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A Parigi con Manu Chao, in lotta col mondo

Un giornalista inglese, «l'Indiana Jones della world music» (copyright Malcolm McLaren), va in giro col musicista alla ricerca delle sue radici. Per capire il suo modo unico di fare musica, il profilo a metà fra Marley e il Che, il rapporto coi soldi e il potere. Tratto dal libro ‘Clandestino - Alla Ricerca di Manu Chao’

Foto press

“Pig’s Alley” è il soprannome che le forze dell’ordine hanno dato a Pigalle, lo squallido quartiere parigino dove Manu possiede un piccolo monolocale sopra all’ufficio della Corida, il suo management. Siamo d’accordo di incontrarci lì. Appena girato l’angolo un uomo dalla pelle a chiazze, bianco quanto un orso polare per la mancanza di luce, inveisce contro di me per non aver preso il suo biglietto da visita che pubblicizza un night club nei paraggi.

Pigalle è pieno di insegne al neon luccicanti, volte ad ipnotizzare il cervello degli ignari visitatori. Le sale per massaggi coreani si alternano ai negozi di souvenir che vendono banale cianfrusaglia per turisti. È quel genere di posto dove, scattata la mezzanotte, gli schermi dei bancomat dovrebbero fare apparire la scritta lampeggiante “NE SEI PROPRIO SICURO?”. A pochi isolati di distanza ci sono dei locali che aspirano a manifestazioni più artistiche e sofisticate dei mestieri legati all’erotismo, con i loro spettacoli di burlesque fatti di una seduzione pittoresca e una certa importanza storica, come il Moulin Rouge o il Musée de l’Érotisme. Picasso e Toulouse-Lautrec vissero nei dintorni. Un po’ più a est, vicino al quartiere nord-africano di Barbès, c’è un’originale sala concerti chiamata La Cigalle, gestita dal management di Manu. Pigalle è stato anche il quartiere del tour rivoluzionario della Mano Negra, quando decisero di utilizzare gli strip club come sale da concerto.

Il monolocale che Manu utilizza quando si trova a Parigi e che ha preso in comproprietà con la sua agenzia, assomiglia più a un covo da universitari che a una casa: materassi sul pavimento, uno stereo piuttosto semplice, un computer, e qualche vestito poggiato su una sedia. Una scatola di cioccolatini di S. Valentino mangiata a metà giace tristemente su un comodino. Mi fa pensare alla sua gioventù nei sobborghi di Sèvres, quando il desiderio più grande era scappare da Parigi il prima possibile. “Non c’era molto da fare per un adolescente”, ricorda. “Passavamo il tempo a bazzicare attorno al distributore di benzina. A volte la polizia ci faceva andare via. E poi si tornava a casa”.

Certo, Parigi non è mai stata il fulcro del suo amato rock’n’roll, il che aumentò soltanto il desiderio di nuovi orizzonti. “Quando tornai a Sèvres non era cambiata più di tanto. Io ero l’unico ad essere scappato. Ero quello fortunato. Al giorno d’oggi i figli dei ragazzi della mia compagnia frequentano gli stessi identici posti”.

Un buon numero di suoi amici non è uscito bene da quel periodo. “Trafficavamo con un po’ di marijuana, a volte anche dello speed”, racconta Manu. “Poi ricordo che arrivò uno dei ragazzi più grandi con della polvere mai vista… era eroina… dicendo che avremmo dovuto iniziare a venderne un po’. Sono stato tra quelli fortunati, non l’ho mai toccata”. Qualche ragazzo del gruppo si lasciò prendere la mano e finì col diventarne dipendente. Ma fino a che punto la sua fuga da Parigi è stata un colpo di fortuna, un giro della ruota nella vita tombola?

A differenza della maggior parte degli altri ragazzi della compagnia, Manu aveva alle spalle una famiglia amorevole e una casa piena di libri che gli avevano dato integrità morale, autostima e una certa apertura mentale. I suoi sogni adolescenziali non furono guidati soltanto dal bisogno di evadere dalla monotonia della periferia ma anche dalla determinazione, dall’ambizione e dalla predisposizione al duro lavoro. La “lotteria genetica” gli ha regalato una costituzione forte e un’intelligenza spiccata. La Mano Negra si era ritrovata nel posto giusto al momento giusto, ma Manu era preparato già da tempo. “Quando succede qualcosa di fortunato” afferma, “può capitare di bruciarsi le mani, se non si è pronti”. Ma quando la fortuna poggiò gli occhi su di lui, Manu fu pronto ad approfittarne.

