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THE POPe
STAR

Viaggio nella mesopotamia di oggi,
il racconto di papa Francesco
nella terra martoriata dall'Isis

Testi, foto, video e disegni di
Gabriele Micalizzi e Salvatore Garzillo

Quando dici a qualcuno che stai andando in Iraq la reazione è quasi sempre: “Minchia figata! Grande! Posso venire anche io? Oh mi raccomando stai attento”. È la sintesi di esotico, avventura e pericolo costante, anche se non ben definito. L’Iraq è stato il Paese della guerra contro Saddam, ora è il Paese della guerra contro l’Isis e contro il Covid. Per noi occidentali l’Iraq è sinonimo di guerra.

Tutte ottime ragioni per restare a casa. E invece Papa Francesco decide di andare proprio lì, nella terra di Abramo, alle radici della cristianità, dove i cristiani vengono perseguitati e uccisi, dove il Daesh distrugge le chiese e usa le statue della Madonna come il bersaglio del poligono.

Una visita storica, che neppure i missili lanciati contro la base americana a Erbil solo pochi giorni prima riescono a cancellare. Bergoglio, a 84 anni, ha più street credibility di tutti i rapper e trapper sulla scena, è così rock’n’roll che organizza una messa in uno stadio gremito con gente che balla e canta. Sembra un concerto, anche se il pensiero costante è che un kamikaze possa far saltare tutto per aria. Ah, e poi c’è il Covid.

La nostra missione era chiara: anticipare di qualche giorno le tappe del Papa, trovare storie di contorno interessanti e poi seguire il suo frenetico programma di incontri da un capo all’altro dell’Iraq.

Dieci giorni tra Madonne decapitate, rapper di Allah alla periferia di Baghdad, centinaia di checkpoint, croci e Ak47, poche docce, il bar dell’Isis, “strade della morte” che forse era meglio non percorrere di notte e Gardaland cristiane.

È il 28 febbraio. Arriviamo a Erbil in piena notte e il nostro fixer, Barzan, non si presenta. Iniziamo bene. “Believe me” non ha suonato la sveglia dice l’indomani. Il “fixer” è l’uomo del posto che risolve problemi, in questo caso è Barzy, nato a Sulaymaniyah, in Kurdistan, cioè in un Paese che ufficialmente non esiste. Lui esiste eccome ma non ha il file della paura.

Barzy si rilassa sotto il fuoco dei cecchini

Abbiamo sentito di una Madonna a cui i miliziani dell’Isis hanno mozzato testa e mani durante l’occupazione di una chiesa a Karemlash, uno dei pochi villaggi cristiani in Iraq. La troviamo alla periferia di Erbil, nel cantiere di un ristorante in costruzione. Malik Kadifa è il buffo signore che coordina i lavori di restauro, in cassaforte conserva le mani della Vergine. Dice che lascerà in evidenza il taglio della gola “come memoria”.

Quella Madonna che cola ancora schiuma espansa, la ritroveremo più avanti su un palco inaspettato.

disegno madonna gabriele Micalizzi
disegno madonna gabriele micalizzi

Intanto partiamo per Karemlash, a circa 30 chilometri a ovest, una enclave cristiana nella Piana di Ninive, dove la campana continua a suonare nonostante il campanile sia stato mezzo abbattuto dai jihadisti.

Fino al 2017 c’era vita, poi sono arrivate le bandiere nere dell’Isis e ora è un villaggio fantasma. Chi è riuscito è scappato, gli altri sono stati ammazzati. Troviamo macerie, silenzio e una luce bellissima. Ci accompagna un soldato delle NPU (Ninive Plain Protection Unit), milizie cristiane guidate da un ex comandante di Saddam Hussein. Sono bene armati ma sono pochi.

soldato delle NPU
soldato delle NPU

Soldati delle Npu, le milizie cristiane nella piana di Ninive

Abbiamo una fame disperata e non sappiamo dove dormire.

Il nostro salvatore si chiama padre Paolo Habeeb, il parroco di Karemlash, che ci mette a disposizione due cose: il suo cuoco e un container per la notte.

