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El Mencho:
il nuovo re dei Narcos

di Josh Eells

È una calda e umida sera dell’agosto 2016. Due facoltosi fratelli messicani escono per spassarsela a Puerto Vallarta. Ivan, 35 anni, e Jesus Alfredo Guzmán, 29, sono in vacanza nella località turistica da una settimana. È domenica, la vigilia del trentaseiesimo compleanno di Ivan, e per festeggiare hanno prenotato un tavolo in un ristorante esclusivo chiamato La Leche. Lì, si uniscono a loro sei uomini e nove donne – giovani, attraenti e ben vestiti, alla guida di Range Rover ed Escalade – con cui cenano a lume di candela al centro della sala bianca, bevendo champagne e cantando. Poco dopo mezzanotte, mentre la serata si avvicina alla conclusione, sei banditi armati di fucili d’assalto irrompono nel locale e li circondano. Uno di loro costringe Ivan a inginocchiarsi, prima di assestargli un calcio nelle costole. Anche Jesus Alfredo è tenuto sotto tiro. I fratelli e gli altri maschi sono trascinati fuori, fino a due Suv, e spariscono nella notte, mentre le donne rimangono illese. L’operazione dura meno di due minuti – il proprietario del ristorante in seguito la definirà: «Violenta, ma molto pulita». Senza che sia sparato un solo colpo, i due figli più giovani del famigerato capo del cartello di Sinaloa Joaquín Guzmán – più noto come «El Chapo» – vengono rapiti.

I due hanno commesso l’errore di festeggiare nel territorio controllato dal rivale più recente e temibile del padre: Rubén Oseguera Cervantes, El Mencho. Ex agente di polizia dello stato di Jalisco, El Mencho, che ha passato tre anni in un carcere americano per spaccio di eroina, dirige quello che gli esperti descrivono come il cartello più emergente, letale e, per alcuni, più ricco del Messico: il Cartel Jalisco Nueva Generación, o CJNG. Nonostante negli Stati Uniti sia ancora sostanzialmente sconosciuto, El Mencho è stato incriminato da un tribunale federale di Washington per traffico di droga, corruzione e omicidio, e sulla sua testa adesso pende una taglia di cinque milioni di dollari. A parte forse Rafael Caro Quintero – il vecchio signore della droga, tuttora ricercato per aver torturato e ucciso un agente della Dea nel 1985 – è probabilmente il bersaglio numero uno sulla lista americana. «Prima era El Chapo», dice una fonte dell’agenzia federale antidroga. «Ora El Mencho».

Membri del CJNG cartel de jalisco nueva generacion la guerra dei narcos

Il CJNG esiste da poco più di cinque anni, ma ha già raggiunto risultati per cui a Sinaloa hanno dovuto attendere una generazione. Il cartello ha aperto vie della droga in dozzine di paesi e sei continenti, e controlla metà del territorio nazionale, incluse coste e frontiere. «Il CJNG ha allargato le sue operazioni come nessun’altra organizzazione criminale prima d’ora», sostiene un rapporto confidenziale dell’intelligence messicana, ottenuto da El Universal. Lo scorso maggio il procuratore generale del Messico Raúl Cervantes l’ha definito il cartello più diffuso nel paese. Il CJNG è specializzato in metanfetamina, che offre margini di profitto più alti di cocaina o eroina. Concentrandosi su mercati lucrativi in Europa e Asia, ha mantenuto un basso profilo negli Stati Uniti e al tempo stesso ha accumulato massicci introiti, che alcuni esperti stimano sui venti miliardi di dollari. «Hanno molti più soldi di Sinaloa», racconta un ex agente della Dea, che ha passato anni sulle tracce del cartello (e che ha chiesto di restare anonimo per ragioni di sicurezza). Secondo un altro investigatore americano, «El Mencho è stato molto, molto aggressivo, e purtroppo è un atteggiamento che ha pagato».

Tutti i cartelli messicani negli ultimi anni sono stati indeboliti. I famigerati Zetas – un ex commando delle forze speciali, che ha terrorizzato il paese con mutilazioni e decapitazioni – sono stati fiaccati da dispendiosi conflitti territoriali e dall’arresto dei loro capi. Potenti gruppi del passato come i Cavalieri Templari o il Cartello del Golfo sono stati emarginati. Persino il temibile cartello di Sinaloa è stato dilaniato da lotte intestine in seguito all'estradizione del Chapo a New York, con diverse fazioni, tra cui quelle del suo ultimogenito, del suo fratello minore e del suo ex socio Ismael “Mayo" Zambada, in guerra tra di loro per prendere il controllo.

