Rolling Stone Italia

Altamont, le 15 canzoni che hanno spedito i Rolling Stones all’inferno

51 anni fa, durante l’esibizione della band inglese, gli Hell’s Angels accoltellavano a morte uno spettatore, Meredith Hunter. Ecco che cosa accadde durante quel concerto, canzone per canzone

Foto: C. Maher / Express / Getty Images

Appena Mick Jagger mette piede giù dall’elicottero, è travolto dal caos. Oltre 300 mila persone affollano l’Altamont Raceway Park, nel nord della California, in attesa di un concerto che si prospetta memorabile. Eppure, di lì a poche ore, le morti del diciottenne Meredith Hunter, accoltellato dagli Hell’s Angels, e di altri tre ragazzi tingeranno di nero la sera del 6 dicembre 1969. Altamont diventerà un abisso oscuro, pronto a inghiottire il sogno hippie sulle note dei Rolling Stones.

Dopo un tour sfavillante che ha attraversato gli Stati Uniti, l’intento della band è di accomiatarsi con un concerto gratuito, piazzando in cartellone nomi di altri artisti grandiosi. Così, a una settimana dal volo che li avrebbe riportati in Gran Bretagna, gli Stones annunciano l’evento. Solo pochi mesi prima, gli amplificatori di Woodstock hanno gridato al mondo gli ideali hippie di pace e libertà, consacrando il fascino (e il business) dei grandi eventi. Replicare un simile raduno, con protagonisti cinque inglesi all’apice del successo, è allettante. Inoltre, in molti non si sono potuti permettere i costosi biglietti del tour, come quelli per la storica data al Madison Square Garden, dove sul palco ci sono anche Ike e Tina Turner. Nelle previsioni, mezza America sarebbe accorsa ai loro piedi.

Cominciano i problemi: i permessi per le location, dal Golden Gate Park di San Francisco al Sears Point Raceway di Sonoma, sono negati. Spunta Livermore, una località con un circuito automobilistico in disuso, persa nel deserto californiano. E la sicurezza? Il management dei Rolling Stones arruola gli Hell’s Angels, raccomandati dai Grateful Dead, motociclisti schedati come criminali. Non è la prima volta che si trovano a controllare un concerto, ma non sono certo un servizio professionale: pagati in alcol, armati di coltelli e stecche da biliardo, instaurano un clima di prevaricazione, dominato dalla violenza. Cinquant’anni dopo, Altamont appare come la rilettura inerme di un disastro annunciato, con un dettaglio da non trascurare: la totale mancanza di tolleranza e rispetto durante il concerto.

Jagger continua a camminare, facendosi largo a fatica tra la folla. All’improvviso, un tizio sbuca dal nulla e tenta di aggredirlo. È palese, la situazione è fuori controllo: non è un festival, è una bolgia degenerata per chiunque, spettatori e artisti. Nemmeno il palco è un rifugio sicuro, chiunque può saltare sopra la pedana alta un metro scarso. La corda tesa per tenere lontani i fan sopravvive giusto una manciata di minuti, per spezzarsi durante l’esibizione di Santana. Fanno seguito i Jefferson Airplane, ma il loro set è interrotto a causa di disordini tra pubblico e motociclisti. Marty Balin, nel tentativo di invitare alla calma, si becca un pugno in faccia. C’è quiete apparente coi Flying Burrito Brothers, ma la tensione sale di nuovo con Crosby, Stills, Nash & Young, quando il batterista viene punzecchiato (con una lama, non in senso figurato) per tutto il tempo da uno dei motociclisti. E i Grateful Dead? Non salgono nemmeno sul palco, ringraziano per l’opportunità e se ne vanno.

Quella che segue, è un’ora e un quarto di vuoto, nel deserto echeggiano migliaia di voci, canti, il frastuono delle motociclette che tagliano in due la folla, una febbre che sale fomentata da alcol e droghe. Così, alle 16:30, in anticipo rispetto alla scaletta, Jagger e gli altri saltano sul palco: di fronte a loro, prende vita un’onda magmatica di corpi.

1. “Jumpin’ Jack Flash”

Quando scoccano i primi accordi di Jumpin’ Jack Flash, dalla collina la folla si rovescia a valle, travolge qualsiasi cosa e si infrange contro il palco. Lì in mezzo c’è anche Hunter, nei suoi ultimi minuti di vita: non gli piacciono nemmeno tanto gli Stones, ma è stato al Monterey Jazz e vuole rivivere un’esperienza eccitante. Afroamericano, è conscio delle tensioni razziali che serpeggiano nel Paese e si porta una pistola per dissuadere chiunque voglia fargli anche solo paura. Nel frattempo, la canzone continua: è una delle prime scritte per Beggars Banquet nella turbolenta primavera del 1968, anche se poi non è stata inclusa nell’album. Per una grottesca ironia, sembra trascinare con sé quest’anima tumultuosa e diffonderla nell’etere. Esiste anche una versione cantata da Aretha Franklin, incisa per l’omonimo film con Whoopi Goldberg.