Mangiamo senza neanche guardarci in faccia, in 5 minuti dobbiamo assistere alla messa in curdo. È l’evento per tutto il vicinato. Gente che è sopravvissuta alla furia cieca dei fondamentalisti islamici ora sorride felice perché è libera di recitare il Padre nostro.

La libertà di culto, che per molti occidentali è un carattere scontato come il colore degli occhi, qui è una conquista preziosa.
Lourdes

Sveglia all’alba dopo una notte a 4 gradi (ma comunque grazie padre Paolo). Alle 7 siamo a Qaraqosh, il cuore vero della cristianità irachena, dove 100 persone pregano in una chiesa antica di mille anni su cui i miliziani dell’Isis hanno scaricato decine di caricatori di Kalashnikov. Ci sono più buchi che mattoni. Eppure ha resistito, come la cattedrale dell’Immacolata Concezione, dall’altro lato del cortile, che nel 2014 era stata occupata dagli uomini del Califfato e nel 2017 incendiata.

Lourdes
La preghiera nella chiesa dell’Immacolata Concezione colpita dai jihadisti

Fedele che prega
Un fedele disegnato con la terra delle macerie della chiesa

“Era completamente distrutta, abbiamo iniziato i lavori un anno fa”, ci racconta padre Ammar, che poi accoglierà il Papa e gli mostrerà la stanzetta in cui sono conservati gli oggetti sacri recuperati. C’è la statua di San Giuseppe con la testa spaccata, un bambin Gesù decapitato, quadri squarciati e una grossa croce spezzata in due.

Ore dopo siamo nella stanza del colonnello Jawad Sakaria, ex comandante di Saddam e ora a capo delle Npu. Non vuole foto né riprese ma accetta di parlarci. Ci resta una sua frase in testa: “Sono veramente stanco della guerra”.


Il comandante Sakaria, colorato con la terra della sua base militare.
Le moto sono parte dei potenti mezzi delle Npu.

Una sua telefonata ci apre le porte delle milizie di tutta la piana di Ninive. Arriviamo in una base sperduta attorno Qaraqosh per ora di pranzo, i soldati non capiscono una parola (per fortuna c’è Barzy con noi) ma vedono la fame nei nostri occhi mentre guardiamo i loro piatti. Siamo ancora convinti di poterci proteggere dal Covid finché ci offrono il pranzo.

Bartellah. Riso e carne con Covid, la ricetta esclusiva dei soldati delle milizie cristiane

Torniamo a Erbil, passando un numero indefinito di checkpoint, e dopo ore di trattativa entriamo nella base militare internazionale accanto all’aeroporto, dove il 14 febbraio una milizia filo iraniana ha lanciato 14 missili: un morto e 9 feriti.
Nel compound italiano ci fanno l’ennesimo tampone. “Cazzo mi ha scannato quello”, è il commento scientifico di Gabriele, a cui il medico ha bucato una narice.
Quando scoprono che l’indomani saremo a Mosul ci regalano una busta di beni di prima necessità per il viaggio: merendine. Viva l’Italia.

Erbil. Il test non mente, né positivi né incinti

La giornata inizia prestissimo ma migliora con questa colazione offerta.

Mosul è come Mad Max ma con più traffico. Esistono mezzi che nemmeno a Hollywood saprebbero immaginare. La vita scorre frenetica in mezzo alla distruzione, negozi aprono sotto scheletri di palazzi pericolanti. “Nooo ma tu guarda com’è!” ripete Gabriele ogni 50 metri. “Lì è dove ci hanno sparato addosso, ricordi Barzy? Lì è dove è saltata quell’autobomba, ricordi Barzy?”.

Al Tahera è al centro di Mosul, il suo nome vuol dire “chiesa dei Puri”. L’Isis l’aveva occupata e trasformata in una delle sue peggiori prigioni. Sono in pochi a esserne usciti. All’ingresso c’è ancora la scritta nera “vietato l’ingresso, corte dello Stato Islamico”.