Questa balcanizzazione ha reso il Messico un terreno fertile per la violenza. Dall’arresto del Chapo nel gennaio del 2016, il tasso di omicidi è cresciuto di oltre il 20%, con 20mila uccisioni solo l’anno scorso. Più che in Iraq o in Afghanistan. Numeri che nei primi cinque mesi del 2017 hanno visto un’ulteriore impennata del 30%. Migliaia di queste morti sono da attribuire alla politica di conquista territoriale del CJNG. Sono state scoperte fosse comuni, per esempio nello stato di Veracruz, che il suo procuratore generale ha di recente decritto come «una gigantesca tomba»; nel Colima, dove il CJNG e il cartello di Sinaloa nell’ultimo anno hanno combattuto per conquistare la supremazia, gli omicidi sono più che triplicati. «Stiamo assistendo a un vero bagno di sangue, che molti attribuiscono a El Mencho», spiega Scott Stewart, un analista che lavora per Stratfor, società privata di intelligence. «Ovunque tentino di farsi largo con la forza, spuntano cadaveri».

Narcos bavaglio la guerra dei narcos rolling stone

El Mencho ha mostrato una ferocia eccessiva persino per gli standard dei narcos. Per El Chapo, uccidere rappresentava una parte necessaria degli affari. Per El Mencho, sembra più una forma di sadismo. Ci sono state uccisioni di massa, come i 35 corpi legati, torturati e abbandonati per le strade di Veracruz in un tardo pomeriggio del 2011. Due anni dopo, il CJNG violenta, uccide e brucia una ragazzina di dieci anni scambiata (erroneamente) per la figlia di un rivale. Nel 2015, i suoi sicari fanno esplodere un uomo e la figlioletta con dei candelotti di dinamite, ridendo a crepapelle mentre filmano la scena con i telefonini. «Questa è roba da Isis», dice un agente della Dea. «Il modo in cui uccidono e le cifre eclatanti sono senza precedenti, persino in Messico». Il paragone con l’Isis è illuminante per un’altra ragione. Quando El Chapo era all’apice del suo potere, dopo una sanguinosa guerra tra i cartelli un decennio fa, il paese ha conosciuto un periodo di relativa pace – quella che Don Winslow ha soprannominato la “Pax Sinaloa”. Ma, così come lo Stato Islamico è cresciuto grazie al vuoto dell’Iraq post-Saddam, senza volerlo, l’eliminazione del Chapo potrebbe aver spianato la strada a qualcuno di ancora più efferato.

Esistono solo poche foto del Mencho, e anche la descrizione fatta dal Dipartimento di Stato è comicamente vaga: un metro e 65 di altezza, 75 chili, occhi e capelli marroni. I cantanti di narco-corridos hanno celebrato il suo chiacchierato amore per le moto veloci e i combattimenti di galli da 100mila dollari – uno dei suoi soprannomi è “El Señor de los gallos" –, ma per il resto è un enigma. «In venticinque anni in Messico, ho trovato tipi che avevano incontrato El Chapo e che ne parlavano», dice l’ex agente della Dea. «Con El Mencho non succede. È una specie di fantasma». Il rapimento dei figli del Chapo per El Mencho è stato una sorta di debutto in società. «Il piano era ucciderli», racconta una fonte della Dea. «Rapirli, estorcere la confessione voluta e farli fuori». Ma all’ultimo istante, El Chapo – a quel tempo ancora in un carcere messicano – raggiunge un accordo. In cambio di quello che la fonte della Dea chiama «due milioni e una montagna di roba», entrambi i figli vengono liberati. Il pagamento del riscatto è soltanto un proforma. «El Mencho non ha bisogno di soldi», continua la fonte. «Il suo era solo un messaggio: adesso che il vostro vecchio è in prigione, non pensiate di essere intoccabili». Da Cancún alla California, l’avvertimento è chiaro. El Mencho punta al trono.

«Alcune persone hanno visto el chapo.
El mencho invece no: lui è un fantasma»

Per molti versi, il Jalisco è lo stato messicano per antonomasia. Qui sono nati i mariachi, la tequila e i sombrero. Il suo motto è: “Jalisco es México" . Per decenni è stato una zona neutrale per i cartelli: i boss facoltosi possedevano case nella capitale, Guadalajara, una città coloniale da cartolina detta “La perla dell’occidente”, mentre le località turistiche della costa come Puerto Vallarta erano meta di villeggiatura sia dei signori della droga che dei politici.

Ma il Jalisco, da un punto di vista strategico, è anche un territorio cruciale per il commercio di droga. Essendo la seconda città più grande del paese e uno snodo dei trasporti, Guadalajara offre enormi opportunità di riciclaggio di denaro sporco e di reclutamento. Si trova inoltre vicino ai due principali porti marittimi del Messico, Manzanillo e Lázaro Cárdenas, fondamentali per lo smercio via mare della droga. «Se dovessi scegliere un fattore alla base dell’ascesa fulminante del Mencho», spiega l’agente speciale Kyle Mori, incaricato delle operazioni sul campo della Dea di Los Angeles, «è che ha goduto di uno straordinario vantaggio geografico».

