Addio a Mick Rock, il fotografo-poeta che ha cambiato l’estetica rock | Rolling Stone Italia
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Addio a Mick Rock, il fotografo-poeta che ha cambiato l’estetica rock

C'era lui dietro alle immagini più belle di Bowie. "The man who shot the 70s” ha lavorato con chiunque, da Lou Reed a Miley Cyrus. Con lui le foto rock diventano azione performativa parte di un concept

Addio a Mick Rock, il fotografo-poeta che ha cambiato l’estetica rock

Mick Rock

Foto: Angela Weiss/Getty Images

La morte di Mick Rock rappresenta, per alcuni versi e per un’era precisa, una seconda morte anche per David Bowie e questo già a partire dalla semplice e assoluta connessione che la rock’n’roll star, di cui cantava e ironizzava Bowie stesso nell’album che cambiò per sempre la sua vita, ha per definizione con coloro che l’hanno resa tale allo sguardo e all’immaginario: un’icona, appunto, un’immagine. Mick Rock, che aveva conosciuto Bowie proprio all’alba del suo periodo glam, era stato il primo a fare dell’immagine di David Robert Jones l’immagine di David Bowie agli occhi del mondo; era stato, poi, il fotografo di Ziggy Stardust ed era arrivato anche più in là, amico fino all’ultimo, con tutte le peripezie e le curve che la vita con naturalezza impone.

La centralità di Mick Rock, eletto in breve tempo a fotografo ufficiale del ragazzo di Brixton poi alieno sceso sulla Terra con una band di ragni marziani al seguito, è per il primo Bowie noto al mondo, qualcosa di mai ripetuto nella storia del rock. Per la prima volta su scala larghissima, infatti, il rock era, già al suo principio, anche immagine e dunque per la prima volta, anche la sua fotografia, il ritratto e lo sguardo sul suo artista, diventavano azione performativa parte di un concept, spazio centrale di un progetto artistico che – come sempre nel glam – nasce già oltre il suono, oltre la musica, oltre la scrittura sposandole immediatamente, sul nascere, proprio con la loro immagine esterna, il loro corpo di lustrini nel mondo. Se David Bailey era diventato in breve in fotografo della Swinging London dopo aver lasciato la scuola durante l’adolescenza e aver comprato la sua prima Rolleiflex da arruolato nella Royal Air Force negli anni ’50, la storia di Mick Rock è diversa e indicativa nel definire lo scarto di passo tra i 60s e i 70s.

Laureato in lingua e letteratura medievale e moderna a Cambridge Mick Rock, infatti, usa come filtro del suo mondo – anche fotografico – quello della grande poesia romantica inglese, ama Shelley e Byron ma pure i ‘maledetti’ francesi, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Inizia a fotografare i musicisti nel modo più classico, girando per concerti proprio a Cambridge negli anni dello studio e scattando ritratti di artisti della scena locale, in primis Syd Barrett. Sarà Rock, nel 1972, a occuparsi dell’incredibile copertina del primo album solista dell’ex Pink Floyd (The Madcap Laughs) e del servizio all’interno dell’album. In breve, partendo dai locali e dal confronto fisico con i backstage (e gli after), Rock diventa il fotografo inglese degli anni ’70 così come Bailey era stato quello dei 60s. Gli anni ’70 sono però più sporchi, sono lerci – lo diceva sempre Bowie cercando di smitizzare l’immagine elegante dei suoi boa di struzzo che «non avete idea di che odori ci portassimo in giro al tempo» – ma sono anche il luogo in cui sul lercio puoi mettere il trucco e le pailettes, il tempo su cui puoi, appunto, stendere velluti e sete, perché questo insegna il glam da Bolan al Rocky Horror Picture Show – anch’esso fotografato ufficialmente da Rock – la possibilità di farla franca in qualche modo, di superare le periferie, i disagi, i drammi, aspirando alla bellezza, al gusto, a una purezza che riesce a mescolarsi al torpore senza rinunciarvi, includendo e mai escludendo il piacere, l’edonismo, il desiderio. Un’eleganza che include lo sturm und drang del mondo, e lo processa in bellezza, lo eleva, dimostrandoti che essere niente – venire cioè dai margini, esserci nato – renderà solo più semplice la trasformazione in qualsiasi-cosa-tu-voglia-diventare.

E allora, chi meglio di un amante del raso e delle sete della poesia maudit e romantica per raccontare tutto questo, per scoprire, velando, un mondo dove tutti siamo potenziali di rinascite, tutti siamo scelte e non destini, dove tutti è nessun escluso? Mick Rock era l’anima 70s perfetta per questo ruolo, imbevuto di letteratura come il piccolo David Jones, coi libri nei taschini sui double decker, quel gusto per il gusto appreso guardando i fiocchi anarchici dei poeti e una tensione che dal basso sale verso il sapere, il conoscere, il nutrimento vario e libero e non solo per necessità storica, generazionale.