Fu soltanto quando tornò a Parigi da “straniero”, dopo averla evitata per anni, che riuscì ad apprezzarne la bellezza. In questo monolocale di Pigalle fece definitivamente pace con la città da lui stesso definita “dal cuore freddo”, dando vita a un libro e a un CD chiamati Sibérie M’Était Contée, in collaborazione con l’illustratore polacco Jacek Wozniak. Manu e Wozniak si incontrarono grazie a suo padre Ramón, che conobbe l’illustratore nell’ambiente giornalistico parigino, e a cui piacquero così tanto i suoi disegni da avere diverse sue illustrazioni tatuate sul corpo (una per ogni libro, ricordate?).

Dalla loro prima collaborazione, il rapporto tra Manu e Wozniak è diventato quasi simbiotico; quasi come se Wozniak fosse l’equivalente visivo della musica di Manu. Ha creato il suo logo distintivo, l’artwork di La Radiolina e di altri album, una miriade di immagini presenti nel suo sito web e nei suoi album, e un libro del 2012 intitolato Manu & Chao. I due – sotto il nome di Manwoz – hanno anche collaborato a diverse esposizioni d’arte a Perpignan, Barcellona, Guadalajara e Maiorca. Per il personaggio di Manwoz hanno creato questa biografia curiosamente familiare:

“Nato nelle lontane pianure dell’Ucraina nel 1959, vicino alla sinistra Chernobyl, Manwoz è l’unico maschio in una famiglia numerosa. 
Suo padre era galiziano, e sua madre gestiva una taverna.
In età giovanile, Manwoz si stufò della famiglia e della scuola e a quindici anni decise di viaggiare per il mondo alla ricerca… di chi era scomparso.
E da allora lui cerca, cerca, cerca e osserva…”

L’album e l’omonimo libro Sibérie M’Était Contée rappresentarono effettivamente la prima apparizione di Manwoz. Ma dal punto di vista musicale, l’innovazione più sorprendente era data dal fatto che il testo delle canzoni dell’album fosse in francese, e il soggetto indiscutibilmente la città di Parigi. Come molti dei suoi progetti, si modificò e continuò ad evolversi nel tempo, dato che sia Manu che Wozniak continuarono a lavorarci. Fu pensato originariamente come un libro di 48 pagine e un CD di 6 canzoni, ma raggiunse 148 pagine e 23 canzoni nella sua seconda edizione.

In un angolo dell’appartamento di Manu ci sono una scatola marrone piena di pezzetti di carta tutti scarabocchiati di appunti, e una scatola nera piena di giocattoli tecnologici. È tutto ciò che ha utilizzato per creare le canzoni di Sibérie, per la prima volta registrando e mixando tutto da solo, e sovra incidendo poi tromba e armonica nelle sequenze elettroniche un po’ troppo basiche. La musica – una tranquilla e deliziosa melodia – è stata chiaramente influenzata dalla musette francese, la popolare musica da ballo parigina degli anni Trenta, dai “valzer sporchi” e dal cabaret tagliente delle generazioni precedenti.

Manu ripensa a quanto odiasse la musica francese in gioventù: “Pensavo che la musica francese fosse una vera stronzata. Era la musica che ascoltava mio nonno, e non mi venne mai in mente di scrivere una canzone in francese. Lo trovavo orribile, totalmente di vecchia scuola”. Solo molto tempo dopo iniziò ad apprezzare i tesori della chanson francese, scoprendo autori come Jacques Brel ed Edith Piaf, che, realizzò lentamente, erano stati rock’n’roll in una maniera del tutto particolare.

Sibérie M’Était Contée è un viaggio nel tempo attraverso la fiorente storia culturale parigina. Una delle sue influenze è certamente stata Blaise Cendrars – lo scrittore con un braccio solo (l’altro lo perse durante la Prima Guerra Mondiale) – che conobbe e influenzò poeti come Breton e Apollinaire. Per tutti gli anni Venti visse in una stanza di Biarritz decorata da murales di Picasso, e girò il paese con una Alfa Romeo personalizzata da Braque. Più tardi, nel 1954, collaborò con il pittore Fernand Léger all’opera Paris, Ma Ville, una lettera d’amore alla capitale carica di disillusione e nostalgia. La sua poesia su una gita trans-siberiana insieme alla sua amata Jeanne, lo vede recitare: “Dimmi, quanto siamo lontani da Montmartre?” Un’altra figura percepibile nel profondo dell’album e del libro è Jacques Prévert, poeta surrealista e attivista politico, oltre ad essere un abile sceneggiatore. Nell’album viene citato il suo film più famoso, Les Enfants Du Paradis. Le sue poesie allegre e giocose sono molto amate dai bambini e fanno parte del programma scolastico francese.