“Abbiamo deciso di conservarla come memoria”, racconta Anas Zeyad, un ingegnere poco più che ventenne che guida i lavori di restauro dell’Unesco. Ci vorranno anni per ridargli una forma. Al Tahera era un gioiello, poi i bombardamenti della coalizione contro il Daesh lo hanno trasformato nel set di Tomb Raider. Il tetto non esiste più, i crateri dei colpi di mortaio sono dappertutto. Finora hanno rimosso 2.500 tonnellate di macerie, cinture esplosive e cadaveri di jihadisti.

Tra 4 giorni il Papa pregherà tra quelle rovine, una macchia bianca contro le bandiere nere. Tra 4 giorni. E fuori non hanno ancora iniziato a costruire il palchetto. Viva l’Iraq.

Barzy ci porta in un albergo di sua conoscenza. “Believe me, it’s safe”. Il posto fa schifo, le stanze fanno schifo, il bagno lasciamo stare, i due alla reception (li chiameremo amabilmente faccia di cazzo 1 e 2) ci prendono per spie e ci trattano da schifo. L’unica cosa bella sono i posaceneri totalmente fuori contesto, in stile trash vittoriano. Finiscono subito in valigia.

Ricordo di Mosul, ora a Milano


Attraversiamo uno dei ponti che dividono Mosul, guardiamo il fiume Tigri e pensiamo a quando alle elementari ce lo vendevano in accoppiata con l’Eufrate. Sembravano così carini assieme.

Siamo diretti alla moschea di Al Nuri, la versione jihadista di “Tana delle tigri”, dove il 5 luglio 2014 Abu Bakr al-Baghdadi ha proclamato l’inizio del Califfato.
Il 21 giugno 2017, nel pieno della battaglia di Mosul, Al Nuri è schiacciata dai bombardamenti della coalizione e oggi resta uno scheletro sbilenco tenuto su dalle travi dell’Unesco.

Mosul. La moschea di Al Nuri durante l’occupazione dell’Isis e durante il restauro dell'Unesco

Come si vive accanto alla Storia? Per capirlo entriamo a casa di un signore che abita di fronte alla moschea. O meglio, in camera da letto ha due enormi buchi da cui si vede Al Nuri. Quando Air BnB arriverà anche qui, e arriverà, sarà come prendere casa di fronte al Colosseo.

Ai tempi della guerra del 2003 in Iraq c’erano un milione di cristiani, oggi meno di 300mila. Dopo il buco nero dell’Isis a Mosul sono rientrati solo 70 cristiani. In qualche modo troviamo il primo a essere tornato in città dopo la battaglia del 2017: Majdi Hamid Naqash, 45 anni. Piccoli baffi e viso da topo, vive in una casetta ancora mezza bruciata in un dedalo di vie devastate. L’Isis gliel’aveva sequestrata, scrivendo sulla porta la lettera “n” di nazareno. “Possono distruggere le chiese ma non la fede”, dice offrendoci un bicchiere di Pepsi. Il suo, che poi sarà lo stesso per tutti. Sì, sappiamo che c’è il Covid ma no, non si può rifiutare.

“Oh ma ti ricordi la chiesa che abbiamo liberato durante la battaglia?”, chiede Gabriele a Fausto Biloslavo, un gigante tra i cronisti di guerra, il nostro amato generale. “Andiamo a vedere come è ridotta”, risponde. Lungo il tragitto notiamo un’altalena con i sedili intrecciati e arrugginiti, accanto a un grande cartellone con l’elenco delle trappole esplosive che c’erano in quel parchetto. Orribile e meraviglioso. Altro che installazioni di Jeff Koons.

Mosul. Davanti alle altalene c’era un cartellone illustrativo con tutte le trappole esplosive

Arriviamo alla chiesa, sulla parete c’è la solita scritta dell’Isis. La porta è chiusa con un catenaccio ma dai fori di Kalashnikov sbirciamo all’interno. Sembra rimasta come allora, quindi sarà piena di bombe inesplose. Barzy si attiva, parla con la gente del quartiere e in due minuti arrivano 5 persone con un piede di porco per forzarla. Poche chiacchiere, spaccare tutto subito, poi pensare. Invece il momento ci sfugge, la porta resta chiusa e andiamo via delusi.