Il trentacinquenne Mori è serio, ha la mascella squadrata e l’amichevole autorità di una guardia forestale, di quelle che si portano dietro una Glock. Ma è anche capace di trasformarsi in un «bulldog quando si tratta di investigare», dice il suo supervisore James Comer. Prima di entrare nell’agenzia, Mori ha lavorato come vicesceriffo sulle strade di Compton. Ora, come principale investigatore sul CJNG – e grazie al suo contribuito alla formulazione dell’accusa contro El Mencho nel 2014, – probabilmente conosce il cartello meglio di chiunque altro in America. «Lavoro su di loro da quando ho iniziato qui», spiega. La prima volta che El Mencho è spuntato sul suo radar è stato per puro caso. Nel 2010, mentre stava lavorando su un caso di riciclaggio, un agente sul campo a Guadalajara gli aveva raccontato di un nuovo cartello: «Qui nel Jalisco sono un bel problema. Quando El Chapo verrà preso, saranno loro a comandare».

All’epoca, quelli del CJNG si presentavano come i salvatori. Si fanno chiamare i Mata Zetas, indossano equipaggiamento paramilitare nero e postano video propagandistici in cui affermano di combattere gli Zetas per il popolo messicano. «Noi non estorciamo, non rapiamo, non rubiamo, opprimiamo o disturbiamo il benessere nazionale», dicono in un video. «Il nostro unico obiettivo è eliminare gli Zetas». Ma, come spiega Stewart: «In Messico non esistono Robin Hood». Ben presto si scopre che quelli del CJNG non sono i buoni, ma solo l’ennesimo cartello che cerca di proteggere il proprio impero nascente della metanfetamina.

In un cablogramma diplomatico del 2008 ( “Città chimiche: Guadalajara, il Jalisco e il commercio di metanfetamina"), un funzionario americano descriveva come la zona fosse diventata il centro delle droghe sintetiche. A differenza di eroina e marijuana, la metanfetamina non ha bisogno di grandi appezzamenti di terra o di un clima favorevole, ma solo di aree isolate per i laboratori. Guadalajara possedeva anche una florida industria farmaceutica, e molti giovani chimici con competenze tecniche. E poi c’erano i porti sul Pacifico, che consentivano di introdurre di nascosto immense quantità di precursori chimici dall’India e dalla Cina, e di fare poi uscire il prodotto finito.

«Questi tizi sono stati i primi a utilizzare la metanfetamina», racconta Stewart. «Capivano anche di economia: a differenza della cocaina, con quella sostanza controllavano il grosso dei profitti». Secondo un analista della Dea «il loro problema è che sono fuori di testa». Rispetto ai vecchi cartelli, El Mencho e il CJNG sono «bifolchi, gente che arriva da luoghi arretrati che si è fatta una reputazione riducendo in polvere la pseudoefedrina. Non devono invitare a cena fornitori boliviani, o volare in Sud America per trattare. Sono piuttosto rozzi». Il volume d’affari del Mencho cresce vorticosamente, e le sue operazioni si diversificano. Per trasportare i narcotici dal Sudamerica investe in sottomarini, secondo l’ex agente della Dea assume persino un ingegnere navale russo per progettarli. Elude la sorveglianza americana, concentrandosi su territori d’oltremare come l’Australia, dove – spiega Mori – un chilo di cocaina può rendere il quadruplo che negli Stati Uniti. El Mencho impiega anche mezzi più terra terra, usando modelle come corrieri: secondo l’ex agente i trafficanti si fanno passare per fotografi, e arrivano in aereo con i «talenti» dalla Colombia e dal Venezuela. Le autorità sono distratte dalle donne e la droga entra senza problemi.

El Mencho modula il suo potere alternando corruzione e intimidazione. I membri del cartello catturati hanno testimoniato quanto odi la disobbedienza e ami costringere le sue vittime a implorare perdono prima di ucciderle. «Sarebbe capace di sterminarti la famiglia solo sulla base di voci», mi hanno riferito. «Non ha alcun riguardo per la vita umana». Secondo chi lo ha incontrato, è uno scaltro uomo d’affari che non beve, non ha amanti come gli altri boss dei cartelli e non si fida di nessuno. L’ex agente sul campo racconta di aver ascoltato diverse telefonate del Mencho con i suoi sottoposti. «Malgrado fossero anche loro degli assassini, se la facevano sotto. Penso di non averlo mai sentito calmo. Ma non è una testa calda. Erano urla controllate, di uno che sa cosa sta facendo». La sua ferocia suscita una rara devozione tra le sue truppe. «Una volta c’è stata una grossa sparatoria in una fiera», ricorda. «Qualcuno ha lanciato una granata, e quelli del CJNG le si sono gettati sopra per evitare che El Mencho rimanesse ucciso». L’efferatezza del boss ha reso complicato reclutare informatori. Uno era riuscito ad avvicinarsi a lui, ma gli uomini del cartello lo hanno scoperto e rapito insieme al figlio adolescente. «Il cadavere del padre è stato rinvenuto un mese dopo, torturato. Il figlio non l’hanno mai trovato».

El Mencho ha inoltre corrotto la polizia. Il governatore del Jalisco Aristóteles Sandoval ha dichiarato che al momento del suo insediamento «la vulnerabilità più grande dello stato era l’infiltrazione della criminalità organizzata tra le forze dell’ordine». Stando a un’inchiesta della Reuters, il CJNG aveva più della metà del corpo municipale a libro paga: alcuni prendevano cinque volte più del loro stipendio. «La gente aveva smesso di credere nella polizia», racconta il procuratore generale del Jalisco Eduardo Almaguer.Quelli che non riesce a comprare, El Mencho li spaventa. Secondo l’ex agente della Dea, il cartello suscitava autentico terrore tra i poliziotti messicani. «Avevano paura di lui. Non volevano farlo incazzare».

