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Che Natale sarebbe senza i Beatles?

Riascoltiamo i sette dischi natalizi pubblicati per il fan club tra il 1963 e il 1969. Assurdità, genialate, risate, allucinazioni, grandi pezzi: è bello sentire John, Paul, George e Ringo anche quando cazzeggiano

Che Natale sarebbe senza i Beatles?

'Another Beatles Christmas Show'. Londra, 23 dicembre 1964

Foto: Daily Mirror/Mirrorpix via Getty Images

Prima di Natale è arrivato un regalo gradito dall’intero pianeta: la serie documentario di Peter Jackson sui Beatles Get Back, che è ancora sulla bocca di tutti. Non molti sanno che i Fab Four tenevano particolarmente al Natale, soprattutto ne approfittavano per ringraziare i loro fan registrando dei flexi di augurio che venivano spediti ai membri dei fan club inglese e americano. Se all’inizio i dischi di Natale sono un modo per ricambiare affetto e dare un regalo esclusivo, un dopolavoro senza pretese, nel giro di pochi anni si trasformano in un laboratorio dove sfogare la tensione delle session di registrazione degli album ufficiali, un modo per comporre al volo brani estemporanei, per allenarsi al cut and paste, per approfondire le tecniche in sala, per prodursi in reading stralunati, insomma per fare un po’ quello che la disciplina dei Beatles in studio (per quanto sopra le righe) non prevedeva e permetteva essendo George Martin piuttosto ligio. Nei sette flexi che vanno dal ’63 al ’69 vediamo un’evoluzione della band che forse neanche il documentario di Jackson fa emergere pienamente: tutto questo concentrato in una durata di una manciata di minuti l’uno.

Allo scioglimento dei Beatles e poco dopo l’uscita di Let It Be, i flexi vennero raccolti nell’ album From Then to You, come un ultimo commiato dei fab four che finalmente faceva felici i completisti e gli assetati di materiale inedito. Solo nel 2017 verranno rimasterizzati e pubblicati nei loro formati sette pollici originali in un cofanetto chiamato The Christmas Records.

“The Beatles Christmas Record” (1963)

Il primo disco di Natale dei Beatles, reduci dal successo di Please Please Me e di With The Beatles è all’insegna dell’informalità più assoluta e della carica umoristica tipica del primo periodo dei quattro. Tra fischiettate, sketch improvvisati (una divertentissima decostruzione nonsense di Happy Birthday che diventa Happy Christmas), scampanellii improvvisi qua e là, qualcuno che abbaia e urlacci festaioli, i Beatles parlano singolarmente disturbandosi a vicenda, a ruota libera. La verità è che invece il tutto era stato scritto dal loro pr Tony Barrow, che in qualche modo spingeva per questa produzione e se la ritroverà chiaramente ribaltata. Difficile, infatti, che i Beatles stessero composti ed educati. Ecco quindi una versione sopra le righe e burlona del classico Good King Wenceslas suonata accompagnandosi con un organetto, controcanti in falsetto, vibrati beffardi, e completamente fuori fase: ne fanno svariate versioni differenti, anche in stile crooner. Per finire con una versione caciarona a cappella dello standard natalizio Rudolph the Red Nosed Reindeer che diventa Rudolph the Red Nosed Ringo, tra risate e prese per il culo. Da catalogare alla voce non-music, certo, ma già qui ci sono i semi di un approccio al progetto molto più arty e sostanzioso. Tanto che proprio qui i Fab Four, nella voce di McCartney, confessano e profetizzano che sì, gli piace suonare dal vivo ma la cosa che gli interessa di più è stare in studio a fare dischi…

“Another Beatles Christmas Record” (1964)

Il secondo 45 giri di Natale è introdotto da uno scalpiccìo di piedi che marciano verso l’ascoltatore per poi sfociare in una versione di Jingle Bells completamente fuori melone, con Paul al piano, voci sotto botta, l’inserimento senza senso di un kazoo e di un’armonica a bocca, tutto completamente a caso tanto che appena Paul inizia a intonare la canzone un machete ideale la sega facendo partire i messaggi di ringraziamento ai fan, ovviamente con le solite interruzioni reciproche. Stavolta i quattro ci tengono a far capire che è tutto già scritto prima e fanno di tutto per sabotare il testo: probabilmente si sono fatti un mega cannone (si sente che tossiscono), forse neanche lo fanno apposta, semplicemente non riescono a leggere correttamente. Si sente anche lo sfogliare delle pagine insieme a suoni di qualcosa che cade e si rompe, insomma è tutto impostato su un cazzeggio, tra risate fomentate dall’erba e storpiature nonsense. Sembrano davvero un quartetto di scoppiati: lo dimostra il finale clamoroso in cui cantano sguaiatamente il tradizionale Oh Can You Wash Your Father’s Shirt? per poi concludere urlando «happy christmas» e frasi incomprensibili, fino allo scalpiccìo iniziale, avvolti lentamente da un riverbero, come se si allontanassero correndo. Un finale che non può non ricordare l’embrione del Sgt. Pepper’s Inner Groove, cioè il lock groove che si trova alla fine di Sgt Pepper’s e che ha fatto impazzire chi lo ascoltava alla ricerca di chissà quale messaggio nascosto. Ma siamo nel 1964 e i Beatles devono ancora scoprire se stessi.

