C’erano una volta i dischi pirata: 10 bootleg che hanno fatto la storia | Rolling Stone Italia
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C’erano una volta i dischi pirata: 10 bootleg che hanno fatto la storia

Uno spaccato dell’epopea delle registrazioni illegali: concerti mitizzati in vinile e CD, registrazioni in studio trafugate, box set con session integrali per fan infoiati. «Bootleggers, roll your tapes!»

C’erano una volta i dischi pirata: 10 bootleg che hanno fatto la storia

Iggy Pop dal vivo nel 1973

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

«Ero un adolescente drogato di bootleg», scrive Clinton Heylin nella premessa di Bootleg! The Rise & Fall of the Secret Recording Industry, l’unica fonte seria e documentata fra quelle che hanno cercato di far luce su un argomento opaco come quello della musica illegale. Concerti registrati furtivamente con un mangianastri portatile in mezzo al pubblico o grazie agli addetti al mixer. Reperti sottratti dagli archivi delle stazioni radiofoniche e tv. Perfino interviste. Rarità, demo, sessioni integrali, brani inediti, outtake, album leak trafugati da uno studio di registrazione, magari con la complicità dell’insider di turno. L’universo dei dischi pirata (il termine bootleg deriva dal contrabbando degli alcolici) costellato di vinili, cassette e CD zeppi di suoni arraffati da ogni fonte possibile e immaginabile, di bassa o alta qualità – sonora e grafica – ha costituito fra la fine degli anni ’60 e l’alba dei 2000 un milieu sotterraneo del suono moderno.

Un mondo parallelo e anarcoide, dotatosi di etichette semi-occulte (l’americana Trade Mark of Quality, la svedese Crystal Cat, la tedesca Swingin’ Pig, l’italiana Godfatherecords) e migliaia di “operai” abusivi, in gergo soprannominati taper o bootlegger che hanno messo in fila un catalogo magmatico quanto intrigante, ricco di artwork originali o stuzzicanti, sulla falsariga dell’estetica ufficiale delle label. Un business illecito spesato dalle tasche dei fan attratti dai nomi più quotati nel mercato fuorilegge e, in proporzioni minori, dagli artisti del punk-new wave fino all’indie moderno. Nelle posizioni apicali di un’ipotetica classifica: Dylan, Stones, Beatles, Elvis, Led Zeppelin, Pink Floyd, Springsteen, Grateful Dead, King Crimson, Metallica, Bowie, Queen, R.E.M., U2, Hendrix e Clapton, che di recente, sul tema specifico, è scivolato su un’evitabile buccia di banana (come se non bastassero le sue posizioni antiscientifiche sul Covid).

Dagli anni ’80, dopo la diffusione dei CD e dei primi box set, cominciò la guerra alla musica pirata, i cui reperti fisici sono diventati in taluni casi veri e propri oggetti di culto. La produzione clandestina è calata con l’avvento del downloading e dello streaming, col contrasto per vie legali e con prodotti discografici di maggiore qualità da parte delle major. Gli artisti stessi in molti casi si sono dotati di sezioni di vendita ad hoc intitolate bootleg. La Bootleg Series di Bob Dylan o la scelta radicale dei Pearl Jam di mettere in vendita tutti i loro concerti sono gli esempi più illuminanti di questa metamorfosi.

Con la deflagrazione della musica liquida, i bootleg in formato digitale sono diventati un bene a costo irrisorio o gratuito, mentre quelli fisici si “accontentano” di una posizione molto marginale. È curioso imbattersi in questa loro seconda vita, mezza in incognito, che galleggia nel mare sconfinato dell’Internet, soprattutto pensando che era abitudine trovarli anche in rispettabilissimi negozi di dischi.

Fra le migliaia di LP, CD e cassette ascrivibili al pianeta bootleg ne ho selezionati 10 che per la loro influenza e particolarità mi sembrano tra i più importanti, innovativi e originali.