Una telefonata emersa di recente mostra come il boss utilizzi con noncuranza la minaccia della violenza. Lo si sente parlare con un comandante di polizia locale (soprannominato “Delta One"), i cui agenti si stanno mostrando un po’ troppo zelanti. Eccone una versione ridotta:

  • Mencho: Delta One?
  • Comandante: Si, chi parla?
  • M.: Ascolta, figlio di puttana. Sono El Mencho. Di’ ai tuoi ragazzi di levarsi dal cazzo, altrimenti è la volta buona che ti inculo. Ucciderò anche i tuoi fottuti cani, pezzo di merda.
  • C.: Sì, signore. Dirò loro di ritirarsi.
  • M.: Non provare a riattaccare, figlio di puttana. So dove sei – sei appena stato a Chapala (un’agiata periferia di Guadalajara, nda).
  • C.: Nossignore, non lo stavo facendo, gli dirò di ritirarsi.
  • M.: Avevi detto che saremmo andati d’accordo, pezzo di merda. Faresti meglio a salire a bordo, oppure sarai il primo sparire, hai capito?
  • C.: Nossignore, non c’è bisogno di arrivare fino a quel punto.
  • M.: Se cerchi amicizia, sappi che con me hai un grande amico. Ma se non è così, allora puoi andare a farti fottere.
  • C.: Signore, lo sa che sono suo amico. Farò subito qualche telefonata. La richiamo a questo numero.
  • M.: No, no, no. Non richiamarmi a questo numero. Lo farò io. E non spegnere il telefono, potrei prenderlo come un segnale negativo (sospiro).
  • C.: Si, signore. Sa che la rispetto.
  • M.: Ok, allora. E scusa per le parolacce.

Mentre la Dea è impegnata con El Chapo e il cartello di Sinaloa, El Mencho può volare sotto la portata dei radar e intensificare le sue operazioni. «Tutti i cablogrammi che uscivano dal quartier generale e i rapporti di intelligence erano sul Chapo», racconta l’ex agente sul campo. «A Washington dicevano: “Non abbiamo mai sentito parlare del CJNG”. Non lo ritenevano importante». Così le indagini di Mori faticano a guadagnare popolarità. «Siamo finiti in un vicolo cieco. Non avevamo fatto passi avanti, non avevamo fonti, nemmeno lo straccio di un’intercettazione. Sapevamo di questo attore di primo piano, della sua ascesa, ma non avevamo nessun appiglio». Il caso viene dunque messo da parte, e negli anni successivi il CJNG diventa un cruccio secondario. «Erano in pochi nel quartier generale e in Messico a vedere che cosa stava accadendo», dice Mori. «Se all’epoca aveste chiesto agli agenti della Dea se conoscessero El Mencho, la maggior parte di loro avrebbe risposto di no». Eppure, solo qualche anno dopo, questo ex comprimario sarebbe diventato uno dei boss più ricercati del pianeta, con un esercito di 5mila uomini – all’incirca quanto la Dea – e un patrimonio personale vicino al miliardo di dollari. «Come fa uno spacciatore di strada da quattro soldi a diventare uno dei più prolifici trafficanti al mondo?». Semplice: si trasferisce in America.

Luoghi e cifre della guerra alla droga messicana

Nell'ultimo decennio, il conflitto ha toccato ogni angolo del Paese, uccidendo più di 200mila civili. Questa mappa mostra le aree controllate dei principali cartelli, i luoghi della produzione di droga e le aree dove le dispute territoriali continuano ad alimentare la violenza.

Luoghi e cifre della guerra alla droga messicana Rolling Stone

Naranjo de Chila è un pueblo polveroso di montagna del Michoacán sud-occidentale, distante anni luce dai palazzoni di Guadalajara. È qui che il 17 luglio 1966 nasce Rubén Oseguera Cervantes, uno dei sei fratelli di una famiglia indigente di coltivatori di avocado. Il villaggio si trova ai margini della Terra Caliente, una regione inospitale e povera nota per la produzione agricola legale e illegale. Per aiutare economicamente i suoi, il giovane Rubén lascia la scuola in quinta elementare e inizia a lavorare nei campi; a 14 anni diventa sorvegliante delle coltivazioni di marijuana.

El Mencho deve però aver anelato a qualcosa di più degli avocado, perché nel giro di pochi anni fa fagotto e si trasferisce in California. Nel 1986 vive nella Baia di San Francisco, dove è arrestato dalla polizia per possesso di merce rubata e di una pistola carica. Nella foto segnaletica, il diciannovenne El Mencho ha una felpa con cappuccio e un’espressione assente, il volto da bambino ricoperto d’acne. Due mesi dopo nasce il suo primogenito. Non è chiaro se sia mai stato in prigione per quel reato, ma secondo Univision attraversa diverse volte il confine alla fine degli anni ’80, contrabbandando droga con vari pseudonimi (Rubén Ávila, Roberto Salgado). Secondo la Dea e i rapporti messicani, è in questo periodo che viene introdotto al commercio di metanfetamina.