2. “Carol”

Subito dopo arriva Carol, pura devozione degli Stones al padre del rock’n’roll Chuck Berry. Il brano è una sorta di manifesto programmatico del gruppo, che lo sfoggia sul lato b del disco d’esordio, pubblicato nel 1964. È una delle nove cover presenti, tutte intrise di blues e rock’n’roll, a eccezione della ballata scritta da Jagger e Richards, Tell Me. Tra parentesi, quest’ultima è stata tradotta in italiano dall’Equipe 84 come Quel che ti ho dato. Secondo Keith Richards, l’incedere inarrestabile di questa canzone, il ritmo stesso, sarebbe merito del pianista Johnny Johnson: ad Altamont, il chitarrista scalda talmente la folla che il frontman degli Stones si volta verso di lui, quasi a implorare di domare quell’energia.

3. “Sympathy for the Devil”

Accesa la miccia, il processo è irreversibile: Sympathy for the Devil deve essere interrotta per invocare la calma. Dopo aver cantato una manciata di versi, Mick Jagger vacilla e si guarda intorno: sul palco si muove di tutto, giubbotti di pelle, lustrini, musicisti, spettatori. In questa canzone, compaiono le sonorità mutuate da culture musicali in apparenza lontane dagli Stones, il sitar pizzicato e la conga suonata da Rocky Dijon. La nascita del brano è documentata dal film di una delle menti più brillanti della Nouvelle Vague, che attraversa la Manica appositamente per loro: Jean-Luc Godard. Durante la lavorazione, per ottenere un’atmosfera più raccolta, Godard applica della carta velina troppo vicino alle luci. Gli Olympic Studios di Londra sono avvolti dalle fiamme. 

4. “The Sun Is Shining”

Superate le difficoltà, ecco The Sun Is Shining di Jimmy Reed, bluesman nato in uno sperduto paese del Mississippi. Non è un caso che le sue canzoni siano state intercettate dagli Stones: il suo blues è elettrico, i giri di chitarra ipnotici, combinati all’armonica affilata, lo fanno splendere tra i contemporanei, alla fine degli anni ’50. Il suo orecchio sente lontano, preannuncia quella rivoluzione pronta a cambiare definitivamente la musica. Peccato muoia forse prima di rendersene conto.

5. “Stray Cat Blues”

Gli scarni accordi di Stray Cat Blues annunciano uno di quei testi che sguazzano nel filone del sessualmente proibito, di cui gli Stones sono profeti: il protagonista della canzone si strugge dal desiderio per una groupie minorenne. Scandalo a parte, il tocco sperimentale non manca: su disco, è presente un Mellotron, suonato da Brian Jones. Lui, per l’appunto: solo pochi mesi prima, uno dei fondatori dei Rolling Stones, appassionato di blues, musicista raffinato e rabdomante sonoro, muore annegato nella piscina della sua casa di campagna. La canzone però è inossidabile: rivive parecchie generazioni più tardi, nei primi anni ’90, quando è la voce di Chris Cornell a riportarla alla vita con i Soundgarden.

6. “Love in Vain”

Da Let It Bleed arriva poi Love In Vain e, letteralmente, sanguina blues. Narra la leggenda che Robert Johnson, il suo autore, abbia venduto l’anima al diavolo, in un incrocio di Clarksdale, Mississippi. Gli Stones quell’incrocio lo hanno scovato, e conquistato, riunendo musica bianca e nera, mutuando le radici ancestrali di quest’ultima, coagulando due anime in qualcosa di nuovo.

7. “Under My Thumb”

Leggende a parte, il concerto di Altamont è nel delirio: Under My Thumb viene interrotta a lungo. Mick Jagger nota che la folla è indomabile, ormai gli inviti a godersi la musica non servono a nulla. Questa è la canzone del cuore tragico di Altamont: dopo essere stato aggredito, Hunter estrae la Smith & Wesson, ma il coltello di un Hell’s Angels lo colpisce all’altezza del collo. La scena è ben visibile nel documentario Gimme Shelter, dell’anno successivo. Fuori dalla vista di tutti e dalla scena, il giovane muore per i ripetuti colpi ricevuti, come se fosse possibile essere ammazzato a un concerto da chi avrebbe dovuto garantire la sicurezza.

8. “Brown Sugar”

Solo pochi giorni prima, al Muscle Shoals Sound Studio in Alabama, gli Stones danno alla luce dei nuovi brani. Tra questi, la melodia di Brown Sugar, che stordisce la folla di Altamont già alla sua prima esecuzione pubblica, è incisa sugli otto piste e si prepara a entrare nella storia. Prendono vita anche You Gotta Move e Wild Horses, una canzone al giorno per tre giorni. Ai Muscle Shoals sono state realizzate anche pietre miliari del soul, con gli stessi microfoni hanno cantato artisti come Aretha Franklin e Wilson Pickett.