Manu ha cercato ispirazione nei movimenti surrealisti e dadaisti degli anni Venti, nati principalmente come reazione all’insensata mattanza della Prima Guerra Mondiale. La rabbia, il nichilismo e l’anti-autoritarismo di questi movimenti avevano qualcosa in comune con la ribellione punk e la scena newyorkese degli anni Settanta. Per tutti gli anni Venti, Parigi fu lo scenario di esibizioni selvagge e originali come la Parade, un balletto surrealista in un unico atto su musica di Erik Satie, soggetto di Jean Cocteau, e con Pablo Picasso alla direzione artistica, che creò gli strani costumi indossati dagli attori. Oppure il Ballet Mécanique di George Antheil e Fernand Léger, composto da sedici pianole e vari oggetti meccanici.

Negli anni Settanta – io e Manu abbiamo parlato a lungo di questo quando ci trovavamo a New York – Manhattan poteva vantare una simile sovrapposizione tra avanguardia e musica popolare. Rock band come i Television e i Talking Heads avevano ottime credenziali artistiche, mentre compositori come Steve Reich e Philip Glass stavano raggiungendo un pubblico rock. Nel giro di qualche anno, e in pochi metri quadrati, si svilupparono il punk, l’hip hop, la disco e la salsa, che poi si diffusero in tutto il mondo.
A differenza dell’era del punk – che si rivelò di grande ispirazione per Manu ma la cui energia proveniva da luoghi differenti – la capitale francese fu il principale centro culturale degli anni Venti. Quel periodo di apoteosi iniziò ad affascinarlo e ispirarlo. I tempi d’oro della scena alterativa di Parigi, con la sua musica, i teatri di strada e i circoli anarchici, avevano lo stesso potenziale, ma implosero ancora prima di decollare. Manu sentiva la mancanza del cameratismo di quegli anni, così come di amici di vecchia data come Helno dei Les Négresses Vertes, che morì per overdose di eroina nel 1993.

La memoria di Helno ispirò la canzone più originale e inquietante di tutto l’album, Helno Est Mort, ottenuta mischiando la melodia e parte delle parole della filastrocca per bambini Au Claire de la Lune. A metà della canzone appare una melodia in contrapposizione, che ricorda molto un funeral blues di New Orleans, mentre Manu canta a ripetizione “Don’t wanna lose nobody close to me”.

Dopo la rottura improvvisa dei Bérurier Noir, i Les Négresses Vertes rappresentarono, insieme alla Mano Negra, l’altro gruppo rock militante in grado di emergere dal calderone della scena alternativa dei sobborghi parigini degli anni Ottanta. La band mischiava punk, mambo, flamenco, raï algerino e cori rivoluzionari, non a caso il loro primo singolo venne intitolato 200 Ans d’Hypocrisie. La Virgin li mise sotto contratto la stessa settimana della Mano Negra. Helno, il carismatico cantante e autore dei testi, non era soltanto un semplice amico ma la figura più simile a Manu della scena musicale di Parigi, quasi uno specchio e un’ombra.

Il titolo Sibérie M’Était Contée è un gioco di parole su più strati. Sibérie, per esempio, può essere letta come “se Parigi” (si in francese significa “se”, mentre bérie è una pronuncia dialettale per “Paris”), e potrebbe rimandare anche a Jean Tiberi, sindaco di Parigi durante gli anni Novanta. Il sottotitolo “A tous les pêcheurs du fleuve amour” gioca con le parole pêcheurs, che significa sia “pescatori” che “peccatori”, e amour, che significa “amore” ma si riferisce indirettamente al fiume siberiano Amur, che scorre scuro e serpentino lungo il confine della Manciuria e venne dichiarato sacro dalla Dinastia Qing.

Con la sua desolazione e gli inverni gelidi, la Siberia sembrò a Manu una metafora perfettamente ragionevole, anche se poco probabile, per raccontare Parigi, omaggiata con immagini poetiche come “il primo raggio dorato del mattino” che si posa tetramente sulla Gare du Nord. “Ho trascorso i miei primi ventisei inverni a Parigi”, racconta. “Sentivo che molte relazioni umane erano fredde e grigie. Adesso vengo qui da forestiero, la mia Parigi sono Ménilmontant e i locali di quella zona”.

