A 50 anni dall’inaugurazione, il Rainbow è ancora il tempio rock del Sunset Strip | Rolling Stone Italia
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A 50 anni dall’inaugurazione, il Rainbow è ancora il tempio rock del Sunset Strip

Tutto cambia a Los Angeles tranne questo locale dove il tempo sembra essersi fermato. Un giro nel club dove Lemmy era di casa, Alice Cooper sbevazzava con Lennon, i Guns hanno girato 'November Rain'

A 50 anni dall’inaugurazione, il Rainbow è ancora il tempio rock del Sunset Strip

L'ingresso del Rainbow Bar & Grill, a Los Angeles

Foto: Enzo Mazzeo

Quando si varca la porta del Rainbow si viene investiti dalla sua storia: l’ingresso è tappezzato di foto di chi lo ha frequentato, un mosaico di ritagli ingialliti dal tempo con qualunque volto famoso passi per la mente. In una città in costante trasformazione come Los Angeles, dove nulla viene risparmiato in nome del progresso, questo è uno dei pochi edifici in cui il tempo sembra essersi fermato: negli anni ’30 si chiamava Mermaid Club, dal 1944 al 1968 Villa Nova (si dice che Marilyn Monroe e Joe DiMaggio si siano conosciuti qui), mentre il 16 aprile 1972 diventa ufficialmente il Rainbow Bar & Grill con un party dedicato a Elton John.

I suoi fondatori sono Elmer Valentine, Lou Adler e l’italianissimo Mario Maglieri, molisano nato a Sepino, in provincia di Campobasso, il 7 febbraio 1924, poi trasferitosi negli Stati Uniti con la famiglia. Maglieri, morto a 93 anni nel 2017, diventò egli stesso una figura leggendaria, tanto da meritarsi l’appellativo di King of the Sunset Strip o The Pope of Sunset Strip. Ancora prima di fondare il Rainbow era il manager del Whisky A Go-Go, situato soltanto un paio di isolati più in giù, lungo il mitico Sunset Boulevard, che in questa tratta diventa appunto il Sunset Strip. Qualcuno sicuramente ricorderà la scena del film The Doors, di Oliver Stone, in cui Jim Morrison viene buttato fuori dal Whisky: colui che lo spinge in strada, nella rappresentazione di Stone, è proprio Maglieri. Fino agli ultimi anni della sua vita, incontrarlo mentre fumava il suo sigaro seduto a qualche tavolino del Rainbow era la norma. E lui non smetteva mai di raccontare gli infiniti aneddoti che lo hanno visto protagonista fra quelle mura.

La sala principale del locale sembra quella di una vecchia taverna: domina il legno, c’è un grande caminetto, e solo di recente il registratore di cassa a manovella è stato sostituito con uno più moderno. Le pareti sono tappezzate di foto e memorabilia. Quando si entra per la prima volta, non si sa dove guardare. Per chi ama il rock, è come visitare un museo. O forse tempio è la parola giusta. Peccato solo che quei tavoli non siano in grado di parlare.

Foto: Enzo Mazzeo

Mikeal Maglieri e amica. Foto: Enzo Mazzeo

Dietro il camino, le scale portano al piano superiore, un altro luogo dal sapore rétro, con i suoi divanetti appartati, che negli anni ’70 avevano accolto tutte le grandi rockstar dell’epoca e le loro groupie. Qui Alice Cooper riuniva gli Hollywood Vampires originali: non la band che ha fondato insieme a Joe Perry e Johnny Depp, ma un club di bevitori incalliti di cui facevano parte John Lennon, Ringo Starr e Keith Moon, fra gli altri. Gli anni ’80 hanno invece visto l’esplosione del fenomeno hair metal e il Rainbow diventò la casa di chi contribuì a diffondere a livello mondiale il mito di Hollywood e del Sunset Strip: dai Guns N’Roses ai Poison, dai Van Halen ai Mötley Crüe, tutte le grandi band di quel periodo, che solitamente venivano battezzate in club altrettanto leggendari come il Whisky, il Roxy, Gazzarri’s o il Troubadour, al Rainbow ci piantavano le tende.

Lemmy dei Motörhead si era comprato casa proprio a due passi e al Rainbow ci passava molto tempo. In effetti era molto facile vederlo nel patio, davanti a una macchinetta del video poker, svariati drink e una solida fornitura di Marlboro. Dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 2015, i discendenti di Mario Maglieri, fra cui il figlio Mikeal, in quello stesso patio hanno voluto far erigere una statua del musicista inglese, ribattezzando quell’area Lemmy’s Lounge. La macchinetta del video poker è ancora lì, spenta, e al bar si può ordinare un Lemmy e vedersi prontamente servire la bevanda preferita del rocker: 2 once di Jack Daniel’s e 10 di coca, con ghiaccio. Per non sbagliare.

