11 cose che abbiamo imparato dal documentario di Dave Grohl 'What Drives Us' | Rolling Stone Italia
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11 cose che abbiamo imparato dal documentario di Dave Grohl ‘What Drives Us’

Dalla tendenze alla piromania di The Edge alle regole dei Beatles sulle scoregge, ecco i momenti più bizzarri e interessanti del film del frontman dei Foo Fighters sulla gavetta e la vita on the road

11 cose che abbiamo imparato dal documentario di Dave Grohl ‘What Drives Us’

Foto: Jim Dyson/Redferns via Getty Images

«Tutte le band, anche le più grandi, sono partite da qualche parte. Tutti quelli che conosco io sono partiti da qui: da un van», dice Dave Grohl all’inizio di What Drives Us, il documentario che racconta i primi anni in tour delle band più longeve del rock, tra cui U2, Metallica, Red Hot Chili Peppers e ovviamente i Foo Fighters.

«Quello che accade sul van determina quel che diventerai», spiega Grohl. «Viverlo crea una prospettiva unica e condivisa. Non sarei qui senza avere vissuto quelle esperienze, in tour con i miei amici a bordo di un van. Se non fosse per questo vecchio mezzo, non so dove sarei».

Il film si presenta come documentario sulla vita in tour, in realtà racconta ciò che spinge gli artisti a iniziare una carriera nella musica (spoiler: spesso è per fuggire alla monotonia della vita di provincia). Come dice Brian Johnson degli AC/DC, c’erano solo due modi per scappare dalla sua noiosa cittadina inglese: «diventare un grande calciatore o fare musica». Per Flea, suonare – all’inizio la tromba, quando sognava di entrare in un’orchestra sinfonica – era un modo per evitare i maltrattamenti del patrigno. «Quando tenevo quell’affare sulle labbra e ci soffiavo dentro» racconta «tutto il caos e tutta la paura, perché magari quella notte la polizia era arrivata a casa e il mio patrigno gli aveva sparato addosso o aveva minacciato di suicidarsi, tutta quella roba spariva di colpo».

WHAT DRIVES US | Official Trailer (2021)

What Drives Us è anche una celebrazione della musica dal vivo, l’unica cosa che dà un senso alle centinaia di ore e ai migliaia di chilometri che affronta chi sale su un van. Anche se il documentario parla di giorni di gloria passati, le immagini degli stadi pieni ci fanno provare nostalgia per la vita pre-Covid, quando tutti i concerti – piccoli o grandi che fossero – andavano in scena senza conseguenze.

Grazie a dozzine di interviste con artisti come Annie Clark, Steven Tyler, Flea e Ringo Starr, What Drives Us racconta con sguardo innocente i primi anni di alcune tra le band più famose al mondo, periodi di cui i fan potrebbero non sapere molto. Ecco undici cose che abbiamo imparato guardandolo, dall’impatto del punk hardcore sull’industria dei tour alle regole dei Beatles sulle flatulenze.

1I Beatles hanno salvato The Edge degli U2 dalla piromania

The Edge è uno degli artisti del documentario che ha iniziato a fare musica per liberarsi dalla monotonia della sua vita. Nel suo caso, però, suonare l’ha aiutato anche a evitare un hobby potenzialmente pericoloso. «Nella periferia di Dublino non succede molto, dovevamo inventarci qualcosa per passare il tempo. È così che ci siamo appassionati agli esplosivi, era una fase interessante. Per un paio di estati ci siamo divertiti a far saltare in aria la roba», dice il chitarrista a Grohl.

«Ne siamo usciti a 15 anni», continua. «Ero in una piccola cittadina, non succedeva niente, e quando ho scoperto il rock & roll le cose sono andate male in fretta». Quando gli viene chiesto qual è l’esperienza che l’ha convinto a suonare, The Edge dice che è stata la visione di A Hard Days’ Night dei Beatles a salvarlo dalla piromania.

2Brian Johnson degli AC/DC voleva suonare la batteria, poi ha scoperto Little Richard

Johnson ha scoperto il rock & roll a 12 anni, quando ha visto Little Richard cantare Tutti Frutti sulla BBC. «Mi ha fatto andare fuori di testa», racconta a Grohl. Prima voleva fare il batterista, «ma non riuscivo a credere che si potesse cantare così». Il rock l’ha salvato dai turni di notte nella catena di montaggio di una fabbrica.

3Ben Harper ha scoperto la musica grazie ai Christian Death

Ben Harper racconta che quando era un ragazzino a Los Angeles, ascoltava solo «musica pop che passava Casey Kasem». Lo faceva a un volume così alto che un giorno i vicini gli hanno strappato i cavi della radio. Ascoltando le leggende del goth rock Christian Death è passato ai Clash e ai Jam. Poi, a 19 anni, ha scoperto Mississippi John Hurt, una delle sue influenze più importanti.

4Lars Ulrich è l’uomo più fortunato del mondo e non meritava di comparire nel documentario

Come spiega il batterista nei primi minuti di What Drives Us, i Metallica sono diventati famosi così velocemente da saltare la fase del van. Per questo, Ulrich dice di non aver molto da aggiungere al documentario. «Posso andare adesso?», chiede prima dell’intervista. Al contrario degli altri artisti che partecipano al documentario, Ulrich ha suonato con una sola band e quindi non ha mai dovuto condividere lo spazio di un van con altre cinque persone, né soffrire per trovare una serata come fanno i gruppi a inizio carriera.

