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Che meraviglioso casino è la musica di William Burroughs

La rockstar della Beat Generation non capiva granché di musica, eppure quando era ormai un guru della drug culture ha inciso dischi e canzoni con Tom Waits, Ministry, Laurie Anderson, R.E.M., Sonic Youth, Kurt Cobain

«Non ne so molto di musica», appuntava William Seward Burroughs nei suoi diari, descrivendo Paul McCartney, in studio, intento a lavorare a un pezzo nuovo che sarebbe diventato Eleanor Rigby, «ma si vedeva che sapeva ciò che stava facendo. Era molto simpatico e affabile. Un bel giovanotto che lavorava sodo».

Una sincerità così disarmante e candida potrebbe essere quasi scambiata per modestia e understatement, ma in realtà era proprio così: il padre dei ribelli tossici, l’antipapa della Beat Generation, il fuorilegge della letteratura, il tossico per eccellenza, pur avendo segnato e influenzato schiere di rocker di ogni corrente non sapeva un granché di musica rock e pop. E se desiderava ascoltare qualcosa, preferiva il jazz prebellico di Lester Young e Louis Armstrong insieme agli Hot Five, con cui si era formato (Burroughs era classe 1914). Oppure i valzer viennesi e la musica marocchina.

Non sembrò provare chissà che entusiasmo per il rock neppure quando, per fare qualche dollaro facile, accettò l’incarico (per il magazine Crawdaddy, numero di giugno 1975) d’intervistare Jimmy Page in un dopo concerto degli Zeppelin. Scrisse banalmente, facendo il suo compitino per incassare, che «i musicisti sul palco facevano del loro meglio ed erano molto preparati» e riempì righe cercando strani paralleli con la musica marocchina – in compenso fece una chiacchierata interessante con Page, dopo avere scoperto la passione comune per la magia e l’esoterismo. Musica? Magari un’altra volta.

Nonostante questo, Burroughs è stato lui stesso una specie di rockstar (sempre rigorosamente in completo, giacca, cravatta e Borsalino) e ha incontrato tanti musicisti blasonati che lo consideravano un guru a cui ispirarsi. Per intenderci, gli Steely Dan prendono la loro ragione sociale da un dildo strap-on che spruzza latte, descritto ne Il pasto nudo; i Soft Machine si battezzano usando il titolo del suo romanzo omonimo del 1961. I Thin White Rope si chiamano così dopo aver rubato la locuzione che l’autore utilizza per indicare l’eiaculazione maschile, sempre ne Il pasto nudo. E, per restare in area Beatles, troviamo Burroughs immortalato sulla copertina di Sgt. Pepper’s, a fianco della tragica superdiva Marilyn Monroe.

William notoriamente amava frequentare musicisti, anche se erano molto più giovani e con un background radicalmente diverso dal suo. Condivideva con loro l’atteggiamento contro le regole, la ribellione, la passione per gli estremi e, in più, loro erano un ottimo veicolo per arrivare a nuove fasce di pubblico. Per fare qualche esempio, fra i suoi fan più devoti troviamo Genesis P. Orridge (Psychic TV), in contatto con lui fin dai primi anni ’60 e affascinato dalla tecnica del cut-up del testo. David Bowie amava Burroughs (si incontrarono di persona nel 1974 e Rolling Stone documentò l’evento con un servizio) e il cut-up, che applicò con successo sempre maggiore nella scrittura dei testi. Mick Jagger e Patti Smith da metà anni ’70 furono spesso suoi ospiti nel Bunker, l’abitazione praticamente fortificata in cui viveva quasi da eremita, a New York. Poi i punk si gettarono a capofitto nell’estetica di Junkie e de Il pasto nudo, contribuendo a rinvigorire il legame con la musica e la controcultura: fra gli amici/fan che lo andarono a trovare negli anni ci sono i nomi di Sonic Youth, Henry Rollins, R.E.M., Kurt Cobain.

Eppure fino al tramonto degli anni ’80, cioè quando Burroughs era ormai anziano (è mancato nel 1997 a 83 anni), lo scambio con il mondo della musica si era fermato a livello ideale e di ispirazione. Solo a partire da allora ha iniziato a collaborare con una certa regolarità a dischi e canzoni – in precedenza aveva inciso in pratica solo reading e spoken word in cui il suono e/o la musica, nella migliore delle ipotesi, erano elementi del tutto secondari, oppure assenti.