All’epoca la produzione è concentrata nella Central Valley, in California, nei cosiddetti super-laboratori a Fresno e Bakersfield. È lì che, insieme al cognato Abigael Gonzalez Valencia, El Mencho impara il business di famiglia. Nel 1989, El Mencho è di ritorno a San Francisco, dove viene nuovamente arrestato, questa volta per spaccio (in quest’occasione, nella foto segnaletica indossa una giacca jeans slavata e mette in mostra un sorriso sardonico; non sembra un uomo che non vede l’ora di essere riabilitato). Pochi mesi dopo è espulso dal paese, ma nel settembre è ancora nella Baia, dove viene catturato per l’ennesima volta, per un reato federale. Il fratello più grande, Abraham si trova in un bar di San Francisco di nome Imperial per portare a termine un affare di eroina: 140 grammi per 9500 dollari. El Mencho, all’epoca ventiseienne, lo scorta. Pur essendo il minore, è abbastanza furbo da rendersi conto che i compratori non stanno pagando con banconote sfuse, ma con un’ordinata mazzetta di biglietti da cento. In una conversazione registrata, lo si sente avvisare Abraham che a suo parere quegli uomini sono in realtà poliziotti sotto copertura e dirgli che non avrebbe mai più concluso affari con loro. Tre settimane più tardi, El Mencho e il fratello finiscono dentro.

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Venticinque anni dopo, né il pubblico ministero né l’avvocato d’ufficio del Mencho sono in grado di ricordare il caso nei dettagli. Le trascrizioni della corte lo dipingono come un imputato avveduto, combattivo e leale al fratello, capace di mostrare anche lampi di cupo umorismo. El Mencho insiste nel proclamarsi innocente. Ma per il pubblico ministero i fratelli sono un pacchetto unico: se El Mencho non si dichiara colpevole, Abraham – già con una doppia condanna per reati di droga – rischia l’ergastolo. El Mencho vacilla. «In un processo con giuria, potrei vincere la causa da solo», dice al giudice scettico. Decide di dichiararsi colpevole per proteggere il fratello. El Mencho viene condannato a cinque anni da scontare nel Big Spring Correctional Center, un carcere privato del Texas occidentale, che ospita principalmente immigrati clandestini (secondo Univision, avrebbe reclutato alcuni dei suoi uomini proprio in prigione). Dopo tre anni, nel gennaio 1997, è rilasciato sulla parola. Gli U.S. Marshals lo scortano fino in Messico: a soli trent’anni è già un criminale recidivo.

Gli anni successivi sono confusi, ma secondo i rapporti messicani e della Dea El Mencho rispunta in una cittadina del Jalisco chiamata Tomatlán, dove, in maniera improbabile, diventa un agente della polizia statale (non è la prima volta che un narcotrafficante si infiltra nella polizia di stato messicana che – a differenza degli omologhi federali – è generalmente percepita come corrotta). Infine, El Mencho approda Guadalajara ed entra nel Cartello del Millenio, il gruppo che lo catapulta al potere. Un tempo “Milenio" era un’organizzazione indipendente, ma a cavallo dei due secoli è di fatto diventato subalterno a Sinaloa, sotto la guida di Nacho Coronel – uno dei fondatori del cartello e zio della moglie del Chapo. Coronel è un capo spietato, che gestisce la piazza di Guadalajara per i sinaloenses. El Mencho si unisce al distaccamento che si occupa della protezione. Usando le parole di Stewart: «In qualità di guardia del corpo-barra-sgherro-barra-sicario». Vista la sua formazione nelle forze dell’ordine, El Mencho viene addestrato per occuparsi di sicurezza e controspionaggio. Secondo alcuni report, arriva a dirigere una rete di sicari.

Uno dei soprannomi di Coronel è «il re del Cristallo», per la sua egemonia sul commercio di metanfetamina. In seguito a un giro di vite negli Stati Uniti, come molti altri business, si è trasferito a sud del confine, e la sua produzione sta ormai prosperando tra le aspre montagne che circondano lo stato di Jalisco. Grazie alla sua esperienza americana, El Mencho è in posizione vantaggiosa per trarne profitto. Nel 2009, ha ormai scalato diverse posizioni all’interno dell’organizzazione ed è diventato uno dei luogotenenti più rilevanti di “Milenio". In ottobre uno dei capi del cartello viene arrestato, e nove mesi dopo Coronel muore durante un raid dell’esercito nella sua villa di Guadalajara. A quel punto, l’ambizioso El Mencho si fa avanti per prendere il loro posto. Ma il direttivo del cartello ha altre idee. El Mencho – come un vicepresidente seccato di essere stato ignorato per l’incarico di amministratore delegato – si stacca e mette in piedi la propria fazione, dichiarando guerra a Milenio e Sinaloa. Gli scontri infuriano per le strade di Guadalajara, annientando la tregua pluriennale, e il tasso di omicidi dello stato raddoppia. «Gli uomini fedeli a Milenio sono fatti fuori», dice Mori. «Tutti gli altri sono costretti a fuggire. El Mencho vince: è l’inizio del CJNG».

