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Che ci fa Vasco Brondi con Francesca Michielin?

'Cattive stelle' è la sorpresa del giorno, una 'Se piovesse il tuo nome' per l'anno in cui l'indie s'è preso Sanremo e tutti i paletti saltano. It-pop cosmico per «amori sparsi nella stratosfera»

Che ci fa Vasco Brondi con Francesca Michielin?

Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi (Brondi) e Letizia Ragno (Michielin)

E chi l’avrebbe mai pensato che uno dei pezzi pop più radiofonici in circolazione, insomma una possibile hit dei prossimi mesi, avrebbe recato il timbro di Vasco Brondi? Non che lui sdegnasse certe uscite dal tracciato alternativo che sembrava essergli imposto col nome de Le Luci della Centrale Elettrica – del resto, dall’esordio sporco di cantautorato punk di Canzoni da spiaggia deturpata alla world mistica dell’ultimo Terra ci passa l’evoluzione di un artista tutt’altro che talebano – però l’effetto della sua voce in questa Cattive stelle, che esce oggi e in cui è ospite di Francesca Michielin, è straniante. A maggior ragione ora, che cerchiamo di capire che si inventerà dopo aver archiviato il suo progetto storico e l’unico indizio che ci ha dato è un live meditabondo e pieno di letture come l’ultimo Talismani per tempi incerti, pubblicato a dicembre. Ma tant’è: prenderà pure in contropiede, il suo intervento; ma credo che la canzoni funzioni anche e soprattutto per questo.

Merito in parte di una Michielin sempre più comoda nei panni della padrona di casa, e che dopo l’abbuffata onnivora del disco Feat (Stato di natura), uscito lo scorso marzo e fatto solo di duetti, sembra averci preso gusto considerando pure il Sanremo in programma con Fedez. E però, se quell’album era pieno di esperimenti pure audaci, tipo il pezzo in francese con Max Gazzè (La vie ensemble), stavolta ci si muove su un terreno più tradizionale. Per capirci: siamo dalle parti di Se piovesse il tuo nome, la ballata che Calcutta aveva scritto per Elisa e il suo restyling in chiave it-pop nel 2018. Se lì il distaccamento da certe radici era stato, per quanto abbastanza felice nel risultato, comunque evidente – e i non sempre riusciti incontri fra indie e mainstream, in generale, sono testimoni di una qualche voglia di lifting – qui non ci si reinventa. L’artista vicentina, infatti, è storicamente molto più fluida dei colleghi della generazione prima, e proprio grazie all’influenza di una parte del nuovo pop italiano, con 2640 (2018), è uscita dal cellophane.

Questo per dire che Cattive stelle, pur dentro una struttura rodata e accomodante alla radiofonia, riesce a mettere d’accordo le classifiche e Brondi con naturalezza. Se da un lato c’è una ballata (scritta a quattro mani da Michielin e Vasco) cadenzata a pianoforte-voci-archi, con la melodia ariosa e delicata proprio del ritornello di marca Calcutta, retto dai violini, con la produzione di Taketo Gohara a garantirle gli strass giusti per la prima serata; dall’altro, una elementi made in Le Luci della Centrale Elettrica – ok, magari non il primo “tossico” ma quello ammorbidito di Chakra, ma non è comunque poco – che rendono la collaborazione sensata e rara. Lei, per esempio, con un’interpretazione di gala dice che darà «il nostro nome a milioni di uragani», di un vento «che porta via le impronte» e che «prega per tutte le navi in mare» (chi ha pensato a Santa Lucia di De Gregori?). Invece lui, che entra nella seconda strofa, riprende il filone pop-cosmico degli ultimi anni con la classica voce sgraziata di sempre, per racconta, sì, dei «pianeti ancora senza nome», di «proteggerci, farci del male in città straniere», ma pure per lanciarsi nei na-na-na morbidi dell’inciso persino sanremese.

E sono schegge di sporco, queste, su un tavolo invece limpidissimo e sobrio, a rovesciare (come l’immagine delle «cattive stelle» del titolo, d’altronde) e ricoprire di strana malinconia una ballata in realtà classica, sostanzialmente it-pop. Solo che qui, insomma, al posto dei riferimenti meticolosi al quotidiano arrivano «gli amori sparsi nella stratosfera». Perché, dicevamo, pezzi come Chakra sono più di una semplice un’ispirazione, di un gancio da cui ripartire, con quel loro racconto mistico di un amore talmente profondo che… forse sta addirittura passando mentre se ne parla, e comunque è da viversi con gli occhi lucidi.

Per Michielin, questa è la conferma la sua maturità come compositrice – il brano andrà bene in radio, la scrittura è ormai quadrata – e nella mimesi con gli ospiti. Per Brondi, semplicemente, parliamo del primo episodio davvero (it-)pop in repertorio. Ed è un vestito – mi verrebbe da dire uno smoking da Ariston, ma andiamoci piano – che gli sta bene e non nasconde le peculiarità del personaggio (perlomeno non tutte), al di là del naturale straniamento di chi ancora deve farci l’orecchio. Però insomma: dopo la fine de Le Luci della Centrale Elettrica stiamo ancora aspettando una ripartenza, e chissà che non riparta – senza accuse di dietrofront, ma con esperienza e serenità – proprio da Cattive stelle.

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