Wine bar, cafè, hypertrattorie: che fine hanno fatto i ristoranti? | Rolling Stone Italia
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Wine bar, cafè, hypertrattorie: che fine hanno fatto i ristoranti?

La ristorazione italiana contemporanea è una "vibe". Lo ha dimostrato un evento a Roma alla fine di maggio, dove la "scena" si è riunita per riconoscersi e per farci rimanere senza definizioni

trattoria

Foto: Charleen Vesin su Unsplash

Che fine hanno fatto i ristoranti? Nel ventaglio di opzioni che vanno dallo stellato all’enoteca “naturale” con piccola cucina sembra che i ristoranti, quei locali che vogliono presentarsi proprio “solo” come ristorante, siano scomparsi. Al loro posto, un vuoto imprenditoriale che è stato voracemente occupato dalle trattorie.

Contemporanee, moderne, urbane, nuove. Con il cotto o la veneziana al pavimento, il tovagliato minimale, la carta di vini naturali, i caffè speciality. Ma anche le grafiche à la page, gli shooting modaioli, la selezione di vinili. Negli ultimi dieci anni la geografia della ristorazione italiana, non solo nelle grandi città, è stata sconquassata da un’evoluzione che ha visto sparire piano piano le trattorie a conduzione famigliare, le osterie con i vini sfusi e i ristoranti con i camerieri vestiti di bianco. Un scenario postapocalittico, dal quale sono emerse nuove forme di ristorazione: le trattorie contemporanee (ma anche i wine bar rivisitati e da ultimi i listening bar). Una rivoluzione sociale oltre che enogastronomica.

La cosmogonia è conosciuta: in principio furono pochi solitari pionieri, come Trippa a Milano, le grandi insegne romane come Santo Palato, Pennestri, Trecca, Mazzo, e tanti interessanti locali fuori dalle rotte dell’alta velocità. Oggi è facile imbattersi in nuove trattorie un po’ ovunque. Lontane dalla ricerca e della cultura di quelle appena citate, sperimentano con poca fantasia una cucina che tenta di unire la tradizione delle nonne di casa – che guarda caso sono sempre ottime cuoche – con influenze orientali e tecniche virali su TikTok, in un tripudio di gyoza dai ripieni improbabili e guance cotte a bassa temperatura.

 

 
 
 
 
 
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Qualcuno che ha tentato la definizione, c’è. Nel “Manifesto della trattoria – La trattoria di oggi” consegnato durante l’evento Hypertrattoria che si è svolto a Roma dal 23 al 25 maggio, si legge che la trattoria di oggi: deve avere uno o più osti; deve possedere un’identità propria; dev’essere sempre legata al culto del prodotto e a una certa idea di territorio; costruisce un rapporto con i propri fornitori di cui è ambasciatrice; può essere a conduzione familiare, ma non per forza; dev’essere basata su un’idea di servizio informale e saper trasmettere atmosfera; non deve aspirare a essere ciò che non è; dev’essere italiana; mette al centro la convivialità e la felicità dei propri ospiti.

 

 
 
 
 
 
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Le maglie definitorie sono piuttosto larghe e aleatorie, ed è proprio questo il punto. Le trattorie di oggi si percepiscono, non si definiscono. È una vibe. Perché una Hypertrattoria è Mimì alla Ferrovia (a Napoli dal 1943), Ratanà a Milano (si definisce ristorante) e Santo Palato a Roma (il cui motto recita: this must be the trattoria)? Per le sensazioni che trasmettono, anche fuori dal menu.

 

 
 
 
 
 
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Hypertrattoria è stata una tre giorni a metà tra un festival musicale e una fiera, uno spazio in cui poter assaggiare alcune delle più interessanti realtà de noantri. Cioè, di un certo panorama gastronomico. L’evento, sui materiali informativi, si presenta come «l’evoluzione più potente e rappresentativa della ristorazione italiana, la trattoria, raccontata attraverso l’attivazione di esperienze che parlano all’Italia e al mondo, e la voce degli interpreti che stanno scrivendo la tradizione del futuro». Cucine a vista, cuochi che si aggirano tra i partecipanti, persone intente a fare storie per i social, DJ set.

Hyper starebbe dunque per l’oltre, per il di più. Più di una trattoria, oltre le trattorie, un’upgrade del concetto stesso di trattoria. Oltre i confini dei menu, degli spazi dei locali, degli arredi. Ma hyper anche nel concetto di ipertesto del digitale, di non sequenziale. Lo scriveva Ted Nelson negli anni Sessanta: «Con ipertesto intendo scrittura non sequenziale, testo che si dirama e consente al lettore di scegliere […]. Una serie di brani di testo tra cui sono definiti legami (link) che consentono al lettore differenti cammini».

 

 
 
 
 
 
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Non trovo modo migliore di riassumere il passare dal bao ripieno di genovese e salsa di alici di Cetara di Mimì alla Ferrovia ai bombolotti all’amatriciana di Trecca, e poi ancora dalle ruote pazze alla genovese di pannicolo di Mazzo, al riso giallo al salto con ragù di ossobuco di Ratanà, fino ai tortelli alla crema di Parmigiano-Reggiano di Franceschetta 58 (spin off del gruppo Francescana). Ma tanti altri sono i nomi della kermesse, da Buccia a Sabaudia e Arduino nel giro-Firenze, arrivando alla Napoli di Salumeria Malinconico e all’Abruzzo dell’Agriturismo Emilio Pepe (questi ultimi due, anche solo del nome, appariranno in un lampo come non-trattorie).

Ancora rubando qualche parola ai teorici dei nuovi media, questa volta all’americano Nicholas Negroponte, un ipertesto digitale codifica una forma dell’espressione in più rispetto rispetto ai testi che non hanno link. Nel nostro caso, queste hypertrattorie acquistano senso proprio per le connessioni, più o meno implicite, più o meno studiate, più o meno intenzionali, che tendono tra le loro filosofie. I link sono costruiti da un contesto mediatico, non a caso fatto anche di pagine Instagram, di riviste, di guide, che proprio all’interno di un ipertesto uniscono i puntini tra una polpetta di coda alla vaccinara e un lampredotto in umido.

Hypertrattoria perciò non è solo l’evento in sé, ma il presente della ristorazione (e dell’enogastronomia) italiana. È una “scena” e solo in quanto tale possiamo decodificarla: i ristoratori si confrontano, gli addetti ai lavori si riconoscono, i semplici spettatori sanno di essere parte di qualcosa di più grande, di cui leggono le storie e comprendono i simboli. Il simile riconosce il simile, come una sottocultura. Gli eventi come Hypertrattoria sono momenti in cui la scena si manifesta.

Tredici anni fa usciva I cani non sono i pinguini non sono i cani: un EP di 4 tracce, uno split-album de I Cani e Gazebo Penguin. Un inedito per ciascuna band e una cover reciproca. Un mettersi sulla mappa a vicenda, dire: ci siamo, forse sei un fan di entrambi, forse di uno solo ma così conoscerai anche l’altro, