Amo gli alberghi. Credo di averne visti almeno un migliaio nella mia vita, di ogni livello, dalla stella singola al luxury, e non è detto che quest’ultima categoria abbia offerto sempre esperienze di livello. Ci sono due cose fondamentali che rendono la permanenza in hotel piacevole e degna di essere ripetuta. La prima: la tranquillità. Ambiente generalmente silenzioso, personale invisibile ma sempre presente, tutto quello che serve a disposizione senza la necessità di dovere chiamare la reception perché manca un asciugamani, un cuscino in più, la bevanda preferita nel frigobar. La seconda: la comodità.
Quando vai in albergo devi potere dormire come neanche a casa tua. Tutti gli spazi devono essere pensati per farti muovere liberamente anche in una camera non particolarmente ampia. Se sei un amante della doccia, che il getto sia ben regolabile in temperatura e la pressione dell’acqua sempre giusta. Le luci della stanza non devono essere complicate da accendere e spegnere e ci deve essere il giusto numero di prese di corrente per soddisfare le esigenze della nostra sempre connessa vita contemporanea.
Ne ho girati tantissimi, in tre diversi continenti, e c’è un’ultima cosa che conta davvero molto: la certezza di potersi sentire in qualche modo a casa, perché sai che tutto quello di cui hai bisogno è lì, senza sorprese. Succede quando frequenti strutture della stessa catena in posti diversi. Esiste uno standard che va rispettato, ma in questi casi si parla sempre di un livello di hospitality medio, piacevole ma non di alta fascia.
E poi c’è art’otel. Cioè, ce ne sono sette in tutto: Amsterdam, Berlino, Colonia, Zagabria, due a Londra e adesso, da poco più di due mesi, a Roma, a Piazza Sallustio, a cinque minuti a piedi da Via Veneto e nonostante ciò lontano dalla pacchiana decadenza della Dolce Vita. Un angolo di Roma tranquillo, mai trafficato e quindi molto silenzioso, ma ricco di negozi, bar e ristoranti a portata di piedi.
Il concept di art’otel è semplice: eleganza e servizi di alto livello. Ogni albergo è curato da un resident artist che dà un’impronta unica alla struttura, sviluppando un’idea che si declina attraverso opere d’arte vere e proprie, da oggetti di design a quadri per gli ambienti comuni e pannelli, accessori, complementi d’arredo per le singole stanze. A Londra, per esempio, ho potuto visitare sia quello di Hoxton che quello di Battersea.

Un dettaglio degli spazi comuni di art’otel Londra Battersea. Foto: press

Un dettaglio della Junior Suite di art’otel Londra Battersea. Foto: press
Il primo è stato preso in carico da D*Face, street artist tra i più creativi della scena britannica che ha dato all’hotel un look ultrapop, tra Roy Lichtenstein e post-industrial (e ci sono anche due Banksy originali sulle facciate dell’immobile, così, tanto per gradire). Il secondo è opera dello spagnolo Jaime Hayon, che ha dato la propria impronta alla location attraverso suggestioni che omaggiano la storia dell’arte contemporanea latina, da Mirò a Dalì. Il tutto, in entrambi i casi, a contrappuntare spazi moderni ed eleganti mai appesantiti da barocchismi dettati dal desiderio di strafare o di accumulare. D’altronde le aree comuni di un hotel, dove magari fare un appuntamento di lavoro o passare il tempo sorseggiando un tè o un bicchiere di vino, devono essere un’estensione del concept delle camere, offrire quello stesso livello di comfort quasi casalingo.

Un dettaglio di art’otel Londra Hoxton. Foto: press

Un dettaglio di art’otel Londra Hoxton. Foto: press
Spostiamoci da Londra a Roma. L’art’otel della capitale ha aperto le sue porte il 6 marzo, un mese di warm-up per arrivare al weekend pasquale nelle condizioni migliori, salvo poi essere messi alla prova come nuova apertura dalla dipartita del Santo Padre e dal Conclave. Un battesimo del fuoco, ma talvolta lo stress può essere utile. Partiamo dal resident artist di Roma, perché in questo caso il concept è molto importante. Pietro Ruffo, artista dell’anno, il 2024, per la prestigiosa rivista Inside Art, ha infatti voluto raccontare Roma attraverso le sue creazioni, dalla terra al cielo. Roma, città dalle tante vite, alcune di queste ritrovate nel sottosuolo, storicamente una cultura che ha teso all’oltre, ha guardato lontano, anche verso le stelle. Ecco quindi le opere della Festine Lente e della Gente di Roma a decorare le stanze, Le Costellazioni, affascinante rappresentazione del cielo sopra la Capitale, simboli che rimandano ai miti fondativi di Roma, tredici personificazioni mitologiche del calendario astronomico raffiguranti figure antropomorfe e animali fantastici scolpite nella fermezza della pietra della hall e intessute nella morbida moquette dei corridoi che portano alle camere, tra cui le 11 suites, tutte con terrazza, in cui sono presenti delle opere dedicate.