La giornata è ancora lunga. Barzy ci porta da un suo amico scultore nella periferia di Mosul. Dice che farà una scultura per il Papa. “Believe me”. Ci accoglie un ragazzo smunto ma con un bel sorriso, Omar Qais. In cortile ha dei pezzi di statua in gesso che ci fanno temere il peggio. “Ma che è sta merda? Con 30mila lire il mio falegname la faceva meglio”. Lo pensiamo tutti, ce lo confesseremo dopo. Prima dell’intervista c’è il pranzo e Omar ci regala un sogno: la tovaglia è un rotolone di plastica di Versace.

Mosul. La tavola imbandita di Omar Qais

A pancia piena scopriamo che il ragazzo è un figo. Che durante l’occupazione dell’Isis, quando era vietato fare arte, lui ha continuato a scolpire di nascosto. Ci mostra perfino il busto di una donna nuda realizzato in tempo di Califfato, quando per morire bastava uno starnuto fuori posto. La sua resistenza artistica andrebbe studiata. Tra 3 giorni incontrerà il Papa, a cui mostrerà una sua opera che raffigura Mosul prima dei bombardamenti. Tra 3 giorni. È ancora a metà e non sembra per nulla in ansia. Anche la sua gestione della deadline andrebbe studiata.

Incontriamo l’ultimo cristiano della giornata. Un’ora per convincerlo a parlare, 2 ore (vere) per fermarlo. Ma ci offre dei buonissimi cioccolatini.

“Neanche se tornasse Cristo in persona i cristiani tornerebbero a Mosul”. Sipario.

La mattina inizia seguendo una strana storia. Pare che nella prima fase dell’Isis i miliziani abbiano confiscato tutte le Kia di un concessionario di Mosul perché erano perfette per essere trasformate in autobomba. Andiamo nel quartiere dei meccanici, un girone infernale dove la puzza di benzina e liquami scaldati dal sole è seconda solo al casino. Troviamo il rivenditore ma “believe me he’s very stupid”, ci avverte Barzy. Non vuole parlare perché ha paura delle conseguenze però i vicini non hanno filtri e ci spiegano che in realtà ha fatto affari con il Daesh vendendogli le auto. E forse anche l’anima.

Mosul. Da questa concessionaria i miliziani dell’Isis hanno preso le Kia per trasformarle in autobombe

Una fonte ci racconta che in città c’è un caffè dell’Isis, un bar con i cimeli del Califfato. Vorremmo avere una foto della nostra faccia in quel momento. È in un palazzo anonimo, senza insegna ma una volta dentro ripaga la fatica della ricerca. Troviamo un amico del proprietario, ex soldato iracheno, professore d’inglese, traduttore, imprenditore. A 34 anni ha avuto più vite di Schwarzenegger. E ha anche una bella giacca.
“La sharia imponeva una vita da musulmano morigerato ma l’Isis chiedeva il pizzo ai locali in base al fatturato. C’era una squadra di esattori, vestivano in abito elegante ed erano molto chiari: o paghi o ti tagliamo la testa. Non passavano neanche dalle dita”. Amici di Equitalia, ci siete vicini ma avete ancora margine.

Per quanto fuoriluogo possa sembrare, è un cafè letterario, punto di ritrovo di molti intellettuali d’Iraq, che sanno usare bene i libri ma all’occorrenza anche i fucili. Su una parete c’è “il muro della memoria”, una selezione di oggetti appartenuti ai fondamentalisti. La tuta gialla dei condannati a morte, documenti d’identità dei miliziani morti in battaglia, radio esplosive, manette, riviste del Califfato, una musicassetta con i salmi e libri di scuola con la matematica dei terroristi: l’insieme delle banane, l’insieme delle granate, l’insieme dei Kalashnikov.