“The Beatles Third Christmas Record” (1965)

Siamo nel 1965 e dopo l’exploit di Help! i Beatles cominciano a cambiare registro con Rubber Soul. L’ uso di nuovi suoni, nuovi metodi compositivi e stranezze in studio ne fanno un favoloso disco di frontiera. Stavolta non è solo Barrow a scrivere i testi del messaggio (che tra l’altro per motivi di ritardo nella stampa non arriverà ai fan statunitensi), anche i Beatles sono accreditati. Il disco inizia con una versione a cappella di Yesterday a dir poco allucinante e armonizzata in maniera improponibile e proto slacker. A condire il tradizionale speech ci sono anche brevissime composizioni inedite. Lennon si accompagna con la chitarra cantando Happy Christmas to Ya List’nas, una specie di ballata folk dal testo che è puro jabberwocky, e un poema cantato dal titolo Christmas Comes, But Once a Year, che è una ballata nonsense tra inglese arcaico e tipico surrealismo lennoniano, e una curiosa Christmas Day tra chitarra acustica e fischio, che nasce dalla coda dell’ennesima versione delirante di Yesterday. Il resto sono cover, un medley del tradizionale Auld Lang Syne in una versione vocalmente caricaturale come fosse un classico western da parte di Lennon. Lo mescola a Eve of Destruction di Barry McGuire ( con un clamoroso riferimento polemico alla guerra del Vietnam) e un breve accenno ai Four Tops di It’s the Same Old Song. Chiaramente tutto improvvisato al momento, uscendo dalla scena sonora ancora una volta con un riverbero profondissimo e inaspettato, come a testare le possibilità dello studio. È interessante come Harrison si preoccupi di non cantare roba col copyright quando fino a poco tempo prima i Beatles avevano in repertorio anche cover di altri. Ma i tempi sono cambiati, e il prossimo disco di Natale lo dimostrerà alla stragrande.

“Pantomime. Everywhere Is Christmas” (1966)

A dirla tutta, il disco natalizio del 1965 avrebbe dovuto prendere un’altra piega. L’idea era infatti quella di dargli la forma di una finta radio pirata, Radio Beatle People, nella quale inserire sketch di un certo livello con effetti sonori e altre amenità. Riascoltando i nastri la band pensò che l’ambizioso progetto – forse anche a causa di una disponibilità tecnica ancora insufficiente – fosse una porcata, tornando quindi a più miti consigli. Nel 1966 invece la situazione è diversa; i quattro sono reduci dalla registrazione di Strawberry Fields Forever, hanno trovato la quadra per aprire il loro subconscio e farlo sbocciare in studio. Ragion per cui Pantomime è quasi un antipasto di Sgt. Pepper’s omogeneizzato in sette minuti. Paul conduce i giochi, disegnando anche la copertina che sottolinea l’avvenuta mutazione in una macchina ludico/psichedelica imbattibile. Alla produzione c’è George Martin, un particolare che alza subito l’asticella: scelto non solo per l’ovvio legame con i quattro, ma soprattutto per la sua esperienza con i comedy records tra i quali quelli dei Goons di Peter Sellers. Ci troviamo appunto in una pantomima, genre che mischia pezzi musicali, favole popolari e siparietti di commedia, chiaramente rivisto e corretto in chiave beatlesiana. All’interno ci sono dei numeri musicali che, per quanto brevissimi, sono sorprendenti. Everywhere Is Christmas, cantata in coro, guidata da Ringo e suonata da Paul al piano, è un vaudeville che non avrebbe sfigurato come B side e introduce delle storie surreali che skippano di palo in frasca da un uomo che conduce un coretto in Corsica (con il brano appunto corale Orowayna, che sarebbe stato bene dentro a Magical Mystery Tour) fino a due scozzesi che masticano del raro formaggio sulle alpi svizzere (con tanto di deliranti yodel effettati) alla storiella Podgy the Bear and Jasper introdotta da un effetto sonoro che sembra un orso elettronico. Gli effetti sonori csono caotici, assurdi e a volte rimandano a Yellow Submarine, una scena sonora scivola in un’altra in maniera anche improvvisa, con dei fade allucinogeni che sono la cartina di tornasole dello stato mentale dei quattro. Verso la fine ascoltiamo un altro inedito breve, Please Don’t Bring Your Banjo Back, un brano tra il licenzioso e il divertito che sembra il fratello maggiore di All Together Now, la famosa roba da “vecchie zie” di Paul, le quali però qui indugiano in tazze di tè “potenziate”, Il tutto si chiude come è iniziato, Everywhere Is Christmas e l’uroboro sonoro che richiama Sgt. Pepper’s. Ma il meglio della produzione natalizia dei baronetti ancora deve arrivare…