 

 
 
 
 
 
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Negli anni Mick Rock avrebbe poi fotografato tutto e tutti, sarebbe uscito dal glam come il suo primo fedele sodale, avrebbe scattato ritratti praticamente a chiunque: da Snoop Dogg a Lady Gaga, da Michael Bublé a Miley Cyrus, da Kate Moss ai Chemical Brothers, dai Daft Punk a Hall & Oates, dagli MGMT ai Jane’s Addiction e questo naturalmente senza scordarci dei padri e delle loro opere: dalla copertina di Coney Island Baby di Lou Reed, ai ritratti di Debbie Harry e Iggy Pop e molto, moltissimo, ancora. Tuttavia, tutto, in principio, fu proprio Bowie, chiave di una liberazione estetica, culturale, emotiva e sessuale tramandata ai posteri da praticamente ogni scatto cruciale dell’era di Ziggy. Quella foto con le dita che mimano sul volto un paio di occhiali e quella col sax in mano su fondo rosso, quella con la sigaretta e il sorriso torbido che sembra volerti portare subito di là e quell’intero set in rosa, finestra alta che fa entrare la luce, specchio quasi a suggerire un’idea di risveglio e vestaglia da signorotto a palazzo.

Gli esempi si sprecano, la lista è lunghissima e i fan di Bowie la conoscono a memoria proprio come una canzone. Molte di queste fotografie portano nel mondo un’estetica sovversiva, ritraggono costumi che implicano il transito, sui palchi, di altri costumi, quelli sessuali, ancora alieni al riconoscimento da parte della middle class inglese e in generale della società, qualcosa di nuovo, dirompente, a cui il mondo non è ancora abituato – e forse non lo sarà mai.

 

 
 
 
 
 
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Non si sa se sia un ragazzo o una ragazza quest’alieno caduto sulla Terra e dunque – e specialmente questo tocca nel nodo, non si sa con chi voglia accompagnarsi – chi voglia portarsi a letto. A questo proposito Mick Rock spinge sul click e scatta un’immagine epocale non tanto per la storia della fotografia musicale ma, appunto, per aver immortalato cioè sottratto alla morte, un frammento della rivoluzione del costume che, in casi come questo, il rock attiva. Siamo alla Oxford Town Hall nel 1972 e durante un solo di Mick Ronson, chitarrista degli Spiders from Mars e suo primo compagno di giochini sul palco, Bowie si inginocchia, gamba sinistra tra le cosce del chitarrista, mani aperte sulle sue natiche, lui solleva lo strumento – che a questo punto allude a uno strumento ben diverso – e Bowie simula una scena di sesso orale, un pompino o un cunnilingus, la stampa è divisa e anche questo è interessante, perché nella totale perdita delle definizioni e dei generi, nella totale liberazione dell’identità, in quel momento Ronson e Bowie sono uomini e donne, sono musicisti e amanti, sono qualsiasi-cosa-tu-voglia-loro-siano.

La fotografia è impressionante, destinata automaticamente agli annali: è intensa, totalizzante, oltre l’erotico, slegata da qualunque immagine vista prima, roba da far quasi impallidire il viso di Hendrix chino sulle corde della sua Strato a suonare con i denti e con la lingua. A lungo quella foto è stata appesa sulla porta di ingresso della mia stanza, ero una tredicenne che aveva scoperto Bowie negli anni ’90 come molti giovanissimi nei decenni precedenti e come molti di loro ero diventata una che si era servita di lui, con dolcezza e forza, per rendermi pronta ad affermare tutte le forme possibili della mia libertà, qualora la vita mi avesse imposto la necessità di farlo. Così mettevo le mani avanti, come tanti altri prima di me e come tanti avrebbero fatto dopo e faranno, speriamo sempre, fino alla fine dei tempi: mettevo quella foto sulla porta d’ingresso del mio mondo, come a dire, con quel pizzico di necessaria e luccicante provocazione adolescenziale, che dentro quella stanza avrebbero potuto trovare tutto quello che io volevo essere, tutto quello che sarei stata o non sarei stata mai ma affermando, lì all’ingresso della mia vita, che le possibilità erano infinite, le libertà dalla mia parte, oltre quella porta.

Questo antro aperto alla possibilità è solo una delle molte meraviglie che David Bowie ha lasciato a vivere su questa Terra ma senza quella foto, senza molte di quelle foto scattate da chi oggi lo raggiunge, forse l’avremmo vista in modo diverso, o forse non l’avremmo semplicemente scoperta mai con tanta deflagrante chiarezza.

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