“Great White Wonder” Bob Dylan & The Band

Il Sacro Graal dei dischi illegali. Sul primo album leak della storia si potrebbe costruire una serie tv di successo, al pari di Pam & Tommy. Basterebbe che lo sceneggiatore di turno spostasse il focus dal sesso esplicito alla brama musicale e cambiasse il nome dei protagonisti in Dub & Ken (o Pigman & Carl, secondo le narrazioni), due inafferrabili eroi della controcultura americana che nell’estate del 1969 stamparono 2000 copie di quello che diventerà il capostipite della filiera delle incisioni underground. Con la loro Trade Mark of Quality, “Dub” Taylor e Ken Douglas producono in serie alcune registrazioni rare o inedite di Bob Dylan, fra cui alcune canzoni con la Band, registrate a Woodstock nel 1967, di cui circolavano febbrili anticipazioni. Si trattava di una sneak peak dei favoleggiati Basement Tapes, pubblicati con clamore dalla Columbia solo nel 1975. Great White Wonder si presenta come doppio LP di qualità scarsa, povero e minimale (copertina bianca, cui poi fu aggiunto un timbro) che apre la prima breccia nella muraglia blindata delle case discografiche. Pornografia musicale allo stato puro.

“Black Album” Prince

Dopo il colore bianco, incarnato dal primo anonimo bootleg moderno, tocca al nero di una cover tanto spartana quanto mitizzata. Solo che, in questo caso, si tratterebbe di un album ufficiale di cui la Warner Bros ha già spedito nel 1987 centinaia di copie promozionali ai media e ai giornalisti. Prince, al massimo della sua popolarità, concepisce il repentino seguito di Sign O’ The Times per rinfrancare il lato più radicale della sua musica. Un afflato intinto di black music condito di superbia che lo porta a considerare The Funk Bible come titolo provvisorio. Ma una crisi scompagina la trama, che diventa una delle pagine più folcloristiche della discografia. Il pensiero di una presunta morte imminente riporta il genio di Purple Rain coi piedi a terra. Chiede alla Warner di distruggere tutte le copie stampate (si parla di 500 mila pezzi). La storia fa il giro del mondo e i bootleg del disco epurato (non il primo e di certo non l’ultimo: si veda alla voce Camille) a quel punto proliferano. Bono mette il Black Album nella sua lista dei dischi più belli dell’anno seguente ma Prince ha già voltato pagina con Lovesexy. L’aura del Black Album assunse davvero proporzioni “bibliche” tanto che si stima sia il disco pirata più venduto di sempre, con tanto di fansite. Nel 1994 l’artista di Minneapolis raggiunge un accordo con la Warner, di cui si vuole liberare, e consente la pubblicazione in edizione limitata. La Warner invita i fan a consegnare i bootleg in cambio della ristampa ufficiale. Lo si può ascoltare su YouTube.

“Live’r Than You’ll Ever Be” The Rolling Stones

Alcune fonti sostengono che il secondo show tenutosi a Oakland la sera del 9 novembre durante l’American Tour 1969 degli Stones sia il primo live bootleg della storia. Pubblicato due mesi dopo il primo disco pirata dei Beatles (Kum Back), Live’r Than You’ll Ever Be venne registrato con strumenti professionali dal solito “Dub” Taylor, questa volta per la Lurch Records. Le vendite del vinile, uscito esattamente un mese dopo il concerto nel pieno del lutto per la tragedia di Altamont, furono anche spinte da un’esaltata recensione di Greil Marcus su Rolling Stone nel gennaio del 1970. Marcus lo definì come il disco più emozionante del ’69, paragonandolo a Let It Bleed, e mise la pulce nell’orecchio ai piani alti della Decca, della sua sussidiaria americana London Records e della ABCKO di Allen Klein, insinuando il dubbio che ci fosse stato una specie di accordo fra Taylor e lo staff degli Stones, già in rotta di collisione con i loro rappresentanti discografici. Per questo motivo la Decca pubblicò Get Yer Ya-Ya’s Out! nel settembre del 1970. Mesi prima gli Who pubblicarono Live at Leeds, la cui cover parodiava la grafica della Lurch.