«Tutti i concorrenti sono stati eliminati.
O stai con lui, o sei finito»

Due ore a sud di Puerto Vallarta, nell’abbagliante striscia di terra sul Pacifico nota come Costalegre, sorge un resort ecologico a cinque stelle chiamato Hotelito Desconocido. Formata da due dozzine di bungalow con il tetto in paglia, annidati nel mezzo di un paradiso ornitologico patrimonio dell’Unesco, la proprietà è finita anche sulle pagine di AD e del Wall Street Journal: pare che abbia ospitato diverse celebrità di Hollywood, tra cui Sandra Bullock, Julia Roberts e Blake Lively. Sfortunatamente per i suoi proprietari, nell’agosto del 2015, l’Hotelito è stato confiscato dal governo messicano su segnalazione dei funzionari americani, che lo definiscono una copertura del cartello. Secondo gli investigatori statunitensi, la proprietà ha profondi legami con il CJNG e una sua organizzazione affiliata, Los Cuinis, un gruppo di trafficanti guidato dal cognato del Mencho, Valencia. Sembra che il cartello usasse l’hotel per riciclare denaro e ospitare riunioni segrete. La proprietaria – la cognata del boss – in seguito sarà arrestata in Uruguay con il marito, dopo che i Panama Papers gli attribuiscono milioni in beni illegali.

A smascherare l’Hotelito è l’Ufficio di controllo dei beni stranieri del tesoro statunitense, l’OFAC. «Il nostro lavoro è simile a quello di qualunque agente di polizia, l’unica differenza è che non arrestiamo le persone», afferma un investigatore dell’agenzia. Quando l’OFAC sospetta che qualcuno supporta un cartello, lo può «designare» sotto il Kingpin Act, congelando i beni e, in sostanza, espellendo il sospetto dal sistema finanziario. L’OFAC aggiunge El Mencho alla sua lista nera nel 2015 e, da allora, con una serie di azioni, rivela una vasta rete di holding connesse al CJNG, tra cui un’azienda agricola, un’agenzia pubblicitaria, una società immobiliare di case vacanza, una marca di tequila e una catena di ristoranti di sushi. «L’idea è di stritolare i beni del Mencho, colpendo i suoi soci d’affari», spiega l’investigatore. «Quando inseriamo un bene sulla lista, è come se dicessimo: “Il proprietario di questa società è una copertura del Chapo o del Mencho, e ricicla denaro sporco da vent’anni: non dovreste fare affari con lui”».

Mentre l’OFAC esercita pressioni economiche sul boss, le forze dell’ordine intensificano la caccia. Lo hanno già mancato per un soffio parecchie volte. Nel marzo 2012 l’esercito messicano compie un blitz in un appartamento di Guadalajara, considerato un nascondiglio del Mencho. C’è una sparatoria, ma lui riesce a fuggire. Qualche mese dopo la polizia federale assalta un complesso agricolo del cartello con cinque Black Hawk; nello scontro a fuoco sei uomini del CJNG perdono la vita. Alcune inchieste ipotizzano che El Mencho sia stato catturato, ma la notizia si rivela infondata. Citando una fonte della DEA: «L’hanno letteralmente mancato per pochi minuti». La primavera seguente, il CJNG irride le autorità con una finta conferenza stampa postata su YouTube, in cui compaiono 50 mercenari armati, con passamontagna e giubbotti antiproiettile davanti a un’enorme bandiera del CJNG. Un portavoce recapita un messaggio del “Señor": «Continuate pure ad abbaiare, cani, ma sappiate che intanto sto avanzando». A quel punto El Mencho dichiara guerra. Il 19 marzo 2015, un gruppo di uomini armati del CJNG tende un’imboscata a un distaccamento della polizia federale durante un appostamento a Ocotlán, uccidendo cinque agenti. Due settimane più tardi, a Guadalajara, il cartello tenta di uccidere il Commissario di Pubblica Sicurezza dello stato di Jalisco, Alejandro Solorio, crivellando il suo van corazzato con più di 200 proiettili. «Quando abbiamo cercato di rispondere al fuoco», dirà in seguito Solorio, «ci hanno lanciato contro due granate».

