50 Cent racconta Tupac: «Non era solo un rapper, era un poeta» | Rolling Stone Italia
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50 Cent racconta Tupac: «Non era solo un rapper, era un poeta»

Nell’anniversario della morte del simbolo dell’hip hop anni ’90, rileggiamo che cosa diceva di lui il rapper di ‘In Da Club’: «Era come una macchina fotografica, documentava tutto»

50 Cent racconta Tupac: «Non era solo un rapper, era un poeta»

Tupac Shakur in una scena del film 'Gridlock'd - Istinti criminali'

Foto: Gramercy Pictures/Getty Images

Tutti i rapper cresciuti negli anni ’90 devono qualcosa a Tupac. Alcuni cercano di emularlo, altri vanno in direzione opposta perché non apprezzano quel che ha fatto. Ma a prescindere dal vostro giudizio su di lui, aveva sviluppato uno stile unico: era diverso da chi era venuto prima.

Il mio album preferito di Tupac è The Don Killuminati. L’ha registrato dopo che gli hanno sparato e ha passato del tempo in prigione. Era come se un dottore gli avesse detto che stava per morire e lui avesse voluto mettere tutto nero su bianco. È una cosa che normalmente i rapper non riescono a fare: costruire un intero disco su un’idea e rimanere in quello spazio negativo. Tutti sanno che devono morire. Ma dopo aver vissuto un’esperienza potenzialmente mortale, finisci per pensarci un po’ di più.

I pezzi di Tupac che preferisco sono quelli aggressivi. Hail Mary è semplicemente perfetta: “Picture paragraphs unloaded / Wise words being quoted”. La maggior parte degli artisti non è abbastanza intelligente per scrivere cose simili, o abbastanza onesta per un verso come “Non sono un killer ma non provocarmi”. I rapper di oggi direbbero semplicemente: “Ti ammazzo”.

Tupac era come una macchina fotografica. È incredibile quanto ha scritto, quanto ha documentato. Per me era un poeta più che un rapper. I suoi verso li riconosci immediatamente. Scriveva senza la musica. Notorious B.I.G. era più legato alla melodia – sono sicuro che scriveva senza un foglio di carta, accompagnato dalla musica –, mentre ‘Pac prendeva tutto dalla sua vita. Il punto è che lo faceva sotto gli occhi del pubblico, tutto quello che gli succedeva veniva esagerato ed è così che le cose sono andate fuori controllo.

Tutti noi della East Coast amavamo Tupac. La musica era l’unica cosa che contava. La faida con la West Coast nasceva da questioni personali. Ora che non è più qui, non è mai stato così grande. Riesco ancora ad ascoltare due o tre suoi dischi in fila. A volte metto le sue canzoni migliori, e anche quelle di Biggie. Poi sono pronto ad affrontare il mio prossimo progetto.

Una volta Laurence Fishburne mi ha detto che non lo apprezza granché. Mi ha anche detto il motivo: pur essendo più intelligente di chi gli girava intorno, pur sapendo che poteva fare di meglio, si comportava in un certo modo. Ho capito che cosa voleva dire, ma l’ho comunque guardato storto.

Il testo che avete appena letto fa parte della lista 100 Greatest Artists che Rolling Stone USA ha pubblicato tra il 2004 e il 2005. Potete leggerla qui.

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