La statua di Lemmy. Foto: Enzo Mazzeo

Marq Torien (Bulletboys) davanti al murale di Lemmy. Foto: Enzo Mazzeo

Questo mese il Rainbow compie 50 anni. Un’eternità se pensiamo a come si è trasformata la scena musicale nel frattempo: il rock, almeno inteso in senso tradizionale, è ben lontano dalla sua epoca aurea, molti dei suoi grandi protagonisti sono più che attempati se non addirittura scomparsi, e sono anni che non si vedono nuove leve in grado di poter reggere il confronto con il passato. Lo stesso Sunset Strip, che nell’immaginario collettivo rappresenta ancora la Mecca del rock, in realtà ha subito e continua a subire mutamenti radicali, che lo hanno profondamente trasformato: club, tattoo shop, liquor store e negozi di dischi hanno ceduto il passo a hotel e ristoranti di lusso, i caratteristici edifici della vecchia Hollywood, le insegne luminose e i pali della luce di legno che venivano tappezzati di flyer, oggi sono sempre più rari, soppiantati da palazzoni in cui dominano vetro e strutture metalliche, simili a quelli che si vedono in qualsiasi altra città. È notizia recente che l’intero isolato che ospita il Viper Room, altro club storico dello Strip, verrà raso al suolo e al suo posto eretto l’ennesimo hotel. Insomma, un’ecatombe.

In tutto questo, il Rainbow rappresenta un’ancora di salvezza: nonostante la recente quanto scellerata decisione di erigere un enorme pannello pubblicitario davanti al suo ingresso, che quasi ne nasconde la famosa insegna con l’arcobaleno, una volta entrati all’interno del locale tutto assume una dimensione più confortante: stesso arredamento di sempre, stesso menu di sempre, stessa gente di sempre. Da nessun’altra parte è possibile vedere una concentrazione così alta di capelli cotonati, spandex e giubbini di pelle borchiati. Ma non solo: al Rainbow ci si può imbattere nell’avvocato in giacca e cravatta che è sceso da uno degli uffici di fianco per farsi una birretta, nel rapper che passava da lì per caso o nel turista con la maglia degli Scorpions che fotografa tutto quello che gli capita a tiro. E se ci si gira, si possono vedere Priscilla Presley che mangia seduta al tavolo di fianco o Dennis Rodman che entra ubriaco dalla porta principale o Slash appena fuori che chiama un Uber (ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale). Tutto normale da queste parti.

Glenn Hughes seduto al tavolo del video di ‘November Rain’ dei Guns N’ Roses. Foto: Enzo Mazzeo

La festa per i 50 anni del Rainbow. Foto: Enzo Mazzeo

Lo scorso 24 aprile il Rainbow ha dunque celebrato l’importante anniversario con un party in the parking lot in grande stile, un concerto-evento gratuito, tenutosi appunto nel parcheggio del locale, che ha attirato al civico 9015 di Sunset Boulevard una folla enorme di rocker incalliti venuti a rendere omaggio al loro santuario. Quelli che sono riusciti ad aggiudicarsi uno dei tagliandi di ingresso hanno così potuto passare una giornata memorabile, fra vecchie glorie del Sunset Strip (Stephen Pearcy dei Ratt e i Pretty Boy Floyd) e dell’era nu metal (Crazy Town e Orgy), gli interessanti Sometimes Y (la nuova band del rapper Yelawolf e del cantautore Shooter Jennings) e gli headliner Steel Panther, che proprio nei club qui intorno hanno cominciato la loro scalata al successo.

Sometimes Y. Foto: Enzo Mazzeo

Shifty Shellshock (Crazy Town). Foto: Enzo Mazzeo

Verrebbe da pensare che, visti i tempi che corrono, anche questo leggendario baluardo del rock possa fare una brutta fine. Ma niente paura, ci pensa proprio Mikael Maglieri a rassicurarci: «Noi da qui non ce ne andremo», ha dichiarato nel corso di una recente intervista per il sito della città di West Hollywood. «Siamo proprietari dell’immobile, dunque non ci spostiamo. Prima di farmi chiudere il Rainbow dovranno passare sul mio corpo».