La prima canzone, P’tit Jardin, descrive il giardino magico di Manu, un posto che contiene spazzatura, scarafaggi, il suo cane e alcune fabbriche, ma anche belle ragazze che piangono, la bici di suo fratello, grandi foreste di pini e un unico fiore selvatico. Il Faut Manger, con il suo giro di chitarra afro-blues gentilmente concesso da Amadou Bagayoko di Amadou & Mariam, parla invece della lotta dei migranti per cibo e denaro. Ci sono anche dei riferimenti alla sua infanzia a Sèvres. In J’Ai Besoin De La Lune, riciclata poi su La Radiolina, racconta in maniera toccante di quanto abbia bisogno “che mio padre mi dica da dove vengo, che mia madre mi mostri la strada”.

Sibérie M’Était Contée ha rappresentato un’innovazione sotto molti aspetti: è stato il primo album di Manu in francese – accompagnato dal libro di illustrazioni con la tipica vivacità dei colori di Wozniak – e anche il primo progetto interamente mixato e prodotto da lui. Un altro passo importante verso l’autonomia è stato il rilascio del progetto tramite canali indipendenti: la Corida ne distribuì un’edizione limitata di 150000 copie attraverso le librerie.

Dopo la morte del suo manager Jacques Renault, Manu firmò un contratto con Emmanuel de Buretel, ex-direttore della Virgin Europe, e suo amico da anni. Anche Manu aveva lasciato la major discografica. “Fu una decisione sindacalista”, risponde quando domando le motivazioni del suo addio alla Virgin. “Ho lavorato con loro per la maggior parte della mia carriera e molte persone tra il personale sono ottimi professionisti e miei amici. Così, quando la Virgin EMI provò a dire: “Il prossimo settembre ci sarà un taglio del personale del trenta per cento”, io dissi immediatamente: “Bene, potete includermi in quel trenta per cento. Sono solidale con la mia gente”. La compagnia non stava perdendo soldi, non avevano alcun motivo per licenziare quelle persone”.

Ma ammette anche che la separazione fosse dovuta a cause molto più complicate di questa. La contraddizione di essere uno dei principali sostenitori della lotta alla globalizzazione ma sotto contratto con Virgin – che ora fa parte della multinazionale EMI – iniziava a pesare un po’ troppo. E, cosa ancora più importante, Manu era pronto ad andare avanti da solo. Quando de Buretel lasciò la Virgin poco tempo dopo, l’unione delle forze sembrò abbastanza logica a entrambi. De Buretel fondò la sua propria etichetta e la chiamò Because (per via della canzone dei Beatles e per il gioco di parole con “be cause”). Le sue prime uscite inclusero Dimanche À Bamako di Amadou & Mariam e La Radiolina di Manu, e adesso gestisce tutti i progetti di Manu da solista, oltre a una serie di band contemporanee come i Metronomy e i Django Django.

Anche se Sibérie significò un rapprochement con la città da cui Manu aveva scelto di scappare per cosi tanti anni, il rapporto rimase molto diffidente. Tra il 2001 e il 2008 non si esibì a Parigi nemmeno una volta. E la diffidenza fu reciproca. Molti arbitri del buongusto e trandsetter della scena musicale della capitale francese espressero indifferenza, se non ostilità, verso il figlio nativo con il maggior successo internazionale. Un giornalista locale, a una mia domanda su Manu, rispose sbrigativamente “Non mi interessa un granché”. Mentre altri lo descrissero, fra i vari aggettivi, come un ricco impostore, un manipolatore, un dittatore e – forse l’accusa peggiore che si possa ricevere a Parigi – un tipo fuori moda.

È una verità biblica che nessuno sia profeta nella sua patria. Ci si sarebbe potuto aspettare che i tizi più modaioli e quelli occupati a inseguire le nuove tendenze fossero più interessati alle novità del momento, piuttosto che a un artista con un successo consolidato e non certo da scoprire. Ma il suo stile così trasandato (le stesse sneakers da sette anni, insomma Manu!) rappresentava un vero e proprio affronto a una città che tiene alla moda e allo stile più di qualunque altra cosa.

Secondo de Buretel, tutto questo livore fu dovuto a pura e semplice gelosia. Forse l’élite del rock parigino non digerì il fatto che Manu fosse diventato il prodotto più internazionale della città, incrementando i sentimenti di vittimismo già ben radicati nei loro spiriti. Oltretutto Manu non si è mai sentito a suo agio nei locali snob e alla moda di Parigi, dichiarando a più riprese che lo fanno sentire “come un contadino”. Usando le parole di Kieron Tyler, un giornalista inglese che si occupa di musica francese, “i suoi fan appartengono principalmente alla classe operaia e per la maggior parte si trovano nel sud del paese (dove il rap vende più di tutto il resto). La combinazione tra classe operaia e un territorio dominato dal rap lo hanno catapultato oltre le barriere dei gusti musicali della realtà urbana”.