Nell’unico café letterario di Mosul sono raccolti i cimeli dell’Isis

Partiamo per Baghdad con un aereo legato con lo spago. Nel biglietto della Catapulta Airlines è compresa anche la cena, un panino ripieno di truciolato che nemmeno Barzy riesce a mangiare.
Uscire dall’aeroporto non è semplice, ci controllano 3 volte, il passaporto pieno di timbri li insospettisce e alla parola “alsahafiiyn” (giornalisti) ci guardano come per dire “aaah col cazzo che vi facciamo andare via”.

I trafficanti di organi hanno meno problemi ma comunque siamo più fortunati degli iraniani in attesa all’ufficio visti, una stanzetta squallida col pavimento ricoperto di fogli.

Baghdad. La cena esclusiva in aereo e l’ufficio visti dell’aeroporto

Barzy ci accompagna in albergo, ritiriamo i badge per seguire il Papa e, “believe me”, troviamo faccia di cazzo numero 3 in reception. Non accetta i nostri dollari perché sono del 2003, “troppo vecchi per l’Iraq”. I soldi vintage non c’erano ancora capitati.

La cattedrale di Baghdad è il primo appuntamento del Papa. Ha scelto un luogo simbolo, la chiesa dove il 31 ottobre 2010 un commando di jihadisti (l’Isis non c’era ancora) uccise 45 fedeli e 2 preti durante la messa. Sembra Alcatraz, ci saranno 200 poliziotti intorno. Poliziotti iracheni, grossi baffi e nessuna ironia. Dall’hotel alla cattedrale sono 4 chilometri ma impieghiamo 3 ore. Il traffico di Baghdad meriterebbe un libro a parte. Inoltre il Paese è in lockdown, ogni 200 metri c’è un checkpoint dove bisogna spiegare perché si è in giro. È sfiancante.

Passiamo altre ore a cercare la statua di un Padre Pio a cui attribuiscono poteri miracolosi (avrebbe salvato i fedeli dall’esplosione di un’autobomba) e nel cortile di questa chiesa, davanti a una bellissima cupola dorata, scopriamo donne musulmane che pregano Maria. “È anche nel Corano”, ci spiegano.

È il giorno, Bergoglio sta per atterrare in Iraq. Prima, però, vogliamo vedere “Le mani della vittoria”, la scultura simbolo di Baghdad che Saddam aveva voluto per celebrare la vittoria sull’Iran.

La gigantesca riproduzione delle mani di Saddam che impugnano le spade alte 40 metri di Saad Ibn Abi Waqas, il generale arabo che sconfisse i persiani nel VII secolo. Decine di tonnellate di metallo ricavato dalla fusione delle pistole degli iracheni morti in battaglia, poste ai due capi di un lungo vialone dove sfilava la parata dei vincitori. Anche se visibile da ogni punto della città non è visitabile perché è chiusa in una zona proibita. Per fortuna c’è Barzy, che chiama qualche cugino nell’esercito e sblocca la situazione. Mezz’ora da soli per scattare in uno dei luoghi più ambiti della dittatura Hussein.

Alle 10 è previsto l’arrivo del Santo Padre in cattedrale ma da ore un migliaio di persone lo attende sulla strada che conduce all’aeroporto. Una buona parte è composta da militari in borghese (anche musulmani) a cui è stato ordinato di sventolare la bandierina del Vaticano.
Ma qui avviene una magia. Mentre siamo in attesa della Papa mobile qualcuno dell’organizzazione spara fortissimo dall’altoparlante un canto religioso perfettamente in sincronia con il movimento di un enorme telone pubblicitario con le facce degli iracheni. Il vento lo fa letteralmente ballare. Sorrentino guarda ‘sta scena.

L’auto del Papa è preceduta e seguita da camionette blindate con soldati pronti a fare fuoco con i mitra, nell’aria sentiamo la tensione dell’inevitabile. La verità? Pensiamo costantemente che stia per scoppiare una bomba ma l’unica cosa che esplode è l’urlo dei fedeli quando Bergoglio gli passa davanti salutando col braccio.

