolo di influenza hip hop rischia di essere mandato a farsi un tso. È vero però che negli ascolti del gruppo c’è molto di quella cultura, ma è tutto abbastanza spostato sul funk, sulla house, insomma non è che Le Bon si mette a fare freestyle, ovvio. Eppure nel disco Thank You, dedicato alle cover di alcuni dei loro dioli, i Duran fanno una personale versione di White Lines di Melle Mel, con la comparsata dello stesso e dei Furious Five. È una descrizione dei rischi della cocaina, tema che nei Duran era abbastanza scottante visto tra le altre cose la dipendenza di John Taylor, alla quale Le Bon riesce a incollare una melodia accattivante, trovando come punto di incontro tra i due mondi il coro beatlesiano che poi è l’incipit di Let’s Dance di Bowie. Tutto bello sulla carta, poi il singolo esce e la critica lo distrugge tanto che è ancora considerato da molti come il peggior singolo dei Duran. La verità è un’altra: provate voi a trasformare un brano del genere in un qualcosa di catchy e poi ne riparliamo…

The Final Countdown

Laibach vs Europe

1994

I Laibach sono famosi per tramutare brani altrui, soprattutto mainstream, in inni industrial dal sottotesto politico/provocatorio. Se c’è una cover loro in cui non ci può essere nulla di correlato è The Final Countdown degli Europe, cioè il prodotto dell’hair boy band metal più generalista degli anni ’80. La trasformano nella metafora di un’Europa che sta implodendo e che oggi in effetti è slabbrata e devastata sotto gli occhi di tutti. La cover è presente nell’album Nato, il cui titolo è tutto un programma. Ad ogni modo, tra la sarcastica ripresa delle trombette fintamente epiche del brano, il cantato grottesco e l’insieme apocalittico-marziale, il pezzo della band di Joey Tempest diventa una specie di cavalcatona trance EBM che prevede un cybertracollo di tutto il sistema occidentale. I Laibach coverizzarono un intero album dei Beatles, Let It Be, gruppo che forse è proprio l’antitesi totale del loro proporsi, ma niente può superare il fatto che una canzone di un gruppo di bellocci cotonati possa diventare un inno di guerra, o meglio della sua parodia.

All Apologies

Herbie Hancock vs Nirvana

1996

Molti altri hanno tentato di seguire le orme del Miles Davis che rompe le regole e fa entrare di forza il pop nel jazz (la cover di Time After Time di Cyndi Lauper ha fatto scuola). Quello che in qualche modo ha preso il suo testimone soprattutto per ragioni di militanza a fianco di Davis stesso è Herbie Hancock. Che nel 1996 tira fuori un disco da lui concepito come composto da nuovi standard. E spulciando tra i brani che ti trovi? All Apologies dei Nirvana, resa in maniera cristallina, tanto da sembrare un brano di Vince Guaraldi (ricordate il tema di Linus e Lucy nel cartoon dei Peanuts?). Hancock tira fuori tutto lo spirito gospel del pezzo, riuscendo nella missione impossibile di rendere il jazz e il grunge due sposi promessi.

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