Durante un viaggio a Parigi nel 2008, proprio il giorno del compleanno di Manu, vidi Radio Bemba suonare un concerto gratuito a Bondy, una delle tante banlieues della periferia. Gli abitanti di Bondy provavano ancora affetto per la Mano Negra, dovuto in gran parte alla Caravane des Quartiers, un tour rimasto nel cuore di tutti. Manu condivideva il palco con Idir, il cantante algerino autore di Denia, la cui cover si trova su Próxima Estación: Esperanza. Il pubblico era un miscuglio di giovani nord-africani, detti beurs, e giovani bianchi del proletariato, oltre a una manciata di intrepidi modaioli che avevano azzardato una gita nei sobborghi. La reazione dei presenti fu fieramente partigiana.

Durante quel viaggio, ebbi l’occasione di pranzare con Malcolm McLaren, che trascorse i suoi ultimi anni di vita principalmente a Parigi. Malcolm, catalizzatore globale non solo del punk ma anche dell’hip hop, della world music e persino della chanson francese, era molto affascinato da Manu, e stava pensando di realizzare un remix di una delle sue canzoni. “Cosa ne pensi, Peter?” mi disse. “È un genio? Voglio dire, non è Bob Dylan, o lo è?”.

Risposi confabulando qualcosa su quanto fosse differente il territorio artistico dei due soggetti, ma in verità ritenevo Malcolm stesso ad essere più simile a Manu. Erano entrambi antiautoritarii e contrari alle multinazionali dell’industria musicale, ma abbastanza determinati da riuscire a trarre dei buoni accordi e a preservare la propria autonomia. Erano affascinati dai movimenti culturali di Parigi, dal dadaismo al surrealismo fino agli eventi del ’68. Anche se McLaren, a differenza di Manu, si godeva eccome la moda e i ristoranti chic di Parigi.

Malcolm mi chiamò nell’esatto momento in cui mi trovavo nel backstage di Bondy, proprio mentre Manu assaporava la sua torta di compleanno, e ne approfittai per suggerire un incontro. Tuttavia, sembrò esserci diffidenza da entrambe le parti, come due bestioni che si trovano inaspettatamente a confronto in una foresta. Purtroppo, Malcolm ci ha lasciati nel 2010, rendendo impossibile una presentazione che mi sarebbe molto piaciuto fare.

La risposta all’altra accusa mossa dagli hipster parigini, secondo cui Manu sarebbe un “dittatore” nei confronti della sua band, viene spiegata perfettamente nei primi capitoli di questo libro: il suo tentativo di prendere le decisioni collettivamente finì in un disastro per la Mano Negra; l’approccio egalitario in materia di creazioni artistiche funziona davvero molto raramente. “Ma obbliga i suoi musicisti a stare in hotel economici”, è una delle lamentele che sentii a Parigi. Che è vero a metà. Manu odia la banalità e il costo eccessivo delle catene alberghiere, e lo sfarzo messo in mostra lo mette decisamente a disagio. Per cui lui e la band sono soliti soggiornare in hotel più economici e particolari. È una persona a cui non importa il materialismo che preferisce stare in posti più caratteristici, oppure sta solo molto attento ai suoi soldi? Probabilmente è una miscela di entrambe le cose. Ad ogni modo non è così fiscale a riguardo; quando lo incontrai a New York, per motivi di praticità soggiornava al banale ed elegante Holiday Inn. Di sicuro non è quel tipo di celebrità che soggiorna in hotel di lusso mandando il resto della band in qualche bettola locale. Senza ombra di dubbio può capitare che il gruppo abbia qualcosa da recriminare o che lui sia eccessivamente pretenzioso, ma l’esprit de corps e l’atmosfera piacevole che ci sono sul bus, così come la coesione e l’energia che si avvertono sul palco, non si possono fingere molto a lungo. Al contrario, ci sono molti componenti di band internazionali che non si rivolgono nemmeno la parola, e arrivano ai concerti a bordo di limousine separate. Sorprendentemente, come mi ha raccontato de Buretel, se Manu vuole fare un concerto di beneficenza, la band riceve comunque la sua normale retribuzione.

Durante la nostra conversazione a Parigi, chiedo a Manu senza mezzi termini che cosa fa con tutti i soldi che guadagna. “Avvocati e banchieri se ne prendono una buona parte, questo è certo”, risponde. Ha aperto un fondo perché, a suo dire, “creano non poche difficoltà quando bisogna donare dei soldi”. Con un fondo si possono anche risparmiare le tasse. Manu ha dichiarato pubblicamente di avere finanziato cause come La Colifata e gli zapatisti, ma durante la nostra bevuta al Mariatchi di Barcellona mi aveva parlato anche di qualche progetto in Africa. Preferisce conoscere personalmente i responsabili dei progetti che finanzia, non essendo assolutamente convinto che i soldi donati alle associazioni di beneficenza vadano realmente a chi ne ha bisogno. Mi immagino Manu come un Babbo Natale con lo zaino in spalla, che arriva in qualche zona sperduta del Congo o delle Ande a distribuire fondi per il tetto di una scuola, per un nuovo sistema di raccolta acqua o per qualunque altra cosa di cui ci sia bisogno.

