Sotto il latex c’è un po’ di Pil. E batte un cuore. | Rolling Stone Italia
Gonzo

Sotto il latex c’è un po’ di Pil. E batte un cuore

Siamo stati al Ritual, il Modern Fetish Party italiano (presto sbarcherà all’estero) che abbatte i pregiudizi, i moralismi e i tabù

Sotto il latex c’è un po’ di Pil. E batte un cuore

Sarebbe piaciuto a Leonor Fini, artista surrealista e intellettuale, amica di Breton e Dalí, di Éluard e di Max Ernst. A lei, eclettica felina femmina alfa, istrionica creativa e performer di se stessa nell’arte del tra(s)vestimento. Perché il Ritual è interpretazione di quell’istinto, “rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano in sé”, che si manifesta nella forma di uno tra i più raffinati prodotti della cultura underground contemporanea per mission e vision.

Il Ritual è l’espressione matura di un fenomeno socioculturale in espansione che svela mondi sconosciuti alla Cultura Ufficiale: dove la Subcultura dispiega professionalità, tecniche organizzative, comunicative e di marketing stupefacenti. Raduna migliaia di persone ed è incredibile come grazie alla compattezza della sua weltanschauung, ai suoi codici e regole stilistiche, il Ritual abbia potuto vivere, crescere ed espandersi mietendo sempre maggiori successi, lontano dai fari mediatici e protetto dai loro troppo spesso esiziali danni collaterali.

Quest’anno il Ritual compie 18 anni e sabato 27 maggio festeggia dieci anni di matrimonio con il Torture Garden di Londra di Allen Pelling e David Wood, la Grande Madre di tutti i fetish club. Ma che cos’è il Ritual? Per chi ne ha solo sentito parlare, è “il party più trasgressivo” in Italia. Per impresari affaristi è un business dalle segrete alchimie che in molti tentano inutilmente di clonare.

Per chi lo conosce è “un territorio di appartenenza”. Per gli esperti di subculture è un case study. Il Ritual si celebra una volta al mese in alcuni dei più noti locali di Roma. Si alterna ai Secret Rendez-Vous per selezionati invitati convocati in castelli medievali, gallerie d’arte nel centro di Roma o loft postindustriali delle estreme periferie. La parola d’ordine è free self-expression, ma il dresscode è obbligatorio: perché chi partecipa crea a sua volta spettacolo. Se pensate di cavarvela con soluzioni sexy cheap avete sbagliato indirizzo: sarete respinti senza pietà alla door selection. Già la fila all’ingresso è spettacolo. E poi, oltre lo specchio, c’è un altro mondo: una folla di colori, voci, bellezza che stordisce. Cura maniacale del look in ogni particolare, accessori, acconciature, makeup.

Età media trent’anni, ma l’anagrafe qui non conta, né contano i generi, l’orientamento sessuale, le razze. Musica hard-dance, techno, industrial, dj set internazionali, drink e food serviti da barmaiden e dragqueen, un flusso ininterrotto di fashion show, performance di rigger e bunny del bondage, fire e aerial, body art, freak show, burlesque, innesti di teatro onirico del Cabaret Domestique, tra dance floor e dungeon, catene, sospensioni e schiocchi di frusta, wax play, videoinstallazioni, mostre d’arte – come la Ritual Love Art Gallery sul tema dell’amore dal Rinascimento ad oggi – e proiezioni di corti di autori indipendenti. Chi immagina atmosfere di ansiogena cupezza è fuori strada.

Nel “Libero Stato” del Ritual la cifra è il divertimento. Pop Art, Alice in Fetishland, Holy Roman Empire, Sailors & Sirens… i titoli dei Ritual parlano da soli. “Play With Life” è il motto. Si balla, si beve, si ride. Ci si può anche sposare all’edizione di San Valentino, officiante Elvis Presley, con cerimonia e wedding chapel che nulla hanno da invidiare ai set di Las Vegas. Qui tutto è ammesso, o quasi. Ad esempio non è tollerato molestare gli altri, soprattutto le clubber che arrivano a grappoli, single o in coppia.

Una sola parola o un gesto sbagliato e vi ritroverete sul marciapiede. L’esibizione dei corpi, la nudità, il fetish style qui sono espressione di libertà, sacra e inviolabile. La base concettuale del Ritual? «Contaminazione di generi, culture e diversità», spiega Tiziano Rizzuti. Musicista e creativo multitasking, rimbalzato dalla scena gothic, post-punk e cyber londinese degli anni ‘90 a quella alternative rock di Los Angeles, questo quarantenne di Roma è il fondatore e direttore artistico del Ritual. Lo ha chiamato così nel 1999 ispirandosi all’album Ritual de lo Habitual dei Jane’s Addiction di Perry Farrell, creatore del festival di musica indipendente Lollapalooza.

Il primo a lavorare sul concetto di “contaminazione delle culture in un contesto di abbattimento dei pregiudizi, dei moralismi, dei tabù”. Ritual «perché il rituale è un evento che si ripete per non perdersi, per ritrovarsi, un cerimoniale da condividere ». “The Next Vision Of Clubbing” per sottotitolo: “Dove il clubbing è lo strumento di realizzazione di un vero e proprio stile di vita, di una visione creativa della libera espressione individuale nel rispetto della libera espressione altrui”.

Anche nel sesso? «La cultura della sessualità», corregge Rizzuti, «è una componente molto importante del Ritual. Si connette a sensibilità, fluidità e spiritualità profonde, non legate a una moda transitoria, ma radicate in una dimensione senza tempo, che ci parla di conoscenza di noi stessi». Da questa vision nasce Ritual Lab che si occupa «degli aspetti didattici, artistici e socioculturali del fetish, del BDSM e dell’erotismo» con corsi, seminari, workshop, mostre in dialogo con le istanze dell’arte contemporanea.

Di qui l’idea del Ritual On Tour, che esporterà un format italiano di successo in altre città e nelle altre capitali europee. Manager e human resoucers, creative writers e social media specialists, designer e stiliste, scenografi, architetti, registi, fotografi… Dentro l’ingranaggio del Ritual c’è un capitale creativo giovanile. Alternativo? Rizzuti il termine “alternativo” non lo pronuncia mai, non a caso. «Diverso», ripete. Perché il diverso è maturità: sa trovare le forme del convivere.

Anche con la Cultura Ufficiale italiana, intrisa di moralismo, che dovrebbe imparare a rapportarsi con più rispetto ed umiltà alle sottoculture. Così come la Cultura del tempo, già a fine ‘800, seppe rapportarsi, grazie a Giacomo Puccini, alla subcultura dello stile bohémien. Per non dire che un prodotto culturale di successo rappresenta un positivo esempio di imprenditoria giovanile indipendente, capace di formare nuove professionalità e di generare lavoro. Ed è persino un modello etico.

Il futuro? «I ragazzi di oggi sono sperduti. Chi è stato più fortunato di loro ha il dovere di lavorare per creare senso di comunità. Noi vogliamo andare oltre la semplice cultura dell’appartenenza che, alla fine, ti lascia da solo». Sotto il latex c’è un po’ di Pil e batte un cuore. Chi l’avrebbe detto?

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