Poi, la settimana dopo Pasqua, l’assalto definitivo. Un convoglio della polizia d’élite Fuerza Única è in viaggio da Puerto Vallarta a Guadalajara, quando, intorno alle tre di pomeriggio, su una tortuosa strada di montagna a due corsie, trova il passaggio bloccato da un’auto incendiata. Il convoglio si ferma, ed è lì che il CJNG attacca, tempestando i poliziotti con mitragliatrici e lanciagranate. Nella carneficina perdono la vita 15 ufficiali: è il giorno più cupo della polizia messicana dell’ultimo decennio. Tra le fila degli assalitori neanche una vittima. Il segretario della difesa messicano pronuncia un messaggio di denuncia contro il cartello, definendoli «uomini senza scrupoli, che feriscono il paese, le sue famiglie e il suo modo di vivere. Questo atto codardo non rimarrà impunito». Poche settimane più tardi, l’esercito messicano risponde con l’Operazione Jalisco, che punta a decapitare l’organizzazione criminale. Venerdì primo maggio, nell’oscurità che precede l’alba, un distaccamento composto da paracadutisti dell’esercito e dalla polizia federale, trasportato da due elicotteri EC-725 “Super Puma", piomba su un ranch del Jalisco sud-occidentale, dove pare che si nasconda El Mencho. Ma, per l’ennesima volta, il cartello li sta aspettando. Mentre i primi soldati si calano con una corda da un velivolo, cecchini nascosti dentro autocarri blindati, con indosso mimetiche su cui compare la scritta COMMANDO SUPREMO DELLE FORZE SPECIALI DEL CJNG, aprono il fuoco con fucili d’assalto e lanciarazzi russi RPG. Uno dei rotori dell’elicottero viene colpito e precipita tra le fiamme. Otto soldati e un poliziotto sono uccisi. L’unico sopravvissuto, un ufficiale dell’intelligence di nome Iván Morales, riporta ustioni sul 70% del corpo.

Nelle ore successive, El Mencho raddoppia le azioni terroristiche, incendiando dozzine di autobus, camion, distributori di benzina e banche in tutto il Jalisco, bloccando la circolazione e mettendo lo stato in ginocchio. Il consolato statunitense chiede ai suoi cittadini di non uscire; il governo messicano è obbligato a mandare 10mila uomini. Secondo l’ex agente della Dea, il caos è stato ideato per aiutare El Mencho a fuggire – a quanto pare, una tattica che il cartello ha imparato dai commando israeliani. «Ho sentito parlare del loro incontro con gli israeliani, su cecchini e roba del genere», racconta l’agente. «Questo utilizzo tecnico della forza è una novità per i cartelli messicani». «È stato un dispiego di forze incredibilmente rapido», spiega un investigatore federale. «Praticamente dal nulla, El Mencho è stato in grado di creare il caos nella seconda città più grande del paese. “Mi state dando la caccia? Allora vi mostro io chi comanda”». A suo parere, è un attacco senza precedenti. «Non stavano solo rispondendo. Stavano uscendo per le strade per scontrarsi con le autorità. Non si assisteva a una cosa così dai tempi di Pablo Escobar». Se il conflitto tra il CJNG e i militari si fosse ulteriormente inasprito, probabilmente El Mencho sarebbe stato arrestato o ucciso. Invece la sorte gli tende la mano, grazie al suo ex capo, trasformatosi nella sua nemesi: El Chapo. Un investigatore federale spiega: «Dopo il maggio del 2015, El Mencho è diventato il nemico pubblico numero uno. Ma poi, l’11 luglio, cosa succede? El Chapo evade dal carcere. Ovviamente, il governo messicano è in una posizione di estremo imbarazzo. E sposta tutte le risorse sulla cattura del fuggitivo. Il CJNG ne approfitta per ripensare la sua strategia». Il cartello smette di tendere imboscate alla polizia e riduce la violenza. «Continuano a uccidere», dice l’investigatore. «Ma ora uccidono solo i loro rivali». Come oggi a Tijuana.

Esercito messicano sequestra cristalli metanfetamina guerra dei narcos

Di tutte le plazas messicane della droga, è probabilmente la più preziosa. Quasi tutti i traffici verso la California del Sud passano da lì, per poi raggiungere Los Angeles, San Francisco, Las Vegas, Phoenix, Denver, Chicago e addirittura il Canada. Ogni anno nel corridoio di San Diego la Dea sequestra 225 milioni di dollari in narcotici, senz’altro solo una minima parte di quanto riesce a passare. Il controllo di Tijuana rappresenta un’industria miliardaria. Fino a pochi anni fa, la città era saldamente in mano a quelli di Sinaloa. Ma all’inizio del 2013, il CJNG si fa largo con la forza. Secondo la giornalista Adela Navarro, il loro discorso è semplice: «Unitevi a noi, o vi ammazziamo». Un luogotenente di un cartello arrestato, che ha combattuto contro El Mencho, descrive una strategia simile: «Chiunque spacciava è stato rapito o ucciso. Se lavoravi, cominciavi a lavorare per lui, o altrimenti eri finito. È una cazzo di guerra senza fine e senza senso». La Navarro, una donna straordinaria con un piglio pragmatico, è la direttrice di ZETA, il pluripremiato giornale di inchiesta di Tijuana, famoso per sfidare i narcos: il suo co-fondatore, Hector Félix Miranda, è stato assassinato nel 1988, presumibilmente per aver smascherato un uomo d’affari affiliato a un cartello; nel 1997, il co-direttore Jesús Blancornerlas viene colpito da quattro proiettili, dopo aver pubblicato rivelazioni sul cartello di Tijuana. Sulla porta della sede del giornale, un accogliente edificio color crema in una strada alberata del centro, campeggia un cartello con il famoso slogan di ZETA: Libre como el viento.