Manu è convinto che pubblicizzare ciò che fa con i suoi soldi lo renderebbe un bersaglio facile. “Se dichiarassi pubblicamente le mie donazioni e il mio supporto a una causa sarei etichettato come un opportunista”, afferma. “Direbbero che ne approfitto per vendere i miei dischi. È un serpente che si morde la coda”. Dopodiché scuote la testa e aggiunge: “L’unica cosa che posso dire è che ho guadagnato molti soldi ma non ho la coscienza sporca. Non ho rubato niente a nessuno e mi sono guadagnato da vivere con il sudore. Ciò che faccio con i miei soldi fa parte della mia vita privata, è un affare mio e di coloro che ho attorno”.

Ciò che sembra trasmettere alle persone, comprese quelle con cui ha a che fare, è “un atteggiamento schizofrenico verso il denaro”, per dirlo con le parole di Fabrice Brovelli, il manager della SMOD. C’è un fondo di verità in quest’affermazione. Manu ha sempre detto che “i soldi sono il diavolo in persona”; ma possono comprare anche la libertà. E lui ha bisogno dei soldi per la sua amata indipendenza, e finanziare la sua dipendenza dai viaggi.

Sia Brovelli che Marc Antoine Moreau, il manager di Amadou & Mariam, affermarono che quando collaborò con loro in Mali per Dimanche À Bamako non aveva mai soldi con sé, né sembrava importargliene. Si potrebbe argomentare con il fatto che l’album vendette centinaia di migliaia di copie e che Amadou & Mariam raggiunsero il meritato successo internazionale. A Bovelli e Moreau, tuttavia, sembrò che Manu si ponesse come una specie di gipsy che non aveva bisogno di denaro. A ogni modo, non si può negare che sia stato in grado di sopravvivere senza un soldo in diverse città, suonando nei locali e trovando ospitalità da amici o fan.

Tra le ragioni per cui ho iniziato a interessarmi a Manu non ci sono solo il nostro amore comune per i gruppi pre-punk come i Dr Feelgood, e per la salsa; la nostra mania di viaggiare o la passione di entrambi verso la metafisica e le questioni spirituali. L’interessamento è arrivato anche a seguito di un esperimento realizzato dal sottoscritto insieme ad alcuni amici in cui provammo a vivere senza soldi occupando uno stabile nel quartiere shabby-chic di Bloomsbury, a Londra. Il combustibile per il riscaldamento lo prendevamo dai cantieri, il cibo dalle montagne di verdura buttata via a fine giornata dagli alimentari locali, e gli spostamenti si facevano in bicicletta. Anche se solo per qualche mese, provai l’illusione liberatoria di aver sconfitto il demone del denaro.

Ma fu soltanto un periodo. Adesso non proverei alcun piacere nel vivere in una casa con il tetto pericolante e senza un sistema di riscaldamento centralizzato. Manu è senza ombra di dubbio un ammiratore dei monaci zen che vivono senza desiderare beni materiali, e anche di Aldo, il suo amico senzatetto che ha rifiutato tutto il denaro che gli è stato offerto. Nella realtà, però, siamo entrambi proprietari di immobili; Manu non ha mai venduto il suo appartamento a Barcellona, e si è comprato il bar Mariatchi – un ottimo modo per assicurarsi che il proprio pub preferito resti aperto – oltre a un piccolo appartamento a Parigi dove vive uno dei suoi cugini. Le strategie di fuga messe in atto in adolescenza potrebbero non essere più appropriate con il passare degli anni.

Resta il fatto che Manu sia un milionario accidentale. Non aveva predetto, e nemmeno avrebbe potuto farlo, il successo di Clandestino o di Dimanche À Bamako. “Ho provato a scrivere qualcosa per il pubblico perché diventasse una hit, ma sono stati solo fallimenti”, afferma. “Quando invece faccio musica per me stesso, come terapia, seguendo solo l’istinto, raggiungo veramente il pubblico”.