“Christmas Time Is Here Again” (1967)

Il 1967 natalizio dei Beatles si apre con una produzione di George Martin che fa sul serio. Già dalla copertina elaboratissima, un collage opera di Lennon-Starr, si strizza l’ occhio a Sgt. Pepper’s, ma è solo nell’incipit di Lennon, quell’“interplanetary remix, take 444!” che stiamo già andando oltre. Christmas Time (Is Here Again!) è un brano natalizio capolavoro, uno di quelli che ti si stampano nella corteccia cerebrale e ti rendono stupido. Potrebbe essere considerato un mantra rock’n’roll, ma è un vero e proprio earworm pop astutamente seminato di piccole varianti, irresistibile come ogni canzone degna di questo nome. Il pezzo viene suonato in maniera alternata per dividere le varie scene narrative di una storia ancora più assurdista rispetto al passato. I Beatles qui impersonano un gruppo fittizio, i Ravellers, che ottengono un’audizione per la BBC e si esibiscono in un numero di tip tap completamente scoordinato e moltiplicato per cento su una base di pianoforte preso a manate. Un riverbero profondissimo e psichedelico invade tutto il campo dell’audizione, con tanto di applausi che finiscono in un jingle pubblicitario geniale quanto senza logica (Wonderlust for Your Trousers, che un giorno forse Mc Cartney ricorderà per comporre la sua Wanderlust), un campione d’orchestra e risate maniacali disintegrate da un eco folle. Ancora applausi e organetti malati annunciano il brano dei Ravellers – nella storiella oramai sdoganati alle masse e pronti per cantare a scopo benefico – che odora degli amici Bonzo Dog Doo Dah Band (a cui i Beatles si ispirarono per questo flexi in quanto curavano degli speciali sulla BBC piuttosto allucinati, non perdendo occasione per perculare anche i Fab Four): Plenty of Jar Jam è un brano che sembra venire dalla profondità delle coscienze drogate dei Beatles, come delle vocine nella testa che non ti lasciano più. Le stesse vocine dei Beatles che ridono come in un trip di LSD dopo effetti sonori inauditi a cura di George Martin, che addirittura fa capolino a fare gli auguri. Chiude il delirio un poema “carroliano” di Lennon, recitato su un organetto che suona la solita Auld Lang Syne e una tonnellata di white noise prodotto dal Moog di Harrison a imitare una piccola tempesta di neve. Nella versione ufficiale di Christmas Time Is Here Again presente nel lato B di Free As a Bird il poema fa parte integrante del pezzo, chiudendolo in grande stile. Ovviamente uno stile che oramai è aldilà del bene e del male, va anche oltre il marchio Beatles, che sta ingabbiando delle individualità ben precise.

“The Beatles 1968 Christmas Record” (1968)