“Smile” The Beach Boys

«Sono scrivendo una sinfonia adolescenziale dedicata a Dio», disse Brian Wilson ai suoi ospiti davanti a una tavola imbandita verso la fine del 1966. Le cose andarono diversamente: su quello che doveva essere il lascito di Brian Wilson al pop americano, il sogno trascendentale di un’estate infinita, nelle sue ambizioni superiore a Pet Sounds, calò la notte di un brusco inverno. Il capolavoro perduto dei Beach Boys, sempre più sfiancati dai tormenti allucinati del loro genio e da chilometri di nastri registrati senza capo né coda, fu abbandonato al suo destino, lasciandolo in mano ai fan. Grazie all’aiuto della band che fornì sottobanco informazioni e materiali, questi cominciarono un lavoro incessante di ricomposizione filologica dell’opera. Nel 1983 comparve il primo bootleg, stampato dalla Brothers Records dei fratelli Wilson, Al Jardine e Mike Love. Ne seguirono moltissimi altri e Smile finì per diventare l’album più piratato di sempre. Nel 1993 la Capitol inserì una delle session di registrazione dell’album nel box set Good Vibrations. Nel 2004 Brian Wilson mise insieme la sua versione solistica e nel 2011 la Capitol finalmente diede alle stampe il cofanetto definitivo della saga di Smile.

“Metallic K.O.” Iggy and The Stooges

Non c’era riuscito il primo album omonimo. Nemmeno Fun House. Raw Power? Manco a dirlo. Il disco più venduto della band proto punk per eccellenza, autentico embrione del biennio ’76-’77, è stato un bootleg informale pubblicato nel 1976 dalla label francese di Marc Zermati, la Skydog Records. L’ultimo live degli Stooges, prima della reunion del 2003, contiene gli spezzoni dei due concerti tenuti a Detroit il 6 ottobre, messo su nastro dal pianista Scott Thurston, e del 9 febbraio 1974, canto del cigno della band, registrato da Michael Tipton, amico di Ron Asheton. Ma le esibizioni casalinghe dei ragazzacci di Ann Arbor, scaricati dalla Columbia e tornati in America dopo la deludente sbornia alla corte del manager di Bowie, Tony Defries, sono tutt’altro che rassicuranti. In un indemoniato Michigan Palace, fra minacce di morte, oggetti contundenti di ogni tipo (fra cui i famosi bicchieri rotti contro gli strumenti di cui prese nota Lester Bangs) e provocazioni di uno strafatto Iggy Pop prima del rehab, si consuma la più selvaggia e nichilista certificazione del rock-verità. È stato riedito ed espanso come doppio CD nel 1988 e rimasterizzato e riaggiustato nella velocità di produzione che era sempre stata sfasata grazie a un box del 2007 e all’orecchio di Sterling Roswell (Rosco) degli Spaceman 3, che si trovava in studio con Zermati (deceduto nel 2020).

“Get Back Journals” The Beatles

Get Back, diretto da Peter Jackson per Disney+, è stato il fenomeno musicale del 2021. Prima di diventare una serie tv di successo, in un mondo sempre più assuefatto a consumare musica dal divano di casa, l’ultimo progetto dei Beatles, basato sulle varie session del gennaio 1969 ai Twickenham Film Studios e al quartier generale della Apple Corps, era stato documentato dal film di Michael Lindsay-Hogg ma soprattutto da una caterva di produzioni audio non ufficiali (se si esclude il bonus disc Fly on the Wall di Let It Be… Naked del 2003). Il Guardian, in una delle poche stroncature dell’opera di Jackson, cita un’edizione pirata che le raccoglie tutte e consta di 89 CD. Wikipedia ricorda invece una compilation semi esaustiva pubblicata dalla Yellow Dog su 38 CD e intitolata Day by Day, a cui si aggiunge The Complete Rooftop Concert dei primi anni ’90. I Journals, pubblicati in vari formati e da diverse etichette potrebbero essere definiti come la punta dell’iceberg dei documenti sonori illegali trafugati dagli equipaggiamenti Nagra presenti nei due studi di registrazione.

“Pièce de Résistance” Bruce Springsteen

Ci sono diversi luoghi comuni nella letteratura rock sulla resa concertistica di Bruce Springsteen e della E Street Band ma alcuni dischi, in particolare, ne certificano l’esplosività. Si tratta di una serie di bootleg storici dei suoi concerti più energici, suddivisi su un arco temporale che va dal tour di Darkness on the Edge of Town fino a quello di Born in the U.S.A. A cavallo degli anni ’70/80, la produzione dei live non ufficiali di Springsteen proliferò a tal punto da creare un problema per il management e la CBS ma contribuì d’altro canto alla creazione del mito. Durante uno di questi famosi concerti, al Roxy Theatre di West Hollywood nel 1978, Springsteen stesso, non ancora consapevole della grande speculazione che stava prendendo piede, incitò la platea: «Well, bootleggers out there in radioland, roll your tapes!». La scelta nel top di gamma cade però sul concerto del 19 settembre 1978 al Capitol Theater di Passaic, cittadina del New Jersey a pochi chilometri dalle porte di New York. Lo show che rappresenta forse il più elevato standard di un concerto di Springsteen fu trasmesso in radio FM assieme ad altri tre (Cleveland, San Francisco e la data già segnalata nella contea di Los Angeles). Questi quattro show radiofonici diedero il calcio d’inizio alla controversa epopea della discografia illegale springsteeniana. Oggi il concerto è in vendita nella sezione live del sito ufficiale dell’artista.