9. “Midnight Rambler”

Il testo di Midnight Rambler affonda nell’ispirazione più oscura, la confessione di Albert De Salvo, lo strangolatore che terrorizza Boston nei primi anni ’60. Eppure il potere della musica è soverchiante, un vortice del riff di chitarra distrae dalle sinistre implicazioni narrative, l’armonica è un invito a volare alto, oltre l’orrore. Una canzone macabra, fosca, che viene scritta da Jagger e Richards… al sole di Positano, durante una vacanza.

10. “Live with Me”

Non è certo una delle più note dei Rolling Stones, ma Live with Me ha un significato non trascurabile: è la prima suonata da Mick Taylor, il nuovo chitarrista della band. Il debutto avviene durante il concerto tributo a Brian Jones di Hyde Park. Il 1969 per gli Stones sembra un anno maledetto e ha il sapore di una strana coincidenza il loro tornare ad affondare le radici nel fango del Mississippi, recuperando la lezione di Muddy Waters e soci dopo aver adocchiato psichedelia e sperimentazioni.

11. “Gimme Shelter”

La tensione torna con Gimme Shelter. Su disco, è la cantante Merry Clayton a conquistare le note più alte, in sostegno alla voce di Jagger. Anche questo brano arriva da Let It Bleed, pubblicato il giorno prima di Altamont e che sembra predire la caduta nel baratro degli ideali inseguiti nel decennio dei ’60. Il titolo di questo brano diventa poi anche quello del documentario.

12. “Little Queenie”

Pochi secondi e torna Chuck Berry con la cover di Little Queenie, ipnotico, monolitico, universale. Di Berry, del resto, è anche il primo singolo degli Stones, una cover di Come On pubblicata nell’estate del 1963. L’amore per blues e rock’n’roll accomuna Mick Jagger e Keith Richards, superando le barriere sociali. Il blues, di cui Brian Jones è convinto praticante, li conduce alla corte di Alexis Korner e li mette sulla strada per diventare il primo gruppo blues inglese.

13. “(I Can’t Get No) Satisfaction”

C’è un’altra prima volta: quando i Rolling Stones salgono al numero uno nella classifica degli Stati Uniti. E accade con (I Can’t Get No) Satisfaction. È una delle canzoni che simboleggiano la rivoluzione di Keith Richards nello scoprire l’accordatura aperta in sol a cinque corde, che sarebbe diventata un personale archetipo di stile. Richards risale ai padri del blues, raschia l’energia essenziale della chitarra, scopre un parallelismo con il banjo, usato nell’America rurale prima degli anni ’20, con il lancio delle Gibson a prezzi accessibili. Infine, e non certo per importanza, osserva Ry Cooder, ne cattura lo spirito originario e reinventa la chitarra elettrica. Le sue corse tra gli accordi aperti sono notate anche da altri musicisti, tra cui uno in particolare che vuole saperne di più, appena lo ascolta: Ike Turner.

14. “Honky Tonk Women”

Country e blues, in una sorta di summa del rock’n’roll, confluiscono in Honky Tonk Women. È una delle canzoni degli Stones che più artisti hanno rifatto, da Ricky Nelson a Elton John, da una parte all’altra dell’Atlantico, piegando la struttura a generi più diversi. Una versione alternativa è suonata anche dalla stessa band, che piazza una Country Honk in Let It Bleed.

15. “Street Fighting Man”

Il congedo, e non sembra casuale, avviene su Street Fighting Man. L’impeto rivoluzionario della voce ruvida di Mick Jagger, sorretta dal battito alla batteria, sgorga dall’attualità, tra gli scioperi di Parigi e i tumulti della settimana santa a Washington. Brian Jones si cimenta con il tamboura, non certo l’unica influenza orientale, ma forse la più inosservata. Il brano non è pubblicato come singolo nel Regno Unito e pure in Usa incontra delle difficoltà: per il suo afflato ribelle, viene bandita da diverse stazioni radio. Terminata questa canzone, gli Stones scendono dal palco di Altamont, ignari di quanto è accaduto.

Il concerto di Altamont è una tragedia, per l’ineluttabile e colpevole susseguirsi di fatti che portano all’omicidio di Meredith Hunter e alla morte di altri tre (un annegato e due investite), senza contare centinaia di feriti, lasciati in balia della disorganizzazione. Il giorno dopo, sui giornali non si parla nemmeno della gravità della situazione, ma Stefan Ponek, dj della radio KSAN-FM di San Francisco, decide di vederci più a fondo e inizia a indagare dal suo microfono.

Altamont lascia una ferita profonda, una tomba per anni anonima, un caso giudiziario specchio di una società schiava di pregiudizi. Sogni di gloria e rivoluzione si infrangono contro una storia complessa, tremendamente attuale, dove la musica passa in secondo piano. Come racconta Keith Richards nella sua biografia, “ad Altamont fu il lato oscuro della natura umana a prendere il sopravvento, ciò che può avvenire nel cuore di tenebra dell’uomo, il ritorno a un livello primitivo nel rapido volgere di poche ore”. Il paradosso è che, mentre si consuma l’orrore, sul palco gli Stones suonano, secondo molti, come mai prima di allora. Come se avessero donato la propria anima al diavolo.

Iscriviti