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Chiedi chi erano i Bronski Beat

Le icone gay facevano ballare e basta, loro erano militanti e battaglieri. Ora che è morto Steve Bronski è bene ricordare l'importanza di un gruppo che ci ha insegnato che a volte la fuga è una vittoria

Chiedi chi erano i Bronski Beat

I Bronski Beat nel loro appartamento di Brixton nel 1984. Da sinistra, Jimmy Somerville, Larry Steinbachek, Steve Bronski

Foto: David Corio/Getty Images

Ci sono momenti in cui senti di venire catapultato indietro nel tempo. La sensazione è stata chiarissima dopo la notizia della morte il 7 dicembre di Steve Bronski, co-fondatore dei grandissimi Bronski Beat. Dopo la scomparsa dell’altro membro storico Larry Steinbachek nel 2016, Bronki aveva portato avanti il gruppo fino alla morte, non arrendendosi ai continui cambi di frontman e considerando la band un’entità a sé stante che sopravviveva ai suoi stessi membri.

Spiegare cosa siano stati i Bronski Beat negli anni ’80 a un ragazzo di oggi è un po’ come spiegare Elvis negli anni ’50: hanno avuto un tale impatto da cambiare le prospettive, i comportamenti e soprattutto, come è stato scritto in questi giorni, le vite di molti. Era musica che già aveva il sapore del classico senza tempo. Si trattava sì di techno pop spruzzato di Hi-NRG, ma era anche venato di jazz, profumava di localini loschi con strip incluso e aveva in sé una forte carica r&b all’epoca forse eguagliata solo dagli Yazoo. Perché i tre – Bronski, Steinbachek e il cantante Jimmy Somerville – erano grandi attivisti proto-LGBT, gay dichiarati, militanti e nella loro musica portavano le problematiche di una condizione lontana dall’essere riconosciuta.

Il loro attacco alla cultura di massa era frontale: prima di tutto rifiutavano la musica mainstream gay, il cui suono e i cui contenuti per i BB erano innocui. Invece di pensare alla festa e basta, loro facevano politica, parlavano di pestaggi ai danni degli omosessuali, di diritti civili, di rapporti tra uomini adulti e molto più giovani demonizzati. Se la prendevano con la Bibbia (l’eccezionale cover di Ain’t Necessarily So), mandavano affanculo Donna Summer, rea di aver espresso pareri inguriosi sui gay (nonostante fosse considerata una icona gay), attraverso una cover oltraggiosa di I Feel Love ospitando Marc Almond dei Soft Cell, spostando il significato verso ammiccamenti omo.

La voce in falsetto di Jimmy Somerville ha segnato tutto questo primo periodo: ne era anche il volto, il simbolo, la sua fisicità delicata nascondeva una voce da far tremare Aretha Franklin in quanto a soul. Avrebbero dovuto entrare nella scuderia di Trevor Horn e Paul Morley, la ZTT che all’epoca aveva sotto contratto i Frankie Goes to Hollywood. Li avrebbe attesi una campagna marketing con magliette con la scritta “Queer” e altri mezzucci che servivano a estetizzare un concetto già ampiamente espresso nella loro pratica politica e farne quindi mero mercato. La band preferì la libertà di decisione alle manette dorate di Trevor Horn. E infatti il primo album The Age of Consent uscito nel 1984 va dritto al punto: il titolo è preso dalla discriminatoria legge che in Inghilterra all’epoca impediva a chi aveva meno di 21 anni di avere rapporti sessiali con persone dello stesso sesso. La disobbedienza veniva pagata con la galera.

La copertina geometrica rimandava a quelle di generico dance pop del periodo, un quadrato giallo, un cerchio blu e un triangolo rosa. Sul retro, il triangolo campeggiava in una posizione diversa sull’inquietante sfondo nero rivelando che si trattava del simbolo usato dai nazisti nei campi di concentramento per indicare gli omosessuali. Un pugno allo stomaco per chi conosceva un po’ di storia, anche se la gran parte dei consumatori non si accorse del messaggio, mascherato anche nella apparentemente spensierata copertina del singolo Smalltown Boy. Nella busta interna dell’album erano stampate le leggi in materia di sesso omossessuale nel mondo, rivelando in quali Paesi c’era la galera e addirittura la pena di morte per i trasgressori. L’Inghilterra era sotto gli standard europei, tanto che già prima dei Bronski erano già stati i New Order a denunciarlo con il brano Age of Consent, contenuto in Power Corruption and Lies. Negli Stati Uniti la lista delle varie “età del consenso” venne eliminata.

Nessun boicottaggio poteva fermare quel capolavoro autobiografico che è Smalltown Boy, perla di algido synth pop su cui aleggia il fantasma della Billie Holiday di Strange Fruit. Il ragazzo di provincia costretto a lasciare casa in quanto vessato da gang omofobe era Somerville, che dalla Scozia infestata di skinhead antigay si era trasferito alla più friendly Londra, trovando finalmente la propria dimensione.

Diretto da Bernard Rose, che verrà poi strapremiato per film horror come Candyman, il video è uno dei simboli della MTV anni ’80. Narra appunto di un ragazzo che viene messo in trappola da una banda di omofobi, pestato a sangue e costretto a cambiare città. A parte la trama semplice, sono i particolari del video a stupire: agli sguardi di Somerville che tenta di capire se il teddy boy di cui è infatuato sia gay e quest’ultimo risponde come se davvero lo fosse, e probabilmente lo è. Per rimuovere le proprie vere inclinazioni, aizza la gang contro Jimmy. La partenza del cantante non ha il sapore della sconfitta: ad accompagnarlo nella nuova vita arrivano due amici, gli altri Bronski Beat. Negli occhi del giovane rimane l’allucinazione delle violenze subite, trasformate in spinta propulsiva per cambiare il mondo.

Ricordo nitidamente quando a 9 anni vidi questo piccolo capolavoro in una televisione a colori nuova di zecca, con le prime trasmissioni di MTV in Italia, e fu un’epifania. Il grande pregio di Smalltown Boy è che non parla solo alla comunità gay, ma chiunque sia dotato di sensibilità. Il desiderio di ricominciare altrove, di fuggire i soprusi, di emanciparsi dai luoghi comuni era comune a tanti teenager che negli anni ’80 vivevano alla periferia dell’impero e che non vedevano l’ora di crescere come individui.

Paradossalmente, questo fu uno dei motivi per cui il giocattolo Bronski Beat si ruppe: continuare sulla linea politicizzata o no? Radicalizzarsi o cedere alla musica per tutti? Somerville fondò i Communards che tentarono di seguire una linea radical nell’approccio al mercato con una formazione dal vivo quasi all female, spiazzando le aspettative e spostandosi su un sound più classico. I Bronski Beat trovarono un nuovo cantante in Jon Jon e spinsero l’acceleratore dei bpm diventando sempre più fautori di un’elettronica Hi-NRG sparatissima, trovando un timido successo.

Sebbene musicalmente ci si estremizzi un minimo nell’incastro delle sequenze, nel secondo album Truthdare Doubledare siamo in territorio più pop, soprattutti nei testi che non arrivano al sublime del disco precedente, toccando poche volte temi importanti (come Punishment for Love, che sembra un’outtake di The Age of Consent, oppure la title track contro la chiesa o l’arrivo dell’Aids in Dr. John). Nel disco si racconta l’amore partendo dal particolare e arrivando all’universale: una canzone d’amore non ha sesso, né età, è la cosa più fluida possibile, abbatte ogni barriera. In questo senso Truthdare Doubledare è il desiderio che ancora rimane cristallizzato di quella Age of Reason che porterà Steve Bronski a rivedere The Age of Consent nel 2017 inserendo un brano dedicato all’assassinio della trans brasiliana Dandara dos Santos: un’età in cui finalmente ci si possa amare liberamente, senza più discriminazioni.

In un’era come questa che sembra riportarci al periodo oscurantista, paranoico e isterico dell’Aids, i Bronski Beat rappresentano ancora un invito a fuggire da questo mondo infame: “run away, turn away, run away, turn away, run away”.

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