10 classici nascosti di David Bowie | Rolling Stone Italia
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10 classici nascosti di David Bowie

Elettronica dark, industrial, trip hop: il cantante ha disseminato in ristampe, raccolte e lati B molti brani sperimentali, piccoli Frankenstein a volte incisi negli anni '70 e rimaneggiati nei '90. Ecco i migliori

10 classici nascosti di David Bowie

Foto: Georges De Keerle/Getty Images

Nelle ristampe dei classici, nelle raccolte e nei lati B di alcuni singoli, David Bowie ha nascosto esperimenti, brani trattati quasi come messaggi subliminali diretti agli iniziati, non solo chicche, ma dei veri e propri pezzi d’arte, misteriosi interrogativi in musica. Facciamo dunque una rapida carrellata su questi classici all’incontrario.

“Some Are”

Some Are - Low [1977] - David Bowie

Contenuto nella ristampa di Low del 1991 su Rykodisc, Some Are è un folgorante e dilatato movimento musicale scritto da Bowie e Eno. Pare che il brano fosse stato scritto dal solo Bowie per la colonna sonora mai nata per il film L’uomo che cadde sulla terra. Fatto sta che ha tutte le caratteristiche del periodo Low e non solo, tra cui un’intensità inaudita. Sembra la versione in miniatura di Warsawa: dove lì c’era un’epopea, qui c’è il sottovoce, la Fata Morgana, l’allucinazione tra vuoto di un respiro nel cuore e fiocchi di neve che diventano valanga (non a caso avrebbe dovuto sottolineare la scena in cui Mary Lou vede passare una slitta di Natale). Tutto basato sugli equivoci fonetici della voce e del testo, dove le parole sembrano scatole cinesi che non dicono quello che sembra, giocando sulla voce sotterrata dal suono dei synth glaciali di Eno dove gli omonimi confondono l’udito in un’illusione che fa perdere la realtà (per esempio, “some are winter sun” può essere anche essere interpretato come “summer winter sun”). Questo disse Bowie sul pezzo: «È la fallita forza napoleonica che torna indietro a Smolensk. Trovare i cadaveri insepolti dei loro compagni lasciati dalla loro avanzata su Mosca. O forse un pupazzo di neve con una carota come naso; ai suoi piedi un biglietto d’ingresso spiegazzato al Crystal Palace Football Club. Davvero un Weltschmerz». Philip Glass la inserirà nella sua opera Low Symphony (ispirata proprio a Low) di fatto eternandola.

“All Saints”

Bowie era solito mettere nei cassetti le varie outtake e tirarle fuori alla bisogna per poi farne dei brani nuovi di zecca (per esempio Blue Jean, nata nel periodo di Lodger, ma uscita solo nel 1984). A volte le usava per sperimentare quello che poi avrebbe messo a punto nei dischi nuovi. Ad esempio questa All Saints è un curioso brano di cui non è chiara la provenienza: ascoltandolo ci sono dei suoni che senza dubbio sembrano del periodo berlinese, anche se non è chiaro se da Low o da Heroes, forse frammenti di entrambi i periodi missati insieme. A giudicare dal titolo poi, le registrazioni ufficiali potrebbero essere state eseguite proprio nel 1991, periodo di uscita della ristampa di Low: All Saints è infatti il nome dell’etichetta di Brian Eno che vedrà la luce proprio nei ’90 (ma se invece l’ etichetta avesse preso il nome proprio da questo frammento inedito?). Insomma è una traccia che più che essere un brano è un enigma: fatto sta che potrebbe rappresentare forse un clamoroso esempio di un Bowie che anticipa i Throbbing Gristle nel suo fumoso caos atonale elettronico (l’unica melodia ascoltabile è quella della linea di basso, ma è completamente sotterrata), se davvero la registrazione risalisse al 1976. Ai tempi dell’uscita in effetti divenne come un lasciapassare di Bowie nel movimento industrial del periodo, tanto che sembra una prova per la costruzione di Outside, disco che senza dubbio è affiliabile al genere suddetto e che vedrà Bowie in tour proprio con i Nine Inch Nails.

“Abdulmajid”

Abdulmajid (2001 Remaster)

Il brano in questione è probabilmente quello che ha subito più rimaneggiamenti successivi in studio: i sintetizzatori sono evidentemente anni ’90, con quei preset particolarmente vicini al Korg M1. Probabilmente gli unici appigli al ’77 sono la batteria elettronica e il basso particolarmente scuro, al quale Eno e Bowie hanno aggiunto poi la melodia dei synth, probabilmente doppiando una linea già registrata nell’originale che si può ascoltare nel mix e che ha in effetti un sapore molto anni ’70. Il pezzo prende il titolo dal nome della moglie di Bowie, sposata nel 1992. È un brano particolarmente avvolgente e in linea con le cose più orientaleggianti di Heroes, tanto che anche questo sarà usato come secondo movimento per la Heroes Symphony di Philip Glass. Molti dicono che le fondamenta della traccia vengano da Lodger, il terzo capitolo della trilogia berlinese del 1979, forse proprio per le assonanza con Yassassin e African Night Flight, intrise di esotismi mediorientali.

“I Pray, Olé”

I Pray, Olé - Lodger [1979] - David Bowie

Questa outtake senza dubbio viene dal 1979 di Lodger, anche se sembrerebbe limata in studio in tempi più recenti. La batteria è chiaramente risuonata, probabilmente per l’usura del nastro della traccia originale, mentre alla chitarra sembra ogni tanto di sentire Reeves Gabrels (braccio destro di Bowie nei ’90 e ora nei Cure) anche tenendo conto che nel ’91, anno dell’uscita di questo inedito, era chitarrista nei Tin Machine. La cosa non stupirebbe in quanto le chitarre soliste originali sono suonate da Adrian Belew (e possiamo riconoscere il suo stile), ma Gabrels è senza dubbio il suo erede: probabilmente – essendo il brano originariamente completato solo a metà – Bowie ha pensato bene di dargli un rinforzino. Il risultato è comunque abbastanza convincente nell’emulare il periodo storico di origine e proiettare Bowie nel suo nuovo sound dei ’90 che è – in pratica – un aggiornamento “incattivito” del periodo Lodger. Il testo minimale pieno di disagio è efficacissimo e al servizio di un brano pesante, ma nello stesso tempo liberatorio. Sarebbe stato bene a conclusione di Lodger, ma indiscrezioni dicono che Bowie l’avesse messo da parte perché troppo simile a Look Back in Anger. Sarà: noi questa somiglianza non ce la vediamo. Forse anzi le somiglianze sembrano più legate alle canzoni del periodo Low ed è più probabile che per questo sia stata cassata.

“Crystal Japan”

Crystal Japan (2017 Remaster)

Bowie inaugura il 1980 con un album epocale, Scary Monsters, che aprirà ufficialmente le porte al movimento new romantic – di cui il nostro fu di fatto padrino – regalando al mondo una perla quale Ashes to Ashes. È anche un disco in cui Bowie, tra i pionieri anche in questo, flitra col Giappone in maniera esplicita nella traccia di apertura It’s No Game nella quale c’è la performance vocale di Michi Hirota (una delle due modelle nella copertina di Kimono My House degli Sparks). Prima ancora, firmerà la colonna sonora di uno spot su una marca di tipica bevanda alcolica giapponese (lo shochu), scrivendo un brano ambient che riecheggia certe cose del suo amico Sakamoto (col quale poi reciterà nel film Furyo di Nagisa Oshima). Il titolo è Crystal Japan ed è caratterizzato da una stupenda melodia ariosa anticipata da una certa tensione inquieta, tanto che potrebbe essere considerata alla stregua di una rappresentazione del Giappone capitalista, tra contraddizioni, boom economico, lacerazioni e tradizione zen omogeneizzata in pochi minuti. Pubblicato come singolo solo per il mercato giapponese, Bowie lo ripescò come lato B di Up the Hill and Backwards. Il pezzo ha vissuto anni di oblio prima che i Nine Nich Nails praticamente la plagiassero per A Warm Place, strumentale contenuto nel capolavoro The Downward Spiral: pare che Trent Reznor in persona l’abbia confessato a Bowie, il quale più tardi riteneva il brano dei NIN a tutti gli effetti una cover leggermente velata (ma era ironico, ovviamente).

“Nothing To Be Desired”

Nothing to Be Desired

Dai gloriosi primi anni ’80 di Bowie veniamo proiettati direttamente negli anni ’90: a parte la scarsezza di lati B e rarità, c’è un filo conduttore che lega la trilogia berlinese e Scary Monsters alle allucinazioni del concept album Outside. È appunto una revisione di quelle sonorità in chiave industrial, ammodernate e corrette. Ed è la prova che Bowie è stato ancora volta padre e padrino di un genere nuovo: Brian Eno torna a collaborare con lui, vecchie conoscenze come Carlos Alomar e il pianista Mike Garson vengono a portare una continuità tra passato e presente creando uno dei migliori album del cantante. Outside è ambientato in un futuro distopico dove si compiono omicidi rituali artistici e si svolge quindi come un giallo fantascientifico in cui l’investigatore Nathan Adler cerca di risolvere un caso di un brutale assassinio di una minorenne. Oltre a dare voce alle tensioni di fine millennio del “nuovo paganesimo” delle varie scene underground del periodo, la storia rappresenta l’inizio degli studi di Bowie sulla morte come forma d’arte che probabilmente poi verranno applicati nel concept di Blackstar nel quale la morte dello stesso Bowie si trasforma da tragedia in opera d’arte totale. In realtà all’inizio Outside sarebbe dovuto essere una specie di opera rock fatta di vari movimenti, chiamata Leon: frammenti circolano su internet. Si tratta di parti poi scartate per dare organicità a Outside come disco singolo, ma qualcosa fu recuperato e pubblicato già all’epoca. Per esempio Nothing to Be Desired, lato B di The Heart’s Filthy Lesson, originariamente era una semplice scena raccordo che partiva dallo slogan una surreale pubblicità di un CD-Rom: in questo caso diventa un manifesto di intenzioni della generazione nichilista dei ’90, con quel “change your mind changing” che rappresenta un ciclo infinito di ansie e di assoluta mancanza di terreno sotto i piedi. Nessuna certezza quindi, se non che questo pezzo – quasi una preghiera al dio del niente – racchiude tutta la potenza bruciante della band di Bowie d’epoca, tra dissonanze, noise rock, hip hop sperimentale, caos industriale. Una specie di lavaggio del cervello verso un nirvana negativo, reso ancora più misterioso dall’assenza di coordinate che ci dicano da dove viene questo surreale e maligno mantra. Ricorda in un certo senso le B-side assurde dei Beatles come You Know My Name che appunto semina molti interrogativi e poche certezze, lasciando l’ascoltatore alla fine del brano come rimbambito dall’assoluta – ma apparente, si badi bene – mancanza di nesso ivi contenuta.

“We Shall Go to Town”

We Shall Go to Town

Dopo la sfuriata rumorosa di Outside, Bowie fa un altro cambio di rotta e di pelle: dopo la parentesi jungle rock di Earthling, con Hours sembra voler tornare in un campo più ovattato, più pop mantenendo però l’atmosfera paranoica del concept sul tempo che passa e della vecchiaia incombente grazie alle sapienti mani del partner musicale Reeves Gabrels. Ma è il disco in cui l’idillio tra i due si spacca definitivamente: il chitarrista si accorge che Bowie sta lentamente tornando in una mentalità mainstream dopo aver combattuto per rimanere in bilico sulla fune dell’underground, uscendone tra l’altro vittorioso, tanto che addirittura il chitarrista rimarrà scioccato dalla richiesta del cantante di chiamare le TLC a fare i cori in un brano. Pietra dello scandalo di questa disintegrazione artistica è proprio questa B side di Thursday Child, brano che era pensato per essere incluso di diritto in Hours, ma poi depennato, forse proprio per l’andazzo troppo dark e “soporifero” (originariamente era stato scritto per Outside e in effetti ne recupera in parte le atmosfere plumbee). Questa scelta ferì particolarmente Gabrels che pensava fosse invece un brano chiave. Lui stesso spiega che «parlava di due persone che erano così grottesche, orribilmente sfigurate, e le persone le lapidavano per strada, e si stancavano di dover vivere nell’ombra, è come una cosa alla Elephant Man. E pensano: stanotte è la notte, andiamo in città, questa potrebbe essere la nostra ultima notte sulla terra perché la gente probabilmente ci ucciderà». Paradossalmente, volendo darne un quadro col senno di poi, questi due freak sono gli stessi Gabrels e Bowie, che per l’ultima volta condividono insieme i propri mostri sonori e interiori: il lavoro di Gabrels alla chitarra è infatti dissonante, intenso, deforme, lanciandosi in uno dei migliori assioli mai prodotti per Bowie nella loro discografia insieme. Così come la voce di Bowie si lascia andare in questo fiume sonoro come un’anima perduta e deformata.

“Safe”

Finita l’era Gabrels, Bowie si affaccia agli anni 2000 con un nuovo approccio neoclassico. Heathen è il disco che più di ogni altro tocca le corde spirituali di Bowie, si interroga sull’idea del divino dal punto di vista di un pagano che soffre della sua condizione, pur sapendo che non ce ne può essere altra e proprio per questo cerca Dio nella sua propria autodistruzione. Tali riflessioni vedono abbinata una musica che è una specie di mix tra Ziggy Stardust e Heroes, quindi particolarmente assurdo (viene addirittura richiamato Tony Visconti, fermo dal 1980), dal risultato che allo stesso tempo spiazza e rassicura. Molti critici individuano questo disco come un grande spaccato del post 11 settembre, mentre Bowie ha sempre negato dicendo che semmai l’ispirazione è venuta dalla tensione che ha preceduto quell’evento e che lo ha poi seguito come naturale evoluzione di una spirale di degrado umano e – appunto – spirituale.

Finita nel lato B di Everyone Says ‘Hi’ , oggi la canzone appare particolarmente profetica già dal titolo Safe. Inizialmente pensata come brano per la colonna sonora del cartoon Rugrats (poi scartata), subiva l’ influenza di un progetto più grande che prevedeva il recupero di brani inediti scritti nel periodo di Ziggy Stardust opportunamente riaggiornati (operazione poi abortita anche per l’opposizione di Gabrels). Una specie di maestoso brano del vecchio Bowie che, invece di risultare una macchietta di se stesso, risulta quasi ironico, quasi una grottesca presa in giro, quasi una critica di questo imborghesimento generale in una comfort zone che non reca più rischio alcuno. E la linea vocale che recita “safe in the skyline” fa venire la pelle d’oca, sembra un grido d’aiuto di un prigioniero in una condizione che allo stesso tempo lo conserva e lo uccide. Se non ha previsto la condizione attuale poco ci manca. Ma si sa, artisti come Bowie hanno le antenne sintonizzate su una frequenza in cui presente passato e futuro sono malleabili e si palesano mescolati gli uni agli altri senza soluzione di continuità. Come il Major Tom di Space Oddity, insomma.

“Love Missile F1-11”

David Bowie - Love Missile F1-11 (Bonus Track)

Il futuro sempre bazzicato da Bowie, quanto in fondo rinnegato nell’ultimo periodo della sua attività o piuttosto trasformato in una sorta di prefuturo, trova una perfetta sintesi tra questi due estremi in una inaspettata cover dei Sigue Sigue Sputnik. Love Missile F1-11 infatti esce come lato B del singolo New Killer Star, in pieno periodo Reality, in una versione che ne sintetizza gli aspetti più hardcore e disumanizzanti, basandosi sulle demo originali della band e mettendo in luce le loro radici glam che ovviamente dal cantante di Ziggy devono più di qualche trucco e parrucco. Questo nonostante le dure parole di Degville, il frontman dei Sigue Sigue, che riferendosi a Jagger e a Bowie una volta disse: «Penso che abbiano imbrogliato un sacco di persone. Hanno manipolato moltissime persone e sono diventati cliché di se stessi». Ecco che allora Bowie, proprio in vena di sottolineare dal disco Reality questa condizione come inevitabile e al contempo assurda, fa del classico degli Sputnik un suo cavallo di battaglia rivelando che, sì, anche loro sono diventati il cliché di loro stessi nel giro di neanche due dischi. Ma rimane l’ispirazione di un grande pezzo rock’n’roll che sembra quasi scritto per Bowie. Se mai dovessimo un giorno entrare nella macchina del tempo, forse scopriremmo che l’originale del brano è proprio questa e che anche stavolta Bowie ci ha imbrogliato ben bene.

“Shadow Man”

E veniamo all’ultimo brano di questa carrellata: Shadow Man esce come lato B del singolo Slow Burn, il periodo è quello dell’uscita di Heathen, ma verrà poi ripubblicata nella raccolta Nothing Has Changed del 2014, prima dell’atto finale Blackstar. La raccolta vede parecchie sorprese, ad esempio molti brani inizialmente pensati per il disco mai uscito chiamato Toy, che prevedeva il recupero di brani anni ’70 tra inediti, brani poco conosciuti e rivisitati. Shadow Man viene registrata inizialmente nel periodo a cavallo tra Hunky Dory e Ziggy Stardust, e poi lasciata incompleta: il suo sapore nella versione iniziale è quello di una ballatona molto vicina a Neil Young, fin troppo, tanto che la versione inclusa in Nothing Has Changed è invece una dilatata elegia a bmp strabbassati per pianoforte e paddoni di synth. Tematiche junghiane che hanno a che vedere con l’ombra di se stessi, la parte oscura apparentemente inaccettabile che invece è la “sede della creatività”. È un po’ una confessione che in fondo Bowie è l’ombra di David Robert Jones (il suo vero nome) e sembra quasi una specie di prequel del testamento contenuto in Blackstar. Un brano, in questa versione, potentissimo e strappacuore, un picco tra i grandi brani drammatici del nostro.

Finita questa retrospettiva è evidente che di Bowie non si butta via niente: persino le sue microfratture musicali rappresentano delle pietre filosofali, tanto che a volte stupiscono più delle uscite regolari e rendono oro ciò che toccano (l’udito delle persone, ovvio). D’altronde lo stesso Bowie ci illumina in questo senso: «Una canzone deve acquisire un carattere, una forma, un corpo e influenzare la gente al punto che ognuno la possa usare per i suoi scopi. Deve toccarli non come una semplice canzone, ma come uno stile di vita». Che importa dove e come viene pubblicata, allora? Iniziamo quindi il nuovo anno, prevedendo un gennaio con qualche altra sorpresa postuma di Bowie. Comunque sia e comunque vada, sarà Fame.

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