10 album amati dai baby boomer e snobbati dai millennial | Rolling Stone Italia
Classifiche e Liste

10 album amati dai baby boomer e snobbati dai millennial

Da ‘Breakfast in America’ a ‘Brothers in Arms’, una selezione di dischi anni '70 e '80 comprati da milioni di ascoltatori e premiati con vari Grammy, ma ignorati dalle generazioni successive

10 album amati dai baby boomer e snobbati dai millennial

La cameriera di 'Breakfast in America' ascolta i Dire Straits ed Eric Clapton

Artwork Stefania Magli

Ci sono album che trascendono l’epoca in cui sono usciti e continuano a essere riscoperti dalle generazioni successive. Altri no e per varie ragioni. Per la produzione datata, per il mutato contesto sociale o per cause imperscrutabili, i dischi che troverete elencati di seguito sono stati amati da milioni di baby boomer. Eppure, a differenza di tutti i Dark side of the Moon e i London Calling del mondo, non hanno lasciato una particolare impronta se non tra gli ascoltatori a cui erano indirizzati quando sono usciti. Tornate a leggere questo pezzo fra qualche anno: magari le cose saranno cambiate.

“Slowhand” Eric Clapton (1977)

Per essere un album da cui sono usciti alcuni dei più grandi successi di Clapton (Cocaine, Wonderful Tonight e Lay Down Sally è il terzetto di apertura), Slowhand non gode di grande reputazione, così come sottotono è il suo sound. Pur senza il fuoco strumentale delle band precedenti e senza le guest star (Bob Dylan, Ron Wood e buona parte di The Band) presenti nel suo LP del 1976 No Reason to Cry, il quinto album solista di Clapton beneficia della tranquilla atmosfera famigliare creata dalla sua backing band per i live e del tocco vellutato, in fase di produzione, di Glyn Johns. Tutto è incentrato sulla costruzione dei brani piuttosto che sul virtuosismo. È come se Clapton avesse smesso di preoccuparsi di scrivere hit per riuscirci, finalmente. Siccome il suo status di leggenda è principalmente dovuto alle parti chitarristiche, è comprensibile che i lavori più orientati sulla scrittura dei pezzi, come Slowhand appunto, passino sotto traccia.

“The Cars” The Cars (1978)

L’album d’esordio del quintetto di Boston è una vera e propria parata di hit. Il 33 giri ha passato 139 settimane in classifica, arrivando al numero 18 e vendendo milioni di copie forte dei singoli My Best Friend’s Girl e Good Times Roll, ma anche di brani come You’re All I’ve Got Tonight, Bye Bye Love, All Mixed Up e Moving in Stereo (incluso nella scena della piscina del film Fuori di testa). Questo disco rappresenra il momento più alto della band e i Cars sono uno dei gruppi più influenti della new wave. Ric Ocasek in seguito ha prodotto album di Weezer, Guided by Voices, Hole, Nada Surf, No Doubt, Bad Brains.

“Rickie Lee Jones” Rickie Lee Jones (1979)

Con Tom Waits a fare da capofila, alla fine degli anni ’70 nella California meridionale fioriva una curiosa e piccola scena neo beat. Rickie Lee Jones, con l’omonimo disco d’esordio del 1979 è stata l’artista più importante di quel panorama. L’album è giunto al numero 3 della Top 200 di  Billboard e il singolo Chuck E.’s in Love ha toccato il numero 4 della Hot 100. Sia Jones che Waits, intelligentemente, si sono poi allontanati dal tipo di estetica retromaniaca da “dritti” che contraddistingueva questo disco, peraltro ancora affascinante.

“Breakfast in America” Supertramp (1979)

Escludendo The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, Breakfast in America dei Supertramp è probabilmente l’album di art rock più popolare di sempre (con 20 milioni di copie vendute, certificate, in tutto il mondo), spinto dai singoli di successo The Logical Song, Goodbye Stranger e Take the Long Way Home. Da quando i Radiohead hanno abbandonato ogni ambizione di piacere alle masse, l’art rock non è praticamente stato rintracciabile nell’universo pop. Per quanto siano stimolanti, i Muse e i loro epigoni non riescono neppure ad avvicinarsi al gusto per le melodie pop dei due leader dei ‘Tramp (Rick Davies e Roger Hodgson), anche se Kevin Parker dei Tame Impala ha citato la band inglese come una sua influenza.

“Private Dancer” Tina Turner (1984)

Tina Turner era già una star per via della sua partnership con Ike Turner, dal quale ha divorziato nel 1976 dopo anni di maltrattamenti subiti. Dopo anni passati a proporre e rifinire il suo spettacolo dal vivo come solista, ha ottenuto un contratto con la Capitol e ha inciso un pezzo di un certo successo, la cover di Let’s Stay Together di Al Green. Così, nel 1983, la sua etichetta le ha chiesto un album. Nato con l’aiuto di diversi produttori e autori, Private Dancer presenta diversi elementi di soul, pop, R&B, reggae e new wave, su cui svetta il suo cantato sexy di Tina. Il primo singolo, quello di traino, ovvero Better Be Good to Me, ha raggiunto il numero 5 della Hot 100, ma Turner ha toccato la vetta con What’s Love Got to Do with It?. Con questi due brani, nel complesso, ha ottenuto quattro Grammy. Ha poi sfiorato il primo posto con la title track, scritta da Mark Knopfler dei Dire Straits e con tanto di assolo di chitarra suonato da Jeff Beck. Con l’inclusione delle cover di Help dei Beatles e di 1984 di David Bowie, Private Dancer è uno dei più grandi album di sempre a segnare il ritorno di un’artista, anche se il sound troppo patinato non rappresenta al meglio il leggendario talento naturale della Turner.