5Secondo Dave Grohl i tour in van hanno salvato i Foo Fighters

Grazie a una serie di filmati inediti, What Drives Us porta gli spettatori a bordo del van dei Foo Fighters, due mesi prima dell’uscita del debutto del gruppo – suonato e registrato dal solo Grohl – nel 1995. La maggior parte degli artisti, dagli Aerosmith a St. Vincent, girava il Paese in van per raggiungere il pubblico. Grohl non aveva bisogno di viaggiare in quel modo – i Nirvana erano finiti da un anno e aveva già un contratto con una major – ma ha deciso di farlo comunque per legare con gli altri musicisti.

«Sentivamo di aver bisogno di fare esperienza insieme. Per questo, il van era perfetto», dice Grohl al chitarrista Pat Smear. «Se non l’avessimo fatto, forse non saremmo andati oltre il primo anno». Grohl è così affezionato a quel van che all’inizio del documentario va a cercarlo e, dopo averlo trovato, lo guida per il resto del film raccontando aneddoti lungo la strada. (La band doveva rivivere quel tour per il suo 25esimo anniversario, ma l’idea è stata annullata a causa della pandemia).

6I tour nei van sono stati “inventati” dal gruppo hardcore D.O.A.

Sia Ian MacKaye dei Fugazi che Duff McKagan dei Guns N’ Roses dicono sono stati i D.O.A., leggendaria band punk hardcore, a dare il via alla mitologia sui tour in van nel 1979. La loro odissea è partita a Vancouver, la loro città, con l’obiettivo di arrivare a New York, Washington e Los Angeles, dove avrebbero chiesto ai Black Flag di fare un concerto a Vancouver. Poco dopo, i Black Flag hanno preso un van e organizzato una serie di show lungo la strada per la British Columbia. È così che un network di locali e posti dove dormire – insieme alle radio dei college – sono diventati tappa fissa di altri gruppi punk. «I D.O.A. hanno aperto la strada, i Black Flag l’hanno spianata», dice MacKaye.

7Anche i Beatles scoreggiavano nel van

«Il van è un posto fantastico per le band, si è costretti a stare insieme e ci si conosce. È una delle cose ci ha uniti», dice Ringo Starr del periodo in cui i Beatles giravano l’Inghilterra in van, prima della Beatlemania. Il batterista dà anche un consiglio: «Se scoreggi nel van, ammettilo. Crea un sacco di problemi».

Starr racconta con una certa nostalgia i viaggi verso casa con i Beatles. «Sai qual è la cosa più assurda? Tornavamo sempre indietro. Non ci fermavamo mai in un motel. Guidavamo verso casa e il giorno dopo ripartivamo per un altro concerto», ricorda. «Una volta stavamo tornando da Londra, era la nottata più fredda di sempre. È venuto giù il parabrezza e allora noi Beatles ci siamo messi uno sopra l’altro sulla panchetta. Chi era sopra beveva un sorso di whisky, poi scendeva di una posizione e passava la bottiglia a quello dopo. È così che siamo tornati a casa senza morire di freddo».

8A un concerto dei No Doubt c’erano più musicisti che spettatori

Tony Kanal dei No Doubt racconta di uno dei primi tour del gruppo e in particolare di una serata a Oxford, Mississippi, in cui non avevano venduto neanche un biglietto. Il batterista Adrian Young aveva fatto amicizia con delle ragazze in albergo e alla fine hanno suonato di fronte a quattro persone. All’epoca, però, i No Doubt avevano una formazione di sette elementi e per bilanciare il numero di chi stava sopra e sotto il palco facevano i turni per scendere fra il pubblico.

9Riempire il bagagliaio del van è come giocare a Tetris

Tutte le band che hanno viaggiato in van hanno affrontato la stessa sfida: riempire il veicolo con tutti gli strumenti. Un po’ come per i fiocchi di neve, non c’è una band uguale all’altra. Ogni artista intervistato nel documentario ha una soluzione diversa, il posizionamento perfetto che Grohl paragona a una partita di Tetris. Con il passare del tempo, racconta Flea, le band diventavano sufficientemente famose da permettersi un U-Haul (i mezzi in affitto, ndt), così da avere più spazio a disposizione. «Dormivi con il piede di Chad Smith in bocca, ma almeno si riusciva a chiudere occhio», scherza.

10Il nemico di Napster Lars Ulrich ora ama la tecnologia

C’è voluta una pandemia – e il bisogno di suonare in streaming durante il lockdown – ma l’uomo in parte responsabile per la fine di Napster ora ammette che il futuro dell’industria sarà legato a doppio filo con la tecnologia. «Non solo la accetto, ma la amo», dice a Grohl.

11Lo streaming potrebbe aver ucciso i tour in van

Grazie alla tecnologia, la gente scopre la musica in tanti modi e le playlist delle piattaforme streaming hanno più influenza dei piccoli club che ospitano concerti. Così, il bisogno di fare tour nei van è diminuito. Secondo i veterani, lo stesso vale per la quantità e la qualità dei gruppi rock in circolazione, band che non hanno mai vissuto l’esperienza formativa dei viaggi in van.

«È il 2019, ma le band più grosse del rock sono le stesse del 1999 o 1989», dice Ulrich a Grohl. «I Guns N’ Roses, gli AC/DC, gli Iron Maiden, gli Aerosmith, voi (i Foo Fighters) e noi (i Metallica), è assurdo. Perché non è cambiato niente?».

«È strano, Thom Yorke mi ha fatto un discorso simile», aggiunge Flea. «Ha detto che siamo rimasti in pochi a suonare nelle grandi arene in tutto il mondo. Nessuno riesce a riempirle. È come se qualcuno a un certo punto, credo alla fine degli anni ’90, avesse tirato una linea o costruito un grosso muro: chi era dal lato giusto poteva fare questa cosa per il resto della vita. Quale altra rock band è venuta fuori negli ultimi 20 anni? Nessuna, vero?».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.