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Achille Lauro è già diventato un pezzo da museo

Una mostra al Mudec di Milano e un libro edito da 24 Ore Cultura contengono i suoi costumi e “quadri”. È un viaggio nelle ambizioni "alte" d'un artista passato dai sedili della Rolls al trono della cultura pop

Foto: Luca D'Amelio

Da rapper di periferia a performer trasformista androgino ed eccentrico ad artista a tutto tondo con ambizioni che vanno ben oltre la musica e che riflette sulle forme e sul significato del pop nella contemporaneità, alla fine Achille Lauro è finito pure in un museo. Con i suoi abiti di scena, con gli scatti d’autore che lo ritraggono, con gli strumenti musicali e gli oggetti utilizzati negli ultimi anni dall’artista e con una piccola performance pensata per i fan nel giorno dell’inaugurazione della mostra. Anche un mondo un po’ più alto, ben rappresentato dal Museo delle Culture di Milano (Mudec) che ha accolto l’esposizione (una stanza, fino al 10 ottobre) e da 24 Ore Cultura che ha edito il libro fotografico che la accompagna, ha sposato il credo lauriano.

Nessun personaggio arrivato dall’ambiente di Lauro l’aveva mai fatto. Nessun trapper ci era arrivato ricoperto di tatuaggi dopo essersi vestito da San Francesco d’Assisi e da Regina Elisabetta, dopo aver baciato il suo chitarrista in giarrettiera, dopo aver reinterpretato a modo suo l’arte sacra e i suoi simboli. Ora il cerchio si chiude e il cantante di Rolls Royce passa definitivamente in un mondo rispettabile e sofisticato, in un mondo serio e da grandi.

Da qualche anno Achille Lauro non è più il rapper e cantautore che si mette a scrivere nella cameretta e non è neanche più l’animale da palcoscenico al quale basta scatenarsi sul palco. Da tempo ambisce a trasmettere qualcosa di diverso, che è in primo luogo uno sfrenato senso di libertà. La libertà di trasformarsi e di esprimersi nella maniera più completa possibile attraverso la musica, la moda, la performance, il linguaggio e attraverso il suo modo di porsi e comunicare con il pubblico e con chi lo circonda. L’urgenza di essere vero, punto d’onore per il rap underground dal quale proviene, rimane ma nel suo caso si declina in un modo che lo porta a non precludersi alcuna possibilità e a non lasciarsi intrappolare da alcun tipo di aspettativa. Essere vero non è più essere sempre lo stesso, ma esprimersi in modo multiforme. Un modello di coerenza figlio del trasformismo di Bowie.

‘Achille Lauro’, 24 Ore Cultura, 280 pagine di cui 192 illustrate, 79 euro

Troppo? Decisamente. Durante la conferenza stampa organizzata nell’auditorium del Mudec per presentare il libro fotografico Achille Lauro e per inaugurare la mostra Lauro siede su un trono. Non sono permesse domande. Nel testo del volume si parla di genio, di predestinato e di repertorio delle maschere lauriane. Dal trono Lauro ripete la parola rivoluzione. Spesso si parla di progetto-Lauro e non di Achille Lauro, come a sottolineare l’imponenza dello sforzo creativo e del business dietro al cantante. Che poi cantante non è certamente più l’espressione che meglio rappresenta Achille Lauro, per il quale la musica è ormai parte di una più ampia concezione del ruolo dell’artista e del pop.

Lauro ha un grande merito. Nonostante la grandeur, è un estimatore della cultura dell’errore e del fallimento ed è in quest’ottica che dà forma ai suoi progetti e alle sue idee. Si assume rischi, non ha paura di rovinare la sua carriera, porta sulle spalle la possibilità di fare dei grandi passi falsi perché grandi sono i passi che fa. In questo senso non abbandona mai la sua libertà espressiva e la sua fragilità, esposta anzi tanto nella musica quanto in qualsiasi suo progetto. Le rose, quelle dei giudizi, che nell’ultimo quadro portato a Sanremo 2021 lo trafiggono sono sempre lì, Lauro non ha nessuna intenzione di togliersele dal petto né ha intenzione di asciugare le lacrime di sangue che caratterizzano un’altra delle sue performance più significative di Sanremo 2021.

Lauro non passerà alla storia per aver aperto la strada a un nuovo modo di essere artista, ma passerà alla storia per il suo coraggio, senza avere le spalle coperte, di farsi portavoce di un rischioso inno alla libertà che raramente si era visto nel nostro Paese, in termini di ambizioni creative, di fluidità di genere sessuale e musicale, di abbattimento della sacralità di spazi fisici e mentali. È un coraggio fragile, a guardarlo bene, non un coraggio che ruggisce. Non c’è bisogno di parlare di Messia. Basta questo, e un pizzico di umiltà.

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