Anche se è un argomento che non gli piace, che cosa fare della sua ricchezza inizia a essere un problema da affrontare. Ci sono centinaia di progetti possibili; ad esempio si è discusso della creazione di uno spazio online composto da siti web che si occupino di politica locale e cultura, oppure di finanziare una nuova tecnologia di raccolta acqua per i paesi che non hanno abbastanza risorse. Ma i progetti di beneficenza hanno bisogno del giusto tempo da dedicarci e di manager adeguati a seguirne il percorso; quando si dedica a una causa, Manu vuole conoscere i responsabili di persona e vedere i risultati con i suoi occhi.

Infine, a differenza di molti altri artisti, resta un cittadino francese che paga il suo settantacinque percento di tasse, invece di cambiare il suo domicilio in Spagna o da qualche altra parte.

A che punto una posa, se mantenuta ogni giorno, diventa reale? Una delle grandi cose della musica pop è l’artificiale ma a volte eroica reinvenzione delle sue star, di solito in qualcosa di più deviante e glamour. Le celebrità con determinate qualità profetiche arrivano, ad esempio, a sfiorare la santità per il loro pubblico. John Mellor, figlio di un diplomatico, diventò Joe Strummer; David Jones di Bromley si trasformò in un alieno; Robert Zimmerman indossò degli occhiali da sole, fece visita a Woody Guthrie e diventò Bob Dylan; José-Manuel Chao sognò nei sobborghi di Parigi e diventò Manu Chao, una sorta di via di mezzo tra Bob Marley e Che Guevara. Tutte queste figure sono diventate simboli d’ispirazione, precursori di potenziali nuove realtà e archetipi in carne ed ossa.

Il pericolo dell’autodistruzione diventa una realtà nel momento in cui le celebrità confondono il personaggio pubblico con quello privato. È così che si fa strada la follia. Manu di per sé sembra avere un atteggiamento relativamente sano nei confronti della sua fama, sia verso le critiche che verso le adulazioni, riconoscendo che quando si diventa famosi una sensazione di irrealtà nei confronti di se stessi faccia parte dell’accordo. Come mi disse a Córdoba, il problema della fama è che “la gente ti tratta come se fossi un dio, oppure un coglione”.
 Una delle difficoltà che devono affrontare le persone vicine a una celebrità, Manu compreso, è il distacco tra l’icona e l’essere umano. “Scommetto che a volte anche Che Guevara sia stato un bastardo con i suoi amici”, è stato il triste commento di Marc Antoine Moreau.

Il bisogno di Manu di spontaneità e la sua avversione verso ogni tipo di programmazione possono essere un problema non indifferente per le persone attorno a lui. Il fatto che rifiuti di avere un cellulare o un orologio ne è solo un piccolo esempio. “Sono davanti a uno schermo tutti i giorni per fare i mixaggi. Guardare altri schermi in miniatura sarebbe davvero troppo”, è la scusa con cui si giustifica. Ma per come funzionano le fissazioni delle star, quelli di Manu non sono certo peccati mortali. Se preferisce spendere i suoi soldi per restare libero, dandosi tempo per sognare ad occhi aperti e sfuggire al guinzaglio, piuttosto che comprare macchine sportive e case di villeggiatura in tutto il paese, resta una sua scelta. Allo stesso modo, le persone che lo circondano, la sua band, i manager, le etichette, gli agenti o i giornalisti, possono scegliere se lavorare con lui o andare da un’altra parte. Nessuno ci ha costretti con la forza. L’inconveniente e la sua inafferrabilità sono più che compensati dall’incredibile energia a cui sei esposto quando fai parte del suo mondo. Ma non è sempre facile essere Manu Chao. Come disse Fabrice Brovelli, Manu “è un tipo solitario” e la fama non fa altro che aumentare quel suo senso di solitudine e di separazione dal resto del mondo. Durante una conversazione, una donna spagnola che lo ha incontrato diverse volte fece questa curiosa osservazione: “Mi piace Manu, ma ogni volta che lo vedo è come se ci incontrassimo per la prima volta”.

Vivere da loco mosquito non aiuta a stringere legami solidi, c’è sempre la possibilità che dietro ad alcune amicizie si nascondano interessi personali. Madjid, Gambeat, Philippe e il resto della band gli sono vicini, ma Manu resta pur sempre il loro capo. Emmanuel è un buon amico ma è anche il suo manager. Jacek Wozniak ha creato un libro con lui e disegna le sue copertine. Manu è così gentile da chiamarmi “my friend”, ma è consapevole che tutto ciò che dice potrebbe finire su questo volume. Johnny McLeod conta sull’appoggio di Manu per il suo Babel bar a Ménilmontant, e sta cercando di avviare una carriera musicale. Persino la sua compagna si occupa dei video durante i tour.

