Al raduno Ape di Pontedera ho capito che per la provincia italiana non c'è speranza | Rolling Stone Italia
Gonzo

Al raduno Ape di Pontedera ho capito che per la provincia italiana non c’è speranza

L'evento Euroape 2019 è l'ennesimo tentativo di rendere cool le stranezze di un mondo parallelo e incomprensibile, dove omoni bruciati dal sole guidano veicoli vintage indossando un cappellino Prada e il borsello sintetico

Al raduno Ape di Pontedera ho capito che per la provincia italiana non c’è speranza

Il raduno Euroape 2019 a Pontedera

Foto via Facebook

Nella vita sono riuscito a imbucarmi più o meno ovunque. Concerti, serate aziendali, matrimoni, eventi super vip. Vengo da un paesino di diecimila abitanti ma per dieci anni ho lavorato a Milano, ero sgamato, ho imparato tutto da veri professionisti. Nonostante tanta esperienza, non ho ottenuto nessun pass per l’evento Euroape a Pontedera, il mega raduno degli apisti nella città toscana che ha dato i natali al mitico tre ruote. La vip lounge prevedeva una visita al museo Piaggio, una cena di gala, insomma presentarmi mi pareva il minimo. Ma l’organizzatore è stato chiaro: «se non hai un Ape, non c’è storia. Gli eventi sono solo per i soci del club».

Dalle mie parti l’Ape è uno stile di vita. Lo usano quelli a cui serve: contadini, manovali, traffichini e ragazzini smanettoni che amano puzzare di marmitte. Questo è l’Ape, un cazzo di coso triangolare quasi sovietico, che fino a qualche anno fa era da zotici o sottosviluppati e adesso è cool. Qui da me non ci fanno lo street food o le foto romantiche per il matrimonio, ci trasportano zappe e concime.
Ho scoperto del raduno per caso e per caso l’ho detto al direttore di RS che si è gasato e mi ha detto: ok vai.

Così, a caso.
Parto.

Sulla statale bientinese già alle 9 del mattino ci sono i camper delle puttane, che fumano impellicciate con le enormi tette in vista. Qui è terra di nessuno, sembra la Louisiana più estrema, altro che la Toscana dai cipressi in collina e di Sting che chiava nove ore di tantra e produce vino nella sua villa tutta good vibes. Qui, amico, è un brutto mondo e la gente si ammazza a testate. Nei bar le slot, sulle pareti trofei di calcio e foto con Smaila o qualche vip di passaggio. Poi: capannoni, rotonde, alberghi a ore e trans nei parcheggi di Camaiore.

Nel mezzo: paesini del cazzo.

Arrivo a Pontedera e capisco di essere in uno dei suddetti. Posti così ne ho visti tanti. C’è sempre una piazzetta medievale (o vecchia) e paranoide, tutto è fatto in pietra e ci sono dei bar. Lo sai che i luoghi trattengono l’energia? Che per diventare vivibili andrebbero purificati almeno ogni cento anni con dei riti sciamanici anti malocchio? A Napoli si fa così, e Napoli è la città col più alto numero di case sfitte per presenze di fantasmi. Qui non c’è ancora un’amministrazione abbastanza illuminata. Qui c’è la Piaggio e l’Ape o la Vespa, quindi si tengono la piazzetta piena di malocchio. Ma noi toscani perché siamo così cattivi? Perché siamo schermati, cresciuti a pane e calci in culo e coi vecchi che al bancone del bar ti squadrano perché sanno che a carte vali meno di loro. Quindi ai miei occhi Pontedera non è neanche male, ma è quel tipo di provincia che ti dà tristezza, quel senso di tedio simile a quello che si prova per la domenica, mi sono spiegato? Non sai perché, ma sei in paranoia. Ecco la provincia è questo.

Foto via Facebook

Entrato in città parcheggio e mi incammino verso il centro. Scorgo subito gli stand del mega raduno, i gonfiabili trionfanti nel cielo, le transenne, i palloncini; ci sono i vigili urbani su di giri, i negozi aperti e le vecchie che fanno compere col piumino imbrillantate e il cane in braccio. Proprio questa aria di festa, che dovrebbe dare allegria, mi ha sempre abbassato l’umore di dieci tacche.
Entro in un bar. C’è il Tirreno, me lo accaparro togliendolo a un local che mi guarda scazzato. Sfogliando il giornale mi vengono in mente i miei primi articoli, le prime esperienze con la carta stampata, gli anni dell’università, le sale comunali dei piccoli comuni, gli assessori. Mi prende subito male. Rivedo le stesse facce, gli stessi discorsi, le stesse menate di dieci anni fa. Il casino della provincia è questo, che si conoscono tutti. Per forza la gente compie i delitti più efferati. Penso alle stragi, alle sparatorie in posti come Erba, Cogne, Novi Ligure. Sono tutti imparentati, tutti vincolati. È tutto un chi incula chi.

Cerco di non pensarci e punto lo sguardo sul mio obiettivo: gli apisti. Fuori dal bar ce ne sono di tutti i colori: l’ape su due piani; l’ape che ha il fornello alla brace all’interno: l’ape da campagna; un ape con una cazzo di gru installata dentro; ma non mi prendono, non mi toccano, sono continuamente attratto da stimoli diversi, da vibrazioni che arrivano da un mondo parallelo. È così da sempre: io attiro i pazzi. Infatti arriva Giacomo, uno zoppo con la zeppola, i capelli sporchi di un mese e lo sguardo tonto di un bambino, che mi attacca bottone. In bici, tutto goffo, completamente fuori di testa. Mi interessa più lui di tutti questi signori dell’Ape di sta minchia.

Il fatto è che non hanno senso estetico, hanno un veicolo vintage ma si vestono Quechua, hanno un che di retrò ma con innesti contemporanei orrendi tipo il borsello in sintetico, il cappellino Prada, della roba veramente boh. L’unico briciolo di coerenza è portato alto da un gruppo di friulani, esponenti del territorio più fuori di testa in tutta la penisola, che aprono un cassone di uno dei loro Ape e tirano fuori formaggi, salame, vino, poi cominciano a banchettare e a offrirne a tutti. Sono contadini, si vede dalle rughe in faccia e dalla pelle bruciata dal sole. Muratori, baristi. Una piccola oasi di verità in questa fiera dei finti tipi veri.

Non è che non sia bello sto raduno, per carità tutto è bello nel mondo, ma è una piccola massoneria, una roba per loro e solo per loro. Io che non ne so niente di Ape dopo otto minuti mi sono già annoiato. Capisco anche il loro non volermi dare il pass, lo vedo un tentativo di preservare la passione da contaminazioni esterne e so che si incazzeranno se mai leggeranno questo pezzo perché la prenderanno sul personale. Beh non c’è niente di personale. Sono qui solo perché volevo proporre una rubrica sulla provincia a Rolling Stone, perché anche io sono vittima dell’idea di provincia. Così come è stato rivalutato il kitsch, ovvero ciò che qualche anno fa era merda e ora piace, sono decenni che qualcuno cerca di riabilitare la provincia come luogo cool senza mai riuscirci. È un’operazione nostalgia fatta per chi vive a Milano o in qualche altra città degna di nome, ma a fine dei conti si rivela sempre impossibile. Sembra il tentativo di mettere delle persone in una gabbietta dorata e mostrarle a un pubblico che dovrebbe sollazzarsi per la loro arretratezza.

Foto via Facebook

La provincia è abbastanza insalvabile, come questi eventi sega tipo il raduno dell’Ape dove si cerca di rendere appetibile uno strambo che visto da vicino è più materia per smanettoni della domenica che per veri strambi. Immagino tutti gli sforzi di assessori comunali, volontari, associazioni, gente del territorio. Loro sono strafelici di metterci l’anima, ma per la maggior parte delle persone questa roba è solo frastuono domenicale. Questi dell’Ape fanno le impennate, bevono, sono pazzi, ma sono dei tipi ordinari come quelli che vanno alla Notte Rosa. Gente col piumino.

C’è una ragazza di cui parlano tutti e dicono che è bravissima, una sorta di Santa, una che viene dalla Polonia che si è fatta l’Ape da sola. Me la indicano come Madre Teresa e mi faccio strada per trovarla intenta ad armeggiare con dei ferri vecchi. È l’antitesi della figa, la cosa più noiosa del mondo, ha le Crocs. Tutta la sua caparbietà da apetta operaia senza gusto estetico mi toglie il fiato. Non ce la faccio.

Provo a far le foto alle Api ma non vengono bene, c’è troppa roba intorno, una luce orrenda.

Così lascio le antenne libere di sentire e vago per la piazza fotografando vecchie zoppe e canini di piccola taglia. Altro che le Api. E la ricerca paga perché trovo Darione, un gay di settant’anni sui 150 kg. Tre stomaci, pazzo, sguardo spiritato, mi fa mille domande, gli offro il caffè e mi dice che era un pezzo grosso di Pontedera, poi cominciamo a parlare di Istanbul che c’andava negli anni Ottanta e un taxi lo portava al mercato del sesso o al bagno turco e lì era tutto un groviglio di corpi, di odori, ma che ora si è rotto le palle di tutto. Ha le unghie nere, dita enormi, un vecchio cellulare Nokia, sembra un barbone. Eppure è stupendo, pieno di vita, totalmente fuori contesto, logorroico. Gliene frega un cazzo delle Api e a me quanto lui. E questo mi fa sentire che non sono solo. Un altro pazzoide ci punta e sento che vorrebbe partecipare alla discussione, sembra Scamarcio strafatto, coi baffi, tutto sporco. Però parlotta da solo, gesticola, ridacchia e se ne va. Meglio, perché mi faceva paura. Darione mi parla delle donne, che gli raccontano la messa e lo annoiano, o degli uomini, invasati con la topa e il calcio. Ma a lui lo entusiasmano solo i cazzi e questo me lo rende simpatico. Ci vogliono le palle per essere gay a Pontedera il giorno del raduno dell’Ape, così lontano dal Pride, dalle sfilate, dai salotti colti.

E così e solo così, sento che venire qui ha avuto un senso. Con buona pace per gli apisti, che comunque amo, figli di un creatore spietato che ci ha messi tutti assieme e poi divisi.