Cinque anni dopo la rivoluzione dello streaming in classifica, a che punto siamo? | Rolling Stone Italia
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Cinque anni dopo la rivoluzione dello streaming in classifica, a che punto siamo?

Nell’estate 2017 il numero di stream ha concorso per la prima volta a determinare le posizioni nelle classifiche italiane, una ricalibratura che ha accelerato tendenze in atto e ha avuto conseguenze non del tutto previste

Cinque anni dopo la rivoluzione dello streaming in classifica, a che punto siamo?

Foto: Brett Jordan/Unsplash

Quest’estate si celebra, quasi inosservato, un piccolo grande anniversario: quello della “rivoluzione” delle classifiche di vendita italiane, che dal luglio del 2017 iniziarono a includere i dati dello streaming (anche gratuito, all’epoca) accanto a quelli dei CD. Il vecchio compact disc a dire il vero, anche grazie agli instore tour (per gli amici: firmacopie) aveva tenuto fino al 2016, anno in cui il 54% del mercato era ancora “fisico”.

Poi, nel primo semestre del 2017 il repentino “calo del 17% dopo due anni di crescita costante” testimoniato dalla FIMI indusse l’ente cui fanno capo le case discografiche nazionali a cambiare sistema, e imitare (per l’ennesima volta) americani e britannici. Questo, anche per comunicare al mondo l’idea di un comparto che anche a livello globale si era finalmente messo alle spalle la grande crisi di inizio secolo. In pratica, bisognava trovare il modo di distribuire dischi di platino a pioggia, perché si sa: tanto successo implica tanta bellezza e tanta salute.

Guardando indietro, cosa cambiò veramente in quel luglio 2017? Il ricalibramento delle classifiche ebbe un effetto acceleratore di tendenze già in atto. E tuttavia, ha portato conseguenze non del tutto previste.

Il rock non sparì da una settimana all’altra – ma il suo pubblico, vedendolo così confinato nell’irrilevanza, si immalinconì e smise definitivamente di comprare i dischi (anche se non di andare ai concerti dei venerabili maestri). Il primo album ad andare in testa nel nuovo corso fu Gentleman di Gué Pequeno, ma per lui non era una prima volta; certo, fu il primo a ritrovarsi 7 “singoli” in top 30, roba che nemmeno i Beatles ai loro bei tempi. Ci furono 40 (!) nuove entrate nella classifica degli album e l’hip hop italiano guadagnò posizioni a occhio nudo. Il rap italiano prese possesso delle charts: a fine anno, quattro titoli rap sarebbero stati tra i 10 album più venduti del 2017, contro zero del 2016 (miglior risultato, un n. 13 per Salmo). Nel 2018, la quota sarebbe rimasta la stessa (4 su 10), l’anno scorso sono stati 5 – e non contiamo l’album più venduto, quello di Rkomi, che ha il doppio passaporto rap e pop.

Di sicuro, quello che nel luglio 2017 non venne registrato immediatamente fu il ritorno dell’ostilità italiana verso la musica internazionale, oggi paragonabile a quella dell’epoca di Nilla Pizzi e Claudio Villa. Anzi, a conti fatti quell’anno si verificò un fenomeno che oggi risulterebbe straordinario: due stranieri in testa alle classifiche annuali, quella degli album (Ed Sheeran con ÷) e dei singoli (Luis Fonsi, con Despacito). Certo, il fatto che entrambi fossero usciti all’inizio dell’anno diede un contributo.

In compenso, già da quel 2017 il pubblico dello streaming iniziò a manifestare la sua aperta idiosincrasia per il sesso femminile: l’unica donna nella top 20 annuale (e piuttosto in fondo), fu Cristina D’Avena, peraltro con un album di duetti (l’anno precedente erano state 4, guidate da Alessandra Amoroso, n. 5. E non stiamo contando Mina, al n. 1 ma non da sola: con Celentano), e quasi totalmente grazie alle vendite dei compact.