Le persone si aspettano che Manu sia l’eroe instancabile delle classi meno abbienti, e gli chiedono continuamente aiuto per un progetto o per un altro. Sebbene anche lui a volte possa arrabbiarsi con la sua band o il suo management, non l’ho mai visto dare una risposta sgarbata a una sola persona tra le migliaia che incontra per strada o nel backstage dopo i suoi show, anche se ci vogliono ore per poter salutare tutti quanti.

Suo padre mi raccontò un aneddoto interessante quando lo incontrai al Café Ondes a Parigi, vicino alla stazione radio della RFI dove lavorava. Durante il tour di Manu in Perù, Ramón ricevette la chiamata di un suo vecchio amico che era stato incarcerato anni prima in quanto attivista, ma che al tempo della chiamata era diventato un ambasciatore. “Chiamai subito Manu per dirgli che avrebbe partecipato al concerto e che gli avrebbe fatto piacere incontrarlo”. Ma il giorno del concerto Manu non gli prestò troppa attenzione. “Qualche giorno dopo decisi di dirgliene quattro; era un uomo del tutto rispettabile oltre che un mio amico. E la risposta di Manu fu: ‘Sì papà, ma è un ambasciatore’. Non ha mai voluto fare amicizia con i potenti”.

Ramón mi disse anche di essere preoccupato che suo figlio fosse molto più fragile di quanto potesse sembrare. L’aveva visto con il morale a terra in Galizia, depresso e vulnerabile. Quando gli domandai se credeva che Manu fosse felice mi rispose “No”, aggiungendo che “il destino di ogni vero artista, è convivere con l’insoddisfazione”.

Quella sera, dopo la nostra chiacchierata nel suo appartamento, Manu mi racconta di dover fare un favore a degli amici di una band chiamata Les Ogres de Barback. E così se ne va al concerto in bicicletta, suona qualche pezzo con la sua vecchia e fidata chitarra acustica, saluta calorosamente qualche amico nel backstage, tra cui Johnny McLeod, sorride amichevolmente ai fan che chiedono di potersi fare una foto con lui, e poi pedala nuovamente fino a casa per dedicarsi a una notte di lavoro sul suo computer, modificando video e mixando musica, quasi fosse un monaco in ritiro spirituale. Andres Garrido mi farà notare che qualunque altra celebrità con anche solo una frazione della sua notorietà avrebbe potuto facilmente portarsi dietro uno o due roadie personali solo per sistemare la chitarra.

È tutto abbastanza impressionante; ma è esattamente ciò che definisce Manu e che lo fa andare avanti. Per lui fare musica è solo una questione di “scambio di energia”. Le esibizioni dal vivo sono il centro di tutto; quando la serata prende la piega giusta, il pubblico, e Manu stesso, vengono trasportati fuori dalla disperazione verso un’estasi collettiva. Come cantava Bob Marley: “One good thing about music, when it hits you feel no pain”.

Prima di lasciare Parigi mi incontro con una fotografa brasiliana per un pranzo a Le Marais. È una specie di ragazza hippy e una fan sfegatata di Manu, ed è curiosa di sapere che cosa ho imparato stando con lui. Le racconto di aver imparato molte cose sui rifugiati nel deserto del Sahara, sui pazienti degli ospedali psichiatrici di Buenos Aires e sui macheteros del Messico. Credo anche che Manu abbia ragione sull’importanza dell’azione nei singoli quartieri e sulla necessità di ridurre il potere dei politici; ad esempio, ingenuamente mi aspettavo che Obama avrebbe preso posizione sulle banche e supportato cause come i diritti dei palestinesi; Manu invece era molto più realistico.

“Va bene”, risponde la ragazza con una certa enfasi, “ma per quanto riguarda questioni più spirituali?”. Rispondo che mi sembra di avere più fiducia nel mio istinto, e di essere più consapevole verso cose come le coincidenze, che forse sono segni lanciati da una forza incomprensibile che cerca di creare ordine nel caos. Potrebbe esserci veramente una sorta di energia universale di cui dovremmo fidarci tutti quanti, e prendere direzioni che il nostro ego non avrebbe mai pianificato.

Il giorno dopo essere tornato a Londra, mi imbatto in un video su YouTube che mostra Manu mentre insegna a suonare la chitarra ad alcuni bambini delle favelas di Fortaleza. Ci sono giusto una decina di visualizzazioni. Ricevo una mail dal regista e sceneggiatore Menno Meyers. “Amo Manu”, recita il testo. “È una forza davvero positiva di questo mondo”. Sono pienamente d’accordo con lui.

Tratto da Clandestino – Alla Ricerca di Manu Chao di Peter Culshaw (Castello Editore, collana Chinaski)

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