Andy Fletcher, l’uomo che teneva assieme i Depeche Mode senza scrivere canzoni | Rolling Stone Italia
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Andy Fletcher, l’uomo che teneva assieme i Depeche Mode senza scrivere canzoni

«Martin è l’autore, Alan il bravo musicista, Dave il cantante, e io vado in giro», diceva con autoironia. Era quello che faceva funzionare le cose, il pacificatore di una band che ha rischiato più volte di disintegrarsi

Andy Fletcher, l’uomo che teneva assieme i Depeche Mode senza scrivere canzoni

Andy Fletcher a San Siro coi Depeche Mode nel 2017

Foto: Francesco Castaldo/Mondadori via Getty Images

C’è un momento in 101, il film di D.A. Pennebaker che racconta i Depeche Mode alla conquista dell’America nella primavera del 1988, in cui Andrew Fletcher spiega alla perfezione il proprio ruolo all’interno della band. «Martin è l’autore delle canzoni, Alan è il bravo musicista, Dave è il cantante, e io vado in giro». C’è tanta autoironia in queste parole, quella di chi è consapevole che il proprio compito è importante quanto quello degli altri e quindi si può permettere di scherzarci sopra. Perché l’uomo andatosene ieri all’età di sessant’anni era tutt’altro che una bella statuina ferma dietro le tastiere in stadi sempre più grandi.

C’era anche lui, assieme a Vince Clarke e Martin Gore, nel primissimo nucleo dei Depeche Mode. Si chiamavano Composition of Sound e all’inizio del 1980 deposero le chitarre per mettere le mani sui primi strumenti elettronici. E c’era lui, da solo, meno di due anni più tardi, nell’ufficio di un preoccupato Daniel Miller, il fondatore della Mute, la storica etichetta della band. Vince Clarke, autore della quasi totalità delle canzoni, se ne era andato dopo il primo album e i dubbi sul futuro del gruppo erano più che legittimi. «Non ti preoccupare», disse Fletcher, «Martin è davvero un buon autore: ce la caveremo». Una previsione rivelatasi quanto mai azzeccata, ma che certamente non era facilissimo esprimere nel 1982.

Per quindici anni abbondanti, Fletch è stato una sorta di manager interno alla band, quello a cui gli altri membri affidavano gli aspetti meno rock’n’roll del music business. Un ruolo riconosciutogli dallo stesso Miller: «Sapevano quello che volevano, soprattutto lui», racconta intervistato in Monument (Arcana). «Non avevano un agente, un avvocato, un commercialista. In un certo senso era Andy che ricopriva il ruolo di manager e che si interessava di più a questi aspetti».

La cosa non pareva dispiacergli, anzi. «La mia è una vita fatta di numeri», ha dichiarato nel 1993 in un’intervista rilasciata a Musician, «come musicista sono inutile, ma il mio lavoro nella band è stimolante e mi dà soddisfazione. Quando suonavo il basso non ho mai desiderato diventare un grande bassista, e così quando ho messo le mani sulle tastiere. Quello che mi interessa è creare qualcosa, farlo uscire, promuoverlo e venderlo».

C’è qualcosa di punk nella storia di questo non musicista che trova il modo di salire su un palco e far parte di una band di enorme successo. Nella recensione di Playing the Angel (2005) uscita sull’edizione americana di Rolling Stone, Gavin Edwards riprese le parole pronunciate da Fletch in 101 cambiando impietosamente il finale: «Martin Gore scrive le canzoni, Dave Gahan le canta e Andrew Fletcher si presenta agli shooting fotografici e incassa gli assegni». Non era forse una nuova edizione della grande truffa del rock’n’roll?

«Sono quello alto che sta di dietro», amava ripetere, «quello senza il quale l’azienda internazionale che si chiama Depeche Mode non funzionerebbe mai». Con il crescere a dismisura dell’azienda, Fletch ha dovuto sempre più delegare ad agenti, avvocati e commercialisti di professione. È stato allora che sono emerse sempre più le sue soft skills, come dicono quelli bravi, le sue capacità di mediare tra le personalità non facilissime degli altri due membri fondatori.

