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Arrigo Polillo racconta Miles Davis: «Sembrava un ipnotizzatore»

In un estratto dal libro ‘Arrigo Polillo , Un maestro internazionale della critica jazz’, che verrà presentato a JazzMI, il giornalista e critico racconta un incontro con il trombettista e il suo carattere difficile
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Foto: David Redfern/Redferns/Getty Images

Arrigo Polillo è stato una figura fondamentale per la diffusione del jazz in Italia. Il critico, storico direttore della rivista Musica Jazz, ha raccontato la black music come pochi altri e organizzato moltissimi concerti e festival nel nostro Paese. La sua storia è al centro di un nuovo libro pubblicato da Mimesis e intitolato Arrigo Polillo – Un maestro internazionale della critica Jazz.

Il volume, scritto da Luca Cerchiari e dal figlio del giornalista Roberto Polillo, ha l’obiettivo di collocare l’autore nel contesto internazionale della critica jazz e raccoglie le riflessioni di Roberto, che l’ha seguito per anni come fotografo, le testimonianze di musicisti, esperti e organizzatori, oltre ad alcuni scritti dello stesso Polillo sui grandi maestri del jazz. Potete leggerne uno, dedicato a Miles Davis, qui sotto. Il libro, disponibile dal 14 ottobre, verrà presentato dagli autori durante JazzMI, sabato 30. Le informazioni sull’evento sono disponibili a questo link.

Miles

Gli occhi, piccoli, lucidi, “puntuti”, hanno una fissità innaturale. Sembrano quelli di un ipnotizzatore. Meglio: di un rettile. la voce pare venire dall’oltretomba: ha la consistenza di un soffio. Si dice che l’abbia perduta per aver urlato al telefono contro qualcuno, mentre era ancora convalescente per un’operazione alla gola.

Basterebbero quegli occhi e quella voce per mettervi in apprensione. Ma Miles Davis vi fa star male anche per il suo modo di comportarsi: perché prova gusto a vedervi soffrire, a farvi stare sui carboni accesi. Per esempio: pretende per contratto di suonare prima di ogni altro perché l’attesa lo innervosisce, assicura, ma poi può arrivare in Teatro quaranta minuti dopo l’ora fissata per l’inizio dello spettacolo, quando già il pubblico sta fischiando da un bel po’. Gli deve piacere l’idea di tenere sulle spine qualche migliaio di persone mentre lui se ne sta beatamente sdraiato sul suo letto d’albergo in attesa soltanto di fare la sua tardiva entrata e costringere all’applauso la gente che ha sofferto aspettandolo.

Miles è così, e anche peggio di così. Pare tanto perverso che molti assicurano che non è possibile che sia fatto veramente a quel modo; ci deve essere qualcosa sotto, qualcosa che uno psicologo scoprirebbe facilmente.

Il fatto è che se avete a che fare con Miles per ragioni di lavoro vi infischiate delle spiegazioni che uno psicologo potrebbe dare del suo comportamento: soffrite, lo odiate, e basta.

La volta che più lo odiai fu nel 1965. Era venuto a Milano per suonare, col suo allora formidabile quintetto (quello con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams) in un piccolo festival del jazz in programma al Teatro dell’Arte, il cui cartellone era stato messo insieme con la collaborazione di George Wein.

Miles era andato a riposare in albergo nel primo pomeriggio, e ci aveva fatto sapere che non voleva essere disturbato prima del concerto; fu invece importunato da un giornalista intraprendente che aveva scoperto in quale albergo alloggiava e gli aveva chiesto un’intervista.

Non lo avesse mai fatto! Miles mandò a quel paese il malcapitato, e subito ci notificò per telefono che non avrebbe suonato visto che non avevamo saputo proteggerlo dagli scocciatori.

Chiamai allora in soccorso il mio amico Charlie Borgeois, il braccio destro di Wein, arrivato a Milano quale accompagnatore della troupe, e andammo insieme in albergo per ammansirlo. Charlie era nervosissimo: muoveva a scatti le braccia, e mi batteva le mani sulle ginocchia invitandomi a non preoccuparmi: “È qui per suonare”, mi ripeteva; ma si vedeva che non ci credeva molto neppure lui.

Non fui tranquillo finché non vidi il nostro uomo installato nel camerino del teatro, con la tromba sul tavolo. Lì gli avevamo fatto trovare, nella speranza di guadagnarci la sua benevolenza, una bottiglia di whisky; però quando io, poco prima del concerto, andai da lui per chiedergli, con un sorriso pacificatore, se lui e i suoi avessero bisogno di qualcosa, mi sentii rispondere con quella voce gorgogliante: “A trumpet player”. Il gruppo cioè aveva bisogno di un suonatore di tromba, né più né meno. (Ma si trattava di una battuta, perché poi Miles suonò, e suonò magnificamente, come in anni successivi non sarebbe più stato capace di fare).

Il suo aspetto truce non avrebbe fatto sospettare certi aspetti infantili della sua personalità, che pure c’erano. Li rivelava la sua passione per gli eroi del ring e per le automobili sportive italiane (“Ho due Ferrari”, ripeteva a chiunque, con un sorrisetto pieno di orgoglio). A un tavolo di ristorante attorno al quale, oltre a me e Miles, sedeva uno degli uomini di Wein, Dino Santangelo, non sentii parlare d’altro che d’automobili e di pugilatori per tutta la durata del pranzo. I suoi commenti erano sempre ammirativi: non so quante volte, quel giorno, gli ho sentito ripetere la sua favorita espressione: “Outasight!” (“Fuori dalla nostra vista”), che è come dire “Fantastico, irraggiungibile!”.

Dino Santangelo gli dava corda: non desiderava altro che compiacerlo, apparendo comprensivo e partecipe. perché anche lui aveva paura di Miles: me lo aveva confidato prima che il nostro uomo arrivasse in città. Quando eravamo andati ad accoglierlo all’aeroporto, Dino si era letteralmente illuminato in volto quando si era reso conto che a fianco di Miles (bardato per l’occasione come un principe barbaro) c’era la sua donna di turno, un’indiana-americana dal bellissimo sorriso. “Non abbiamo più motivo di preoccuparci”, mi sussurrò Dino a quella vista. “Quando c’è lei, lui sta tranquillo e non ci son problemi.” (Non ci furono, infatti).

Ciò che non ho capito affatto è se Miles crede davvero che la musica che fa da qualche anno a questa parte, e che fece anche al Conservatorio di Milano la sera successiva al pasto a base di automobili e pugilatori. Ho appreso solo che disprezza il rock (a cui peraltro la sua musica attuale si ispira) e che ama tuttora i colleghi e i maestri di ieri. Quel giorno mi costrinse ad accompagnarlo in teatro a sentire Dizzy Gillespie, a costo di guastarci la digestione per via del poco tempo a disposizione.

Io comunque ho una teoria a proposito di Miles Davis. Penso che i complessi di cui è carico, che certi suoi discutibili atteggiamenti trovino la spiegazione nella sua estrazione sociale. Miles apparteneva a una ricca famiglia della borghesia nera: l’abbandonò per intrupparsi coi musicisti di jazz (i boppers, per essere più precisi), divenendo subito intimo amico e compagno di camera di Charlie Parker, grande musicista di jazz ma anche grande drogato.

Credo che l’equilibrio di Miles Davis sia saltato allora, per quella doccia scozzese.

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