Che film rocambolesco è la vita di Shane MacGowan | Rolling Stone Italia
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Che film rocambolesco è la vita di Shane MacGowan

Nel documentario 'Crock of Gold', da oggi in streaming, Julien Temple racconta la storia del cantante dei Pogues: la gioventù tutta alcol, droga e letteratura, il presente su una sedia a rotelle

Che film rocambolesco è la vita di Shane MacGowan

Shane MacGowan con Johnny Depp e Victoria MacGowan

Foto: Greg Williams

Le birre (a litri), il whisky (a fiumi), l’Irlanda, Londra, la letteratura, la religione, le droghe, il punk, i Pogues, la gioventù bruciata e il presente su una sedia a rotelle. C’è tutto, inferno e bellezza, humour e commozione nell’intenso e lungo ritratto (due ore abbondanti) che Julien Temple ha dedicato a un simbolo della musica, del carattere e dello spirito irlandese in Crock of Gold – A Few Rounds with Shane MacGowan, presentato oggi in anteprima nazionale al Seeyousound Music Film Festival che fino al 25 febbraio propone sulla piattaforma on demand Playsys.tv un programma tematico di corti, lungometraggi, documentari e videoclip (81 titoli in tutto), un concorso dedicato alle sonorizzazioni, panel, talk, concerti in live streaming e un focus incentrato sulla musica nera e sul movimento Black Lives Matter.

Maestro dei biopic musicali (The Great Rock’n’Roll Swindle, Absolute Beginners, i Sex Pistols, Joe Strummer), protagonista e osservatore acuto della rivoluzione punk inglese negli anni ’70, Temple era la persona giusta per un compito delicato: raccontare con il giusto mix di partecipazione e distanza la vita e l’arte di MacGowan, una corsa sulle montagne russe e una contraddizione in termini dal momento che lui, un simbolo mondiale della Irishness, è nato suo malgrado in Inghilterra da due espatriati. Il regista londinese ne traccia un ritratto sincero e toccante sovrapponendo nel suo classico stile i linguaggi e i piani di narrazione, miscelando con originalità e a ritmo incalzante reperti storici, immagini d’archivio, animazioni, sequenze fiction, testimonianze (i genitori, la sorella: assenti, stranamente, i Pogues) e conversazioni tra il protagonista e amici, parenti, ammiratori in cui si rivela alle telecamere un uomo molto più vecchio della sua età (62 anni), ingabbiato in un corpo che presenta il conto dei troppi maltrattamenti subiti, che parla con voce adenoidale biascicando le parole in maniera a volte incomprensibile (vengono in soccorso i sottotitoli) ma che dimostra di avere ancora una mente svelta e tagliente.

È l’artista di culto che ha tirato «un calcio in culo alla musica tradizionale irlandese» e che con Fairytale of New York («la nostra Bohemian Rhapsody», dice davanti alla macchina da presa) ha creato la canzone natalizia più antiretorica e commovente di tutti i tempi, lui che condivide la data di nascita con quella di Gesù Cristo e che confessa di avere avuto un rapporto difficile con il suo evergreen, soprattutto dopo la morte della cantante Kirsty MacColl. Era un predestinato, Shane, e Crock of Gold lo sottolinea aprendosi come una fiaba celtica in forma di cartoon, anche se parla di un uomo che alle favole non crede fin da quando, a due anni di età, il padre socialista e pragmatico gli rivela che Babbo Natale non esiste. La prima ora di pellicola si dilunga sulla sua infanzia povera, bucolica e felice in una fattoria nella contea di Tipperary, dove una grande e pittoresca famiglia allargata gli dà lezioni di vita mettendolo subito a contatto con il lavoro nei campi, con la morte (le oche e i tacchini che prima di essere sgozzati «hanno uno sguardo attonito come quello dei junkie»), con l’orgoglio irlandese – tutti, lì, appoggiano le lotte dell’Irish Republican Army – con la musica folk onnipresente in casa, con la natura che gli apre un mondo di suoni e di colori, con l’alcol e le sigarette che una zia gli somministra, ancora bambino, come premio dopo le lezioni private di catechismo.

Foto: Andrew Catlin

Biografia e storia d’Irlanda imparata sui libri o vissuta in diretta – la Grande Carestia del 1845, l’emigrazione di massa in America, l’indipendenza, la rivolta armata contro l’oppressore inglese – si intrecciano in un romanzo di formazione da cui MacGowan emerge con uno spirito ribelle e irriverente, un linguaggio scurrile («fuck è la parola più popolare del vocabolario irlandese»), uno sproporzionato amore per la bottiglia, una fede cattolica e una ricerca del trascendente che si scontrano con le letture di Marx e Trotsky, una passione divorante per la letteratura e per la poesia (per James Joyce, per Flann O’Brien, per Graham Greene, per James Clarence Mangan e soprattutto per Brendan Behan, ubriacone, anticonformista e “ripugnante” come lui), simpatie mai celate per l’Ira e una inclinazione pericolosa alla depressione di cui cadrà vittima dopo averne verificato gli effetti devastanti sulla madre (una ex modella e cantante tradizionale).