Una giornata intera per filmare o fotografare 5 secondi, non di più. Se li perdi sei un coglione.

Con Barzy corriamo all’auto per anticipare l’arrivo del Papa alla cattedrale, dove ci mettono nel recinto dei giornalisti, con gente da ogni parte del mondo. Il Covid mangia i pop corn.

La carovana papale arriva portando con sé i colleghi vaticanisti partiti con l’aereo del Papa e che seguiranno tutti i suoi spostamenti come in tour organizzato. Passandoci davanti ci guardano con un misto di disprezzo e tenerezza. È una scelta di vita: c’è chi indossa gli stivali e chi i mocassini. Loro SONO i Mocassini.

“La morte dei fratelli uccisi in questa cattedrale ci ricorda che l’incitamento alla guerra, l’odio e la violenza sono incompatibili con la religione”.

Pope Francis, amen.

Tornare indietro attraverso i cento checkpoint è come giocare a Pac Man, solo che noi siamo Pac Man. Il sole ormai è andato e abbiamo appuntamento alla periferia di Baghdad con un gruppo di rapper religiosi, che a causa del traffico ci aspetta da 4 ore. La nostra fonte ci avverte che sono incazzati come un dipendente di Ikea di domenica. Quando mancano 2 chilometri ci ferma l’esercito, non si passa. Una specie di agente dei rapper, ben vestito va detto, sale nella nostra auto come garante e per prima cosa, tanto per rasserenarci, ci conferma che sono tutti incazzati. Superato il blocco ci dice di salire su un’altra auto senza darci indicazioni precise. “Barzy siamo in un posto veramente di merda, siamo sicuri che dobbiamo fidarci?”. “Believe me, it’s safe”, risponde.

Ci porta in una moschea sperduta e da qui è cinema. Parte una base grezzissima che va fuori ritmo quando il generatore perde energia. Sul palco si alternano ragazzi, alcuni vestiti da imam, che sparano rime religiose. Davanti ci sono 40 persone, tra cui vecchi e bambini, che ballano battendosi sul petto fortissimo.

Periferia di Baghdad. Il “concerto” dei rapper islamici

Filmiamo tutto, non ci sembra vero. Gli “artisti” accettano di farsi intervistare in una saletta, raccontano le difficoltà di fare rap usando parole dell’Islam, il rischio continuo di essere ammazzati, le parole vietate e il sogno di allargare al mondo questo genere.
Dopo quello di Baghdad abbiamo rivalutato il concetto italiano di underground.

Siamo al 6 marzo, parla Gabriele.
La sveglia suona come un martello pneumatico: 4.30. Bestemmia e Malboro come colazione. Scendo e Barzy ci aspetta per portarci al Babylon Hotel, il tempio dei Mocassini. Ci siamo imbucati in un aereo per Ur, 400 chilometri a sud ovest dell’Iraq, atterraggio previsto a Nassirya, dove ci fu il famoso attentato alla base italiana.
Il passaggio è un volo tattico militare su un C130, rumoroso, lento, ma meglio che l’economy della Iraqy - Catapulta Airlines.

Arrivo a Ur alle 8, il sole incomincia già a picchiare. Scendiamo dal bus, sulla Piana. Cazzo è davvero piana. Ovunque guardi il nulla per chilometri, sulla sinistra il palco bianco e i mega schermi, davanti il tendone-base stampa da paura e delirio di Hunter S.Thompson. Per arrivarci cammino su un grosso red carpet, mi fiondo alla ricerca di un caffè sognato ogni secondo dalla levataccia.

Prendo anche le bottigliette brandizzate con il volto del Papa con la scritta del tour iracheno. Al Vaticano non si può contestare le scelta del merch/marketing.