Secondo la Navarro, nel 2015 Sinaloa e il CJNG hanno raggiunto una pace precaria in città, spartendosi incroci, itinerari per il traffico e persino agenti corrotti, per smettere di uccidersi tra di loro e raffreddare il clima. «In pratica, hanno fatto un accordo commerciale», sostiene Mori. Tijuana è un microcosmo: quell’estate Tomas Zerón, capo dell’Agencia de Investigación Criminal, dichiara: «Ormai i cartelli rimasti sono due: Sinaloa e il CJNG».Pochi mesi dopo, El Chapo viene arrestato. La fragile tregua collassa. Da quel giorno, il tasso di omicidi di Tijuana esplode. L’anno scorso è cresciuto del 36%: le 910 uccisioni in città rappresentano un primato storico. Nel 2016 a Chicago, che ha più del doppio della popolazione, ci sono stati 762 omicidi. La collega di Navarro, Rosario Mosso, che per ZETA si occupa di tenere traccia degli assassinii in città, ricorda che faticava a star dietro al numero delle vittime. «Uno dopo l’altro. Cadaveri impiccati, teste staccate». Lo scorso marzo, gli omicidi toccano una nuova punta mensile: 121. A questo ritmo, nel 2017 a Tijuana saranno più di 1300. Per la Navarro la situazione non è tragica come nel 2008, quando era in corso la guerra tra Sinaloa e il cartello Arellano-Félix, e i civili venivano rapiti e uccisi alla luce del sole. Per il momento i morti sono confinati alla popolazione criminale, agli spacciatori. «Ma una volta eliminati i propri nemici, a chi tocca? Alla società civile». Anche la Mosso teme che le cose siano destinate a peggiorare. «A questo punto, credo che le autorità abbiano perso il controllo. Non finirà finché questi due gruppi non sistemano le loro divergenze, o uno dei due prevale». Ed è preoccupata che sarà El Mencho, che non è visto come un eroe popolare, ma come una spaventosa minaccia.

«Il livello di violenza del CJNG è senza precedenti», continua la Mosso. «Incendiano autobus, uccidono interi villaggi. La gente è terrorizzata. Le autorità ci hanno detto: “Se a vincere sono quelli del Jalisco, allora siamo davvero nei guai”». Per ora, l’ascesa del Mencho continua inarrestabile. Alcuni segnali dicono che stia cercando di conquistare spazio in altri territori controllati dai rivali, tra cui Baja California, Sonora e persino lo stato natio del Chapo, il Sinaloa. «In questo momento», racconta Stewart, «stiamo assistendo alla penetrazione nel Chihuahua – lo stato di confine messicano dove si trova la preziosa frontiera El Paso-Juarez. Per ora è condiviso. Ma se il CJNG riesce a chiudere quelle plazas, e a tagliar fuori quelli di Sinaloa, avrà sferrato un colpo mortale ai loro traffici». Ma ci sono anche indicazioni che il cappio si stia stringendo. Nel dicembre 2015, uno dei fratelli del Mencho, il sedicente responsabile finanziario del cartello Antonio «Tony Montana» Oseguera, viene arrestato nel Jalisco. Anche il presunto vice – il figlio del Mencho, Rubén Oseguera, noto anche come El Menchito – viene catturato e, lo scorso dicembre, incriminato da un tribunale federale americano. Diversi altri boss di primo piano del CJNG sono stati presi o uccisi. In marzo il Messico ha accettato di estradare Valencia, il cognato del Mencho, negli Stati Uniti, per la stesse accuse a carico del boss.

Se El Mencho venisse catturato domani, probabilmente gli Stati Uniti ne chiederebbero l’estradizione, così come hanno fatto con El Chapo. A quel punto toccherebbe alle autorità messicane decidere se conformarsi alla richiesta. Mori spererebbe di sì: «Tra gli agenti della Dea c’è questo pregiudizio, per cui “se togli tre milioni a questo tizio, è un cazzo di successo”. Ma mi creda, non è così. L’unica cosa che interessa a questa gente è non essere estradati negli Stati Uniti». Ma il nostro ex agente della Dea dubita che si arriverà mai a quel punto. «El Mencho è un killer. Sarei sorpreso se venisse catturato vivo». Nel frattempo, afferma Mori, «ci limitiamo a cercarlo». Qualunque operazione che punti a eliminare El Mencho è di responsabilità del Messico. «Gli Stati Uniti possono solo fornire assistenza e consigli, lavorando fiduciosamente con loro a un’operazione bilaterale. Anche se fino a oggi non abbiamo avuto molte opportunità di beccarlo». Mori sospetta che El Mencho si nasconda da qualche parte in una remota area montuosa, presumibilmente nel Jalisco o nel Michoacán. «Penso che si senta al sicuro in quel territorio, che conosce così bene. Sceglie con cura con chi parlare e chi incontrare. Penso che si sposti parecchio, e credo anche che abbia una capacità economica e una manodopera quasi illimitata. E se hai queste due cose, puoi startene tranquillo per un bel po’».