A Johnny Depp (amico, compagno di bevute e produttore del film), all’ex presidente del Sinn Féin Gerry Adams, a Bobby Gillespie dei Primal Scream e alla compagna di trent’anni (sposata nel 2018) Victoria Mary Clarke che lo invitano a parlare, MacGowan, ispido e sospettoso, risponde con una voce farfugliante e quella sua risata inconfondibile impastata di catarro e di catrame, minacciando di troncare subito la conversazione se qualcuno non si sbriga a mettere un po’ di musica Motown o Northern Soul in sottofondo e chiudendo senza indugi la porta agli argomenti che non intende affrontare. Ma si apre anche a confessioni disarmanti e non rinuncia mai a dire brutalmente quello che pensa: su Bob Geldof apostrofato come uno stronzo per certe sue prese di posizione troppo moderate, su un Elvis Costello ingrassato e infatuato della bassista dei Pogues che nell’85 produce Rum Sodomy and the Lash e subito dopo viene licenziato per divergenze musicali, persino sull’intoccabile W. B. Yeats definito «un segaiolo» perché troppo upper class e imbarazzato dal suo essere irlandese.

La seconda parte del lungometraggio si concentra sul rapporto di odio e amore con Londra, la città in cui è costretto a seguire i genitori e in cui sperimenta il razzismo nei confronti degli irlandesi, le risse da strada, l’espulsione da scuola, i lavori saltuari e il sussidio di disoccupazione, le prime esperienze con la droga e con la disintossicazione, la scoperta del sesso e della vita notturna: con le sue orecchie a sventola, i denti massacrati dalla carie e l’occhio spiritato, Shane resta folgorato dal punk e dai Sex Pistols diventando «il volto del 1977» dopo che la sua ragazza gli ha mozzato un orecchio a un concerto dei Clash. Si infittisce, nella trama, la presenza della sua musica, con i Pogues ripresi in azione in show televisivi e sul palco, davanti a platee inebriate e in subbuglio di fronte a quella musica inedita e trascinante che sposa punk e folk («Si assomigliano», spiega Shane ad Adams, «sono entrambe espressioni umane e naturali»), e il racconto candido sul consumo industriale di alcol, di pillole e acidi (l’eroina arriva solo nel momento in cui MacGowan sente che il suo gruppo, la sua musa e la sua vita gli stanno sfuggendo di mano), carburante di trip, di mistiche epifanie e di episodi grotteschi narrati con l’aiuto di animazioni psichedeliche e in stile pop art: Shane nega di avere mai avuto pulsioni autodistruttive ma solo il desiderio di godere la vita fino – letteralmente – all’ultima goccia.

Dal vivo con i Pogues negli anni ’80

Scioccano, nei filmati recenti, le immagini della sua testa perennemente inclinata su un fianco e i movimenti al rallentatore, quegli occhi saettanti e il lungo silenzio che segue alla dichiarazione di voler tornare a scrivere canzoni, mentre il ticchettio dell’orologio alle sue spalle scandisce crudele il passaggio inesorabile del tempo. Ma il film mantiene un encomiabile equilibrio e Temple sta attento a non fare del suo personaggio una figura tragica e unidimensionale, a non svilirlo nella macchietta del Paddy ubriacone da lui stesso alimentata. Piegato e sofferente, Shane è lucido e orgoglioso quando parla di una vita vissuta come una missione, una crociata in onore dell’Irlanda e della musica tradizionale del suo Paese di cui – come spiega in una intervista la sorella – gli piacerebbe essere ricordato come un salvatore.

La smorfia della bocca gli si acuisce quando ricorda le persone care scomparse – il manager Frank Murray, la madre soprattutto – e la commozione lo attanaglia quando nel 2017, alla National Concert Hall di Dublino, Bono, Nick Cave, Sinéad O’Connor, Depp, Gillespie, Glen Hansard e tanti altri festeggiano il suo sessantesimo compleanno cantandone le canzoni, mentre il pubblico intona un happy birthday da brividi e il Presidente della repubblica Michael D. Higgins sale sul palco a consegnargli un riconoscimento alla carriera (sì, in Irlanda succede anche questo). Ma sembra un uomo senza grandi rimpianti, ostinatamente proteso all’inseguimento metaforico della sua pentola d’oro, il Crock of Gold di cui leggeva da bambino nelle pagine del romanzo di James Stephens, alla ricerca di una bellezza e di una felicità fuori dai canoni. Godereccio peccatore impenitente che non ne vuole sapere di smettere di bere e di fumare, convinto di avere Dio dalla sua parte e di potersi rialzare ancora una volta dopo la frattura al bacino che dal 2015 lo costringe in carrozzella impedendogli ciò di cui più sente la mancanza: una bella partita a biliardo.

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