Esco e davanti scopro la casa di Abramo, il padre di tutte le religioni monoteiste. Struttura semplice, ci si può camminare sopra, sgrano gli occhi e vedo quasi come un miraggio lo Ziggurat, che ho ristudiato con mia figlia poco tempo fa. L’atmosfera è mistica, uscito dal labirinto dell’Abramo house comincio a camminare in direzione dello Ziggurat, ma dopo 30 metri un soldato iracheno mi corre dietro urlando che non si può andare. Il caffè mi ha bruciato l’opportunità.

Ci sono soldati ovunque in assetto da guerra, agenti di sicurezza impomatati con baffi nerissimi e occhiali Rayban, vestiti eleganti con le immancabili scarpe a punta.
Alle 11 del Papa nemmeno l’ombra. Ancora sigarette, il mio zippo comincia a morire. Ore 12 arriva the Pope. Subito ci frega, la macchina lo lascia dietro il palco, niente catwalk per la photo opportunity per la quale avevamo difeso la posizione. Ma il discorso è bellissimo. Francesco incalza i muslim su terrorismo e violenza, e dice che in questo luogo caro a tutti noi e al nostro dio, la fraternità è ciò che dovremmo ricordarci come unico insegnamento, ovvero l’amore per il prossimo. Parla del cielo e delle stelle sopra questa piana delle origini, e ricorda che senza il dialogo siamo tutti perduti, quindi dall’origine ripartiamo per creare un nuovo futuro. Mi ha convinto, io lo voto.

Finito il gran varietà religioso la produzione irachena sfodera cestini per tutti e un gruppo di local invitati alla cerimonia si siede su un muretto della casa di Abramo. Indossano vestiti tradizionali, l’unica donna del gruppo parla al telefono. Se non ci fosse quel telefono sarebbe la stessa immagine di 4000 anni fa.

Abbiamo in programma di rientrare a Mosul in giornata, ci vogliono circa 5 ore di auto ma ci sono checkpoint ovunque, quindi ce ne vorranno almeno 8. Abbiamo un’unica, tassativa, regola: non viaggiare col buio. Il motivo è semplice, la strada che passa per Tikrit costeggia gli insediamenti dell’Isis e per questo è chiamata “la strada della morte”. Che carina.
“Oh si rischia troppo lì, si va solo con la luce e a tavoletta”. Che bello sognare.

Sono le 15 e non abbiamo ancora l’auto.

Partiamo sperando di essere davvero in missione per conto di Dio, io mi rivolgo a San Gennaro per questioni di lingua.

Il primo ostacolo è uscire da Baghdad superando sti cazzo di blocchi dei militari, poi avvertiamo i nostri contatti “ufficiali” per informarli della cazzata e preparare un piano b, ci copriamo la testa con la kefiah e seguiamo sulla mappa la nostra posizione. “Vedi questo quadrato accanto a noi? È l’area occupata dai jihadisti...”, dice Gabriele indicando il cellulare. Vaffanculo. “Believe me it’s safe”, aggiunge Barzy. Vaffanculo anche a lui.

La “strada della morte” che attraversa la porta di Tikrit

“Sai cosa? Se dobbiamo morire almeno andiamocene con la pancia piena”, e spunta fuori una vaschetta di Nutella regalata dai militari italiani. Restare in apnea è impossibile, in questi casi puoi solo ridere. Guardiamo un tramonto bellissimo all’altezza di Samarra, ci aspettano 4 ore di buio. Buio vero.

Spiegare la quantità di checkpoint incontrati è impossibile. Saranno stati almeno 40 e ogni volta abbiamo dovuto trovare la soluzione per passare. Per fortuna il fedele Barzy ha tanti cugini e durante la guerra ha regalato orologi e whisky come lo zio d’America.
Alle 22 siamo su una strada senza nome nel governatorato di Saladin, ci fermano all’ennesimo posto di blocco dove Barzy non ha contatti e ci prepariamo a passare la notte in auto. Dietro di noi c’è una macchina di preti diretti a Qaraqosh e pensiamo “vabbè dai se proprio devono prendere qualcuno scelgono loro”.