“Rat Patrol from Fort Bragg” The Clash

Dopo Sandinista! la spaccatura fra le due ali dei Clash si mostra plasticamente durante la lavorazione dell’album successivo, il quinto della band. Alla fine del 1981 nella sala prove londinese premono due correnti. Da un lato c’è Mick Jones che vuole continuare a lavorare sugli sterrati impervi della contaminazione dei generi musicali (funk, dub, reggae, hip hop, ma anche le strutture musicali del raga), dall’altro Joe Strummer che desidera portare la band su strade più sicure e battute (roots rock, punk). Paul Simonon la pensa più come il frontman, mentre Topper Headon, in brutte condizioni per la dipendenza da eroina, è più vicino alla sensibilità global di Jones. Ma il concept, intitolato Rat Patrol from Fort Bragg e ideato dal chitarrista-cantante, un disco ispirato alla guerra in Vietnam vista attraverso la lente del cinema americano mischiato all’epopea del ghetto urbano e dei graffiti, si dimostra farraginoso. Le registrazioni si spostano a New York, agli Electric Ladyland. Il risultato è un doppio album prolisso che non conquista l’entourage e diventerà uno dei bootleg più ambiti di sempre. Con la complicità di Strummer le registrazioni passano di mano al produttore Glyn Johns, che aveva contribuito a far uscire dall’impasse proprio Get Back dei Beatles facendolo diventare Let It Be (e Lifehouse degli Who, diventato Who’s Next). Il lavoro di sintesi di Johns dà i suoi frutti: l’album singolo Combat Rock diventa il più grande successo commerciale dei Clash. Un anno dopo, Headon e Jones escono dal gruppo (“l’unico che conta”).

“I Never Talked to Bob Dylan” Patti Smith

In una scena musicale intrisa di machismo e di cock rock, dove sono i maschi a dettar legge e a scrivere il copione, la figura di Patti Smith irrompe dalle ceneri della controcultura americana. In tour per promuovere Horses e Radio Ethiopia, usciti nel giro di un anno, la poetessa punk declama le sue canzoni e scrive il manifesto del rock femminile. I live set del Patti Smith Group incantano il pubblico e diventano teatro di eventi memorabili. A Stoccolma nell’ottobre del 1976 la rocker viene ripresa dalle telecamere della tv svedese e registrata professionalmente. Due pezzi dei Velvet Underground e altre cover (Time Is on My Side, Louie Louie) si alternano ai brani originali estratti dai due primi album. Assieme a Teenage Perversity and Ships in the Night, che documenta il concerto al Roxy di Los Angeles del gennaio precedente (con i cameo di John Cale e Iggy Pop), è il bootleg di migliore qualità fra quelli degli esordi di Patti Smith.

“K4” Kraftwerk

I Kraftwerk (+ Neu!) come non li avete mai sentiti. Ralf Hütter, cofondatore del progetto sperimentale che cambierà la storia del musica elettronica, si prende una pausa e Florian Schneider, leader in pianta stabile dei Kraftwerk, chiama a raccolta il batterista Klaus Dinger e il chitarrista Michael Rother, che poi formeranno i Neu!. Le cinque tracce registrate dal vivo nel giugno del 1971 al Gondel Filmkunsttheater per la locale Radio Bremen sono la testimonianza di una versione alternativa (e apocrifa) dell’ensemble di Düsseldorf. Nelle lunghe jam c’è un po’ di tutto: krautrock, psichedelia, hard rock quasi metal, post rock ante litteram. Un semplice interludio d’archivio che però ha il merito di mostrare come funziona, nella realtà, la messa a fuoco di un discorso musicale.