Quel che era difficile da cogliere all’epoca e risulta più chiaro confrontando le charts è il ruolo avuto dal nuovo sistema nel trasformare l’Italia in Tormentonia. Nel luglio 2016, le canzoni strettamente estive erano un numero ridotto: a fine mese, al n. 1 si trovava Cheap Thrills di Sia (feat. Sean Paul), e lasciando in sospeso la nazionalità di Sofia di Alvaro Soler, solo due brani italiani (per di più, provenienti dalla stessa parrocchia, Fedez, J-Ax, Rovazzi) si trovavano in top 10. Nel luglio 2017, però, l’esercito del bagnasciuga invase una nazione festante, con otto hit estive tricolori. Difficile non sospettare che il passaggio da una classifica basata su brani che bisognava realmente acquistare (con il download) a una che conteggiava ascolti gratuiti o inclusi nel pacchetto da 9,99 euro mensili non abbia fatto la fortuna di un genere i cui maggiori proventi peraltro non vengono dal pubblico ma in gran parte dai prodotti e dalle località turistiche esplicitamente pubblicizzate nei video degli ispiratissimi artisti. Però che la hit estiva incoronata da quell’estate fosse proprio Senza pagare di Fedez e J-Ax è una coincidenza emblematica.

In questi cinque anni il sistema è stato aggiustato in diversi modi, per esempio escludendo gli streaming gratuiti e aumentando le soglie per i dischi di platino, che erano diventati troppo facili da conseguire e ostentare con tracotanza sui social e nei comunicati esaltati degli uffici stampa. Ma rimane ancora fuori dalla festicciola YouTube, che è il mezzo tramite il quale la maggior parte degli italiani ascolta musica e le cui classifiche, meno dominate dal rap, fanno supporre un pubblico più adulto e con una quota femminile più consistente. In compenso è un’utenza ancora più disinteressata all’album, che forse sarà la vittima della prossima rivoluzione. Già oggi, in top 10 ci sono album non nuovi o apertamente vecchi: il più recente è Harry’s House di Harry Styles, uscito due mesi fa, mentre il più antico (al n.2 ) è Taxi Driver di Rkomi, uscito nella primavera del 2021.

È difficile dire quanto le nuove classifiche FIMI abbiano testimoniato e quanto abbiano invece incoraggiato un cambiamento all’interno della grande fabbrica di prodotti cantati, spingendo con decisione verso la produzione di singoli chewing-gum. Così come non è facile quantificare cosa sarebbe successo se il Coronavirus non avesse vibrato un colpo decisivo al compact disc precludendo i firmacopie, e danneggiando molti di quegli artisti che si esprimevano meglio su un album in compact disc che non a colpi di singoli da playlist (pieni di featuring studiati a tavolino tra gente che se possibile, non si incontra nemmeno in studio). Molto probabilmente il consumo di musica sarebbe ugualmente andato verso una musica consumabilissima, ma forse non con la stessa velocità. Le classifiche e le strategie delle tre multinazionali del disco sono strettamente imparentate: come agenti segreti (ma ancora più segreti), gli algoritmi hanno lavorato prima con discrezione, poi con energico vigore per indirizzare gli italiani sul prodotto canzonettoso, e la joint venture Spotify-Sanremo di quest’anno ha decretato un consenso putiniano per gli ineffabili ritornelli della Sacra Kermesse. Nel 2017, Occidentali’s karma di Francesco Gabbani era entrata nella top 10 annuale al n. 6, e il ritorno di una canzone sanremese nella parte nobile della classifica era stato un evento epocale. Alla fine del 2022 è facile prevedere una top ten dei singoli equamente divisa tra canzonette per la spiaggia e canzonette dalla spiaggia – quella sanremese. Sono questi i generi premiati da cinque anni di streaming. Quanto alla top ten degli album, sarà una gara di popolarità tra idoli dei teenager.

Quello su cui potremmo mettere la mano sul fuoco (per un paio di secondi, perlomeno) è che saranno tutti rigorosamente tricolori, un po’ come il partito in cima ai sondaggi elettorali. A quanto pare, figli e genitori hanno qualcosa in comune.