E comunque il prete in tonaca bianca splendente che scende per discutere col comandante del posto e sparisce nel buio assieme a due militari, nel buco del culo del mondo con i jihadisti appostati chissà dove, ridefinisce il nostro concetto di thug life.

Un soldato disegnato con la terra del checkpoint di Samarra

San Gennaro ci viene incontro e, dopo ore, ci lasciano passare.
Tra non molto ci sarà la visita del Papa a Qaraqosh, la Gardaland dei cristiani iracheni. Tra monaci scalzi e bimbi travestiti da Bergoglio sembra una grande sagra di paese. La gente è accalcata dietro le transenne cantando canzoni per lui, fomentata da un prete e da una suora che fanno da scalda pubblico. Ci sentiamo delle merde a pensarlo, ma siamo convinti che qui, in mezzo a questo delirio, ci sarà l’attentato. Ancora una volta non succede niente, l’unica bomba resta quella sanitaria visto il livello di assembramento senza mascherine.

Qaraqosh. Il più grande villaggio cristiano d’Iraq accoglie il Papa

Il Papa celebra la messa nella cattedrale distrutta dai jihadisti e se Feltri avesse scelto un titolo sarebbe stato “ISIS SUCA”. Ma forse la verità è che nessuno vuol prendersi la responsabilità di un attacco che autorizzerebbe gli Usa a fare dell’Iraq un enorme parcheggio.
Mentre i Mocassini si dirigono composti ai bus che li porteranno a Erbil per l’ultima mega messa allo stadio, noi corriamo alla nostra auto come se vedessimo in lontananza il carroattrezzi. Stavolta i checkpoint hanno avuto l’ok per farci passare senza rotture di palle, ci sembra il bonus dei videogame.

Finalmente lo stadio, la fine di questo viaggio è vicina. La papa mobile fa il giro di campo con la musica a palla, era dai tempi di Bruce Springsteen a San Siro che non vedevamo tanto entusiasmo sugli spalti. I Mocassini prendono posto, Bergoglio sale sul palco e, CARRAMBA!, l’unica reliquia accanto a lui è la Madonna restaurata che abbiamo incontrato all’inizio. In una teca fa la sua figura ma restiamo affezionati al primo sguardo nel cantiere.

Il saluto del Papa è in arabo: “Salam, salam, salam... shukran Iraq” (arrivederci e grazie Iraq). Si ferma per qualche secondo e aggiunge: “ANDATE IN PACE”.

L’ultima immagine è Gabriele a bordo strada, con un mazzo di fiori rubati sotto al palco. “Oh sono fiori benedetti dal Papa”.

Ci sembra di essere in giro da un mese, l’ultimo impegno è il tampone per rientrare in Italia. Barzy ci porta in un centro di sua conoscenza autorizzato dal governo. Divide l’ingresso con un gommista. Un ragazzo di due metri, con una pala al posto delle mani, ci invita a sederci e ci spinge il tampone nel naso come quando infili le chiavi nella serratura da ubriaco. Nota a margine, è senza guanti.

“Barzy ma siamo sicuri?”. “Believe me it’s safe!”.

I NUMERI
  • Sigarette
    Gabriele 312 - Barzy 421 (quelle sottili)
  • Pepsi
    51
  • Pacchi di arachidi
    10
  • Ore di sonno
    4 a notte
  • Checkpoint
    154
  • Aerei
    7
  • Chilometri percorsi
    2130 km + 4mila di volo
  • Docce
    poche
  • Habibi pronunciati
    almeno 1500
  • Believe me
    45
  • Soldi spesi
    troppi
  • Riso e pollo
    35
  • Tamponi Covid
    4
  • Rullini
    14
RUBRICHE
  • Best Outfit
    Giubbottino Radio Mariam
    Il tizio degli acquari nel suk a Erbil
  • I 3 peggiori lavori di merda incontrati o anche "Ti lamenti del tuo lavoro?"
    Stura fogne di Mosul
    Lavavetri nel parcheggio di Tikrit
    Venditore di merendine al casello di Baghdad