La musica di William Burroughs, dunque, è una faccenda correlata all’ultima parte della sua vita. Possiamo identificare un primo timido inizio della liaison fra “Il Prete” e il rock nella sua partecipazione al brano Sharkey’s Night, nell’album Mister Heartbreak (1984) di Laurie Anderson, che sarebbe poi divenuta la moglie di Lou Reed, altro fan dichiarato di Burroughs. Qui lo scrittore presta la voce, che si amalgama a un tappeto sonoro tribale/elettronico. Ma il vero turning point arriva nel 1989, l’anno in cui i Material di Bill Laswell pubblicano l’album Seven Souls, un viaggio nei territori inesplorati della fusione fra funk, hip hop e musica del Medio Oriente. Il disco contiene diversi brani in cui Burroughs legge frammenti del suo romanzo The Western Lands del 1987 accompagnato dalla band.

A un anno di distanza – nel 1990 – arriva sul mercato un intero album musicale griffato William Burroughs: Dead City Radio, su etichetta Island. La formula è quella più congeniale all’autore: lui legge, una schiera di amici e fan gli procurano un tappeto sonoro coerente. Fra i nomi coinvolti troviamo pesi massimi come John Cale, Sonic Youth, Donald Fagen (Steely Dan), Lenny Pickett (Tower of Power) e Chris Stein (Blondie); il risultato è una manciata di pezzi godibili, a tratti accessibili anche per i non iniziati. E, a questo punto, sembra aprirsi la diga, che porta a una serie – breve ma intensa – di cammei musicali nei tre anni seguenti.

È del 1992 la congiunzione che porta alla temporanea formazione della strana coppia Burroughs-Jourgensen: lo scrittore, infatti, accetta di collaborare con i violentissimi Ministry per il singolo (e relativo video diretto da Peter “Sleazy” Christopherson di Psychic TV e Coil) Just One Fix, pezzo inserito in Psalm 69, disco fra i più importanti della storia dell’industrial metal/alt metal. Il titolo non ha bisogno di molte spiegazioni: il “fix” è l’iniezione di eroina in vena ed entrambi i personaggi coinvolti condividevano una fervida passione per la sostanza. Questo è probabilmente uno degli apici musicali per Burroughs, visto che la band in quel momento è al massimo della popolarità, un fatto che porta all’attenzione di molti giovani e giovanissimi lo scrittore.

Il 1993 è un anno particolarmente denso per le collaborazioni musicali. Iniziamo con l’incursione nel mondo dell’hip hop, che si concretizza in un disco intero firmato insieme ai Disposable Heroes of Hiphoprisy: in Spare Ass Annie il blasonato duo Michael Franti/Rono Tse (con l’aiuto del chitarrista Charlie Hunter) gli fornisce beat e basi su cui leggere estratti delle sue opere e frammenti di scritti. Un lavoro peculiare, in cui Burroughs sembra quasi rappare a tempo con la musica, raccontando le sue storie di droga, violenza, sesso, incubi e ribellione. È dello stesso anno l’uscita di un vinile da 10” (su Tim/Kerr) inciso insieme all’ultima delle grandi rockstar old school, Kurt Cobain. Il disco si chiama The “Priest” They Called Him e consiste in una traccia in cui Burroughs recita il suo racconto “The Junky’s Christmas” mentre il leader dei Nirvana suona una base di chitarra dissonante e sperimentale. La copertina è una foto di Gus Van Sant, peraltro, e immortala Krist Novoselic dei Nirvana nei panni del Prete protagonista del testo.

Sempre nel 1993 arriva sul mercato The Black Rider di Tom Waits. Si tratta delle musiche dell’omonimo spettacolo teatrale scritto a quattro mani proprio con William – che all’album partecipa in qualità di co-autore, ma anche prestando la voce per il pezzo Tain’t No Sin. Siamo ancora nel 1993 e, per il loro gran ritorno, i Technodon – pionieri dell’elettronica made in Japan – includono campionamenti della voce di Burroughs in due brani. Tre anni dopo, i R.E.M. assoldano lo scrittore per leggere il testo della loro Star Me Kitten nella versione riregistrata per la compilation Songs in the Key Of X: Music from and Inspired by The X-Files. L’ultima collaborazione musicale di Burroughs ha visto la luce nel 2000 – quindi post mortem – con la compilation tributo ai Doors Stoned Immaculate. Robby Krieger, Ray Manzarek e John Densmore suonano Is Everybody In?, mentre la voce di William recita dei versi di Jim Morrison.

Un capitolo a parte sono, poi, i vari album non propriamente musicali, ma di reading e spoken word: ne ha incisi molti a partire dagli anni ’60, ma – appunto – difficilmente possono essere inclusi in un discorso che includa la musica suonata e il rispetto di una sorta di forma-canzone. Chi desiderasse, comunque, avventurarsi in questo tipo di esperienza, può sicuramente iniziare da Call Me Burroughs: uscito nel 1965, contiene registrazioni dell’autore che legge estratti da Il pasto nudo e Nova Express. Ma, come si diceva, questo è tutto un altro campionato.

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