Nel pieno del White Album i quattro registrano ognuno per sé e Dio per tutti, a volte neanche tutti nella stessa stanza. Da questo punto di vista il precedente disco di Natale è forse l’ultimo in cui la band può definirsi tale, ma questa strenna del 1968 rivela che in fondo non è così importante. Trattasi infatti di un disco che sarebbe potuto uscire da qualche mente malata del Fort Thunder nella Providence degli anni 2000. La copertina sembra quasi uscita da un incubo di Brian Chippendale dei Lightning Bolt, e il contenuto è proto noise tanto che è sospetta la possibile fascinazione su certi act del genere, soprattutto americani. I fan americani erano rimasti a bocca asciutta per ben quattro anni, esclusi da questi auguri, trasformando l’uscita in un vero e proprio evento. Al dj Kenny Everett viene affidato il compito di tagliare e cucire una serie di contributi individuali per trasformarli in un collage sonoro in qualche modo coerente: a parte la svolta artistica dei quattro, avevano un bel po’ di beghe da risolvere e non avrebbero potuto comunque fare altrimenti. Ma l’idea è dirompente e avvicina il concept a esperimenti di musica concreta in pieno stile Zapple. La durata si allunga di un minuto abbondante e si inzia subito con riccioli di echo che accompagnano i passi lo-fi di Ringo Starr pronto a fare gli auguri. Ed ecco la base di piano di Ob-la-di Ob-la-da sulla quale viene arbitrariamente sovrapposto un altro pianoforte che suona un rivolto su un accordo che non c’entra un cazzo, ma introduce il brano inedito ed ipnotico Happy Christmas, Happy New Year in cui McCartney approfitta per fare gli auguri anche di Pasqua. Impreziosito da una specie di cascata di mallet elettronici, è un pezzo spiazzante che contiene anche campioni d’opera infilati brutalmente in mezzo alla canzone. L’autocitazione dei materiali è evidente nel riproporre sia la marcia del secondo flexi sia il tip tap dei Ravellers, messi come a confronto, e la stessa cosa vale per una versione a 45 giri di Helter Skelter che precede un field recording forse pensato per Glass Onion e che viene velocemente mangiato da un delay talmente potente da sembrare un looper di oggi. Segue un poema di Lennon, Jock and Yono, recitato su un tappeto di pianoforte di Yoko Ono e flauti casuali che è assolutamente autobiografico rispetto alle loro peripezie con arresti per droga e via dicendo. Poi improvvisamente una scarica di adrenalina da un synth modulare rubato dai pionieri elettronici Perry and Kingsley sembra quello di Harrison che infatti appare sotto un caos primordiale di campionamenti. Ringo si sdoppia in uno sketch alla cabina telefonica pieno di effetti sonori improvvisi. Riappare il brano di Paul stavolta farcito di un chorus di una potenza lisergica incredibile, e Lennon che recita un altro poema, Once Upon a Toon Table, anche qui con una voce mangiata dal chorus. Improvvisamente Harrison introduce il grandissimo Tiny Tim che interpreta Nowhere Man in maniera allucinante, per ukulele e falsetto, chiudendo con gli applausi e una breve orchestrazione un flexi assolutamente folgorato e l’ultimo assemblato da una vera band.

“The Beatles Seventh Christmas Record” (1969)

A questo punto i Beatles non esistono più, ma vogliono comunque lasciare un pensiero ai loro fan prima di sparire. Ai comandi c’è ancora Everett, e i messaggi individuali vengono cuciti su misura per la nostalgia degli estimatori. Lennon apre i giochi intervistato da Yoko Ono nella loro lussuosa abitazione di Tittenhurst Park, mentre il nastro magnetico si arriccia verso un taglia e cuci di voci dei quattro, quella di Harrison in particolare viene loopata per aprire la porta a un inedito di Ringo Starr via chitarra, per pubblicizzare il film The Magic Christian in cui recitava da protagonista. Lennon e Ono procedono giocando a «cosa mi porterà Babbo Natale?» e Paul McCartney suona un pezzone originale, This Is to Wish You a Merry, Merry Christmas che sembra uscito direttamente dalle session weird folk di McCartney 1 per la sua chitarra imbevuta di vibrato. Lennon e Ono continuano il loro dialogo, sotto il rumore delle foglie calpestate, fino a che fa capolino una canzone, Happy Christmas, cantata da entrambi. Forse un prodromo della futura Happy Xmas (War Is Over)? Molto probabile. Qui però siamo in zona free form tra il blues e il comedian folk che però si sviluppa su toni inquietanti. Tra auto campionamenti di The End e voci accelerate e pitchate allo spasimo e sovrapposizione di musica liturgica celestiale tra risa sataniche, il nuovo disco di Natale dei Beatles sembra finire in maniera grottesca e poco rassicurante con un ultimo colpo di coda assurdista. Sulla linea, in fondo, di come andarono le cose con la band.

Fosse stato un altro gruppo probabilmente potremmo archiviare queste registrazioni come roba futile e priva di senso, ma con i Beatles non funziona così: anche un microbo sonoro può influenzare il futuro della musica, come questi dischi hanno fatto (ricordiamo gran parte dell’alternative anni 2000). E anche se non tutti ve lo confesseranno, anche quello del marketing (ricordate Some Product dei Sex Pistols? Ecco, ora sapete da chi hanno preso). Lasciamoci dunque augurare buon Natale da questi quattro perenni Santa Claus del pop: con loro “Christmas time is here again”, non ci sono dubbi.

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