L’artista Pietro Ruffo. Foto: press
Tutto molto bello, ma parliamo della cosa più importante: com’è soggiornare all’art’hotel? Ho provato una delle junior suite, ed è stata un’esperienza estremamente piacevole. Camera high-tech, esperienza domotica comunque molto semplice da usare. Il salottino è ampio, con una comoda scrivania per lavorare e il televisore da 42” può facilmente diventare un monitor aggiuntivo grazie al collegamento wireless. C’è tutto quello che ci si deve aspettare da una struttura di questa categoria e anche qualcosa di più. L’asciugacapelli della Dyson è una chicca non da poco (una sciocchezzina da 350 euro), ma quello che davvero scalda il cuore è il giradischi con selezione di vinili anche di un certo spessore (non so chi sia il pazzo che ha messo The Queen is Dead degli Smiths nella mia stanza, ma lo amo).

All’art’otel di Roma. Foto: press
La doccia è ampia e molto gradevole, anche l’illuminazione è rilassante. Per chi preferisce prendersi il proprio tempo con un sacco di schiuma, in alcune stanze c’è una vasca circolare, comodissima anche in coppia. Mi vorrei soffermare un attimo sui prodotti da bagno. Art’hotel usa in tutte le sue sedi quelli di Kevin Murphy, un brand australiano che porta il nome del suo fondatore, uno dei più grandi hair stylist del mondo. Si tratta di shampoo e doccia schiuma di livello luxury, pelle e capelli staranno bene quanto voi dopo il soggiorno.
E passiamo nella zona letto. Materassi comodissimi, ma per essere proprio sicuri che dormiate come angioletti, si ha la possibilità di scegliere la tipologia di cuscino favorita attraverso un apposito menu. Come detto, Piazza Sallustio non è rumorosa, gli infissi sono di eccellente qualità e tutti con doppi vetri, le tende oscuranti non fanno passare un filo di luce. Insomma, meglio mettere più di una sveglia perché di tirarvi su non avrete proprio voglia. Ma una volta superato il trauma, c’è un modo per rimettersi al mondo: andare a colazione.

Foto: press
O meglio, sapere che al piano terra c’è Yezi, e qui dobbiamo togliere il chiavistello a tutto un altro capitolo. Per l’apertura romana si è deciso di puntare sul concept panasiatico già presente nella location di Zagabria. Ho provato il menu e lo consiglio caldamente. Da Yezi si mangia prima di tutto con gli occhi. Anche a tavola vengono servite delle piccole opere d’arte. Qualche esempio. Provate il Bao di funghi di bosco, o quello con zucca e peperoncino. Ma prima di addentarli guardateli bene, fate loro una foto, mandatela agli amici, è davvero arte culinaria. E poi, andando all’opposto, non fatevi sfuggire la cosa apparentemente più semplice della carta, una banale insalata di spinacino con salsa goma: dà dipendenza. I miei preferiti: il sashimi di manzo tataki, il Drunken Chicken e il branzino cileno. Da applausi a scena aperta a Werner Seebach, creatore del concept, e all’head chef Giordano Gianforchetti. Ambiente molto gradevole, luci morbide ma che ti fanno ben vedere cos’hai nel piatto, due tavoli fronte cucina per ammirare anche la maestria della brigata.

La proposta di Yezi all’art’otel di Roma. Foto: press
La lista dei vini è minimal ma di livello, semplicemente perché per accompagnare il menu di Yezi (a proposito, ci sono anche dei set con cui poter degustare un’ampia gamma della carta) è molto meglio un sake, magari un Hatsumago Yukikoibana, sparkling davvero notevole, o magari un cocktail. E qui entriamo nel regno di Alessandro Mannello, responsabile dell’area bar del gruppo, e del Mixologist Gianluca Mantovani. Una scelta ricercata, di gusti e di materie prime. Essendo un grande amante del Negroni, ho provato il Via Cassia, con Gin Malfy, Bitter Gagliardo e vermouth di Garbata, quest’ultimo Made in Rome. Notevole. Se poi amate i distillati, c’è un’ottima scelta, soprattutto di gin, whisky giapponese e mezcal.

Foto: press
Insomma, art’otel Roma val bene una messa per un soggiorno di alto livello nel centro di Roma (non sempre la Capitale mantiene le promesse in fatto di hospitality, e non è questo il caso), e Yezi ha tutte le carte in regola per diventare the “best next thing” nella scelta asian-fusion romana. Se prossimamente avete come meta una gita tra Colosseo e Fori Romani, è certamente un’ottima soluzione. Ancora migliore se viaggiate per lavoro, soprattutto nel periodo primaverile, con la possibilità di avere sul tavolo della terrazza di Yezi il computer e un calice di Franciacorta. E naturalmente il sole e la brezza della Città Eterna che offrono conforto. Ho provato: c’è di peggio nella vita.