È stata la sua abilità diplomatica a permettere l’accordo Gore-Gahan secondo cui, proprio a partire da Playing the Angel, anche brani scritti dal cantante avrebbero potuto far parte dei nuovi album dei Depeche Mode. Nelle rare interviste scherzava anche su questa sua funzione pacificatrice, a volte piazzando lì qualche battutina del tipo: speriamo che non serva più. Lui una canzone per i Depeche Mode non l’ha mai scritta, forse consapevole che una band in cui tutti vogliono le luci della ribalta non può esistere, o comunque non può durare oltre quarant’anni come loro.

Il Fletch frontman, semmai, è l’oggetto di una delle più divertenti leggende Depeche Mode: quella di Toast Hawaii. Il nome deriva da un toast che i membri della band mangiavano a Berlino prima di trasferirsi agli Hansa Studios per la lavorazione di Black Celebration (1986) ed è il titolo di un fantomatico album di cover rock’n’roll suonate dai Depeche Mode con una classica strumentazione chitarra-basso-batteria. Alla voce c’è appunto Fletch, che sosteneva che Martin Gore fosse in possesso dell’unica copia del disco, sottolineando che sperava non ne avrebbe mai resi pubblici i contenuti.

Insomma, faceva la rockstar solamente per gioco e di nascosto, e nelle interviste si dimostrava spesso consapevole della propria grande fortuna. La vita in tour, diceva, non è poi così male: ci portano in giro, stiamo in begli alberghi e sicuramente la maggior parte dei nostri fan fa mestieri più faticosi. Allo stesso modo, quando gli domandavano se non gli pesava stare lontano dalla sua famiglia durante i lunghi tour, rispondeva che molte persone lavorano lontano dalla famiglia e fanno certamente lavori meno interessanti. Forse si ricordava ancora di quando, il giorno dopo l’esordio dei Depeche Mode a Top of the Pops, commentò la sua performance con i colleghi nella sede della società di assicurazioni in cui ancora lavorava.

Parafrasando una canzone di un musicista che con i Depeche Mode c’entra poco, quella di Andy Fletcher è stata davvero una vita da mediano, nato senza i piedi buoni ma con dei compiti precisi. Uno a cui la natura non ha dato lo spunto della punta (Dave Gahan), né del 10 (Martin Gore), ma che i suoi mondiali li ha vinti eccome, uscendo a braccia alzate da decine di stadi. È stato l’ago della bilancia di una band che ha rischiato più volte di andare in mille pezzi ma che dopo oltre quarant’anni era ancora lì, fresca di ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame. Complice la pandemia, ciascuno parlava da un posto diverso. Fletch è l’unico che ancora viveva in Gran Bretagna, a Londra, mentre Martin Gore si è da tempo trasferito in California e Dave Gahan a New York. L’ultima immagine postata su Instagram dalla moglie Gráinne Mullan, con cui era sposato da una vita, lo ritrae in un pronto soccorso dopo una brutta caduta dalla bici. La penultima è ancora meno rock’n’roll: in vacanza in Irlanda, in un pub davanti a una birra.

Tutto molto lontano da quello che è stato lo stile di vita dei Depeche Mode fino a buona parte degli anni ’90. Senza scendere troppo nei dettagli chimici, e concedendoci una piccola forzatura, possiamo senz’altro dire che laddove Dave Gahan era Mick Jagger, il frontman, il sex symbol, quello da poster, Martin Gore era invece Keith Richards, l’autore delle canzoni, la mente musicale della band. E Fletch era Charlie Watts, nella band fin dal giorno uno, ma mai in prima fila, amatissimo dai fan e poco conosciuto da tutti gli altri. Fra meno di un mese i Rolling Stones suoneranno a San Siro. Vedremo ancora un altro concerto dei Depeche Mode?

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