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Woodstock come momento politico fondamentale

Che legame c'è tra politica e marketing? Lo racconta 'Chi mi ama mi voti' (Guerini e Associati) il nuovo saggio di Lorenzo Incantalupo e Domenico Petrolo. Ne pubblichiamo un estratto

Woodstock come momento politico fondamentale

Il pubblico di Woodstock '69

Foto: John Dominis, The LIFE Picture Collection via Getty Images

Non possiamo sapere cosa sarebbe la politica odierna senza il marketing, ma di certo possiamo imparare a conoscere e comprendere come il marketing abbia influenzato, e influenzi ancor oggi sempre più intensamente, la politica. A guidarci in questo percorso di scoperta vengono in nostro soccorso Domenica Petrolo – già coordinatore di campagne politiche e fondatore e presidente della società di consulenza strategica Nina – e Lorenzo Incantalupo – manager che nel proprio curriculum vanta collaborazioni con MTV, Nickelodeon, Disney e molti altri – con il loro Chi mi ama mi voti. Storie, riflessioni e dialoghi su marketing e politica saggio edito da Guerini e Associati da oggi in libreria.

I due esperti – tra pop e divulgazione – hanno raccolto le testimonianze dirette dei protagonisti della politica e culturale degli ultimi trent’anni, da Oliviero Toscani ad Antonio Palmieri, da Rocco Casalino a Filippo Sensi, da Luca De Gennaro a Nadia Oliviero, da Luigi Di Gregorio a Benedetta Frucci, da Raffaele Nevi a Chiara Geloni, da Francesco Nicodemo ad Alessio De Giorgi e molti altri ancora. Come scrive Paolo Iabichino nella postfazione, Chi mi ama mi voti è «Un libro che ci ha parlato di politica, anzi no, è un libro, un libro bellissimo, che ci ha parlato di pubblicità. E se una cosa non contraddice l’altra, è evidente che forse un libro così era più che mai urgente e necessario».

Per l’occasione condividiamo un estratto del dialogo tra i due con Luca De Gennaro, già al lavoro con Mtv, Radio Capital, Radio Rai e molto altro, sul tema Woodstock e politica.

Woodstock è stato un momento politico importantissimo

Incontriamo Luca a Milano. Il bar che ci ospita si chiama «Caffè in diretta» e si trova tra la sede Rai di corso Sempione e la sede di Radio Deejay e Radio Capital in via Massena.

«Questo è il bar dove Walter Veltroni, allora candidato premier, ha incontrato George Clooney», ci racconta Luca.

Che rapporto c’è tra musica e politica?
Le prime cose che mi vengono in mente sono le cose americane, nel senso che il mondo della politica e il mondo della musica sono sempre andati a braccetto, partendo dal tema dei diritti civili. Già dagli anni Sessanta i vari Martin Luther King e Malcolm X avevano dei riferimenti musicali vicini a loro. Però diciamo che il migliore esempio di come la politica americana ha iniziato a utilizzare la musica è stato con Obama: il mondo dell’arte e della comunicazione ha davvero lanciato la stella di Barack Obama. Una rivista come Rolling Stone, che è una rivista musicale, ma anche di costume e cultura, ha sempre preso posizione e dato la copertina a quello che, secondo loro, era il candidato giusto come residente degli Stati Uniti. Bill Clinton prima e Barack Obama poi ebbero entrambi la copertina su Rolling Stone.

Un’altra cosa: se pensate alla differenza tra chi era all’evento inaugurale di Barack Obama e chi otto anni dopo lo era a quello di Trump è pazzesca. Da Obama c’erano tutti i più grandi: da Bruce Springsteen a Pete Seeger, per non parlare poi degli afro-americani, Stevie Wonder in testa…Da Trump sembrava una barzelletta: non trovava nessuno che suonasse alla cerimonia di insediamento perché la musica, l’arte, non c’entrava nulla con Donald Trump.

Diciamo che Obama ha sempre favorito gli eventi musicali, come ad esempio il Kennedy Center Honors, una serata annuale che premia l’eccellenza di un grande musicista – un anno sono i Led Zeppelin, un anno è Carole King –, e Barack Obama è sempre stato presente con la moglie. Lì tu vedi chiaramente che un presidente degli Stati Uniti d’America utilizza il mondo della musica e della comunicazione per il suo profilo.

E in Europa invece?
Beh, in Inghilterra c’è stata la lotta furibonda della musica ca inglese contro la politica, fin dai tempi dei Sex Pistols che facevano canzoni contro la Regina, chiamandola fascista. Per tutto il periodo della Thatcher, soprannominata appunto la «Lady di ferro», fu osteggiata da tutto il mondo della musica.
Poi arriva Tony Blair che invita Noel Gallagher degli Oasis a Downing Street e quello è il momento in cui si istituzionalizza la musica nel Regno Unito. E infatti per i giovani inglesi quello è stato il momento del grande tradimento. La musica alternativa era diventata la musica del potere perché Noel Gallagher entrava nel banchetto di Tony Blair. Però c’è da dire che lui era un fan del rock, aveva già un’età tale per essere uno che era cresciuto con la musica pop-rock.

Poi ci sono tutti i casi in cui le canzoni vengono addirittura utilizzate nei comizi.
Don’t Stop dei Fleetwood Mac, con il ritornello che fa «Don’t stop thinking about tomorrow», non smettere di pensare al domani, la usava Bill Clinton dopo i comizi; infatti, quando poi è stato eletto presidente li ha chiamati a suonare.

In Italia?
C’è stata meno questa cosa, ricordo un Jovanotti con Veltroni, quello sì. Lui si era proprio speso dai palchi dei suoi concerti per Veltroni. Veltroni in effetti è stato uno che nel suo momento politico si è molto accostato alla musica. Proprio perché gli piace: quando ho avuto a che fare con lui per gli eventi di MTV e lui era sindaco di Roma, ho capito che sa un sacco di musica, ha fatto delle compilation, ne sa tanto. Era molto contento quando noi gli proponevamo gli artisti per gli eventi di MTV, perché a lui piaceva l’idea di contaminarsi con loro, di averli dalla loro parte. Era proprio per una sincera vocazione.

Come ti spieghi questa predominanza di voci di sinistra sulla scena musicale?
La musica è sempre stata un veicolo di messaggi di libertà, con annesse tutte una serie di cose che si associano a essa: ad esempio il pacifismo, la lotta al razzismo. E questi messaggi sono sempre stati veicolati fin dagli anni Sessanta. Penso a Bob Dylan, penso a Woodstock. Woodstock è stato un momento politico importantissimo. Eravamo alla fine degli anni Sessanta, quindi finivano gli anni in cui c’erano stati i Beatles, la rivoluzione sessuale, la guerra in Vietnam. E lì c’era mezzo milione di giovani, ma idealmente tutti i giovani del mondo, in un prato che diceva, basta con la violenza, basta con la guerra in Vietnam, basta con il razzismo, dobbiamo essere tutti uguali, dobbiamo essere la generazione che cambierà il mondo. Ci sono stati degli anni, principalmente gli anni Sessanta, ma poi fino alla fine degli anni Settanta, in cui sinceramente i giovani erano convinti di poter cambiare il mondo. Poi qualcosa hanno fatto e quest’onda, secondo me, è andata avanti fino al movimento studentesco del ’77, che è stato fortissimo anche in Italia con l’occupazione delle università. E quella si portava dietro un’altra musica, che è il punk, che comunque era contro il «sistema». Un ribellismo che per forza va contro l’ordine costituito e il conservatorismo

Estratto da Chi mi ama mi voti, edito Guerini e Associati.