“No Jacket Required” Phil Collins (1985)

Ormai è più facile sentire qualcuno che scherza (e magari a ragione) su Sussudio che non qualcuno che la ascolti davvero, per cui potrebbe essere difficile ricordare che la canzone, nel 1985, era in cima alle classifiche statunitensi. E potrebbe essere arduo anche immaginare che un tizio inglese, sulla trentina abbondante e dalla calvizie incipiente, potesse essere una delle popstar più grandi al mondo. Ma Phil Collins lo era, specialmente dopo l’uscita del suo terzo disco solista. Grazie a hit a base di synth che ti si piantavano in testa come One More Night e Don’t Lose My Number, l’LP ha raggiunto il numero uno in diversi Paesi, diventando il più grande successo della carriera di Collins (più di 25 milioni di copie vendute). Dopo No Jacket Required, Collins ha pubblicato un duetto con Marilyn Martin che ha ottenuto una nomination all’Oscar (Separate Lives, dalla colonna sonora di Il sole a mezzanotte) e si è esibito con grande successo nell’edizione americana e in quella inglese del Live Aid, il 13 luglio del 1985.

“Brothers in Arms” Dire Straits (1985)

L’esplosione dei video musicali è stata al contempo una benedizione e una maledizione per i Dire Straits. A inizio carriera, il gruppo di Mark Knopfler aveva evitato il nuovo media che stava nascendo, limitandosi a qualche clip con riprese dal vivo. Ma quando Knopfler ha scritto il grande successo tratto da Brothers in Arms, il singolo Money for Nothing (che raccontava l’atteggiamento sprezzante di un colletto blu nei confronti di MTV e gli eccessi degli anni ’80), il video che lo accompagnava, con un breve e memorabile cameo vocale di Sting, ha reso il pezzo un inno di MTV a dispetto del testo sarcastico. Divenuto un tormentone onnipresente, ha finito per mettere in ombra un album contraddistinto da brani tristi e dolci riflessioni. Peccato che così tanti ricordino soltanto quel riff.

“Bring the Family” John Hiatt (1987)

L’ottavo album di Hiatt ha rischiato di essere il suo canto del cigno nell’industria discografica. Era stato scaricato da diverse etichette, in parte a causa del suo alcolismo, e stava facendo i conti coi tragici suicidi del fratello maggiore (avvenuto quando era bambino) e della sua seconda moglie, nel 1985. Fortunatamente l’inglese Demon Records gli ha concesso un piccolo budget e lui ha chiamato alcuni amici (il virtuoso della chitarra Ry Cooder, il cantautore Nick Lowe e il batterista Jim Keltner) per aiutarlo a incidere un album. Registrato in otto giorni, Bring the Family fondeva le meravigliose ballad tipiche di Hiatt (Have a Little Faith in Me e Lipstick Sunset) con il suo amore per la musica roots e i testi ironici, come in Your Dad Did e Thing Called Love, poi divenuta un grande hit di Bonnie Raitt. Bring the Family ha avuto un successo moderato, ma ha portato Hiatt per la prima volta in classifica, in un anno ricordato più che altro per Livin’ on a Prayer e I Wanna Dance with Somebody.

“Tracy Chapman” Tracy Chapman (1988)

In un momento storico in cui Rick Astley e i Guns N’ Roses spadroneggiavano su MTV, la soffusa Fast Car di Tracy Chapman (brano che immortalava le difficoltà di una coppia di senzatetto) e Talkin’ Bout a Revolution, in cui dichiarava “la povera gente si solleverà e prenderà ciò che è suo”, sono inaspettatamente diventate hit pop. Accendendo la scintilla per una rivoluzione musicale tranquilla, Tracy Chapman ha venduto sei milioni di copie e per tutto l’arco degli anni ’90 ha continuato a pubblicare dischi che raggiungevano l’oro e il platino. Nonostante il successo di artiste che hanno seguito il cammino da lei tracciato, come India.Arie e in un certo senso Ani DiFranco, la produzione levigatissima e molto anni ’80 di Tracy Chapman lo ha reso datato alle orecchie di chi lo ascolta ora, nonostante una tracklist ancora fantastica ed emozionante.

“Nick of Time” Bonnie Raitt (1989)

Come accaduto con Bring the Family di John Hiatt, Nick of Time rappresenta per Bonnie Raitt il primo album dopo essersi disintossicata e il suo più grande successo. Oltre alla cover del pezzo di Hiatt Thing Called Love, il disco conteneva brani nel suo tipico stile che mescola blues, country, soft rock, pop ballad e anche un pochino di reggae (in Have a Heart). Levigato, ma senza perdere una certa autenticità roots, Nick of Time ha portato a un’esplosione di fama per Raitt in una fase avanzata della sua carriera, finendo al numero uno nel 1990 e facendole vincere tre Grammy.

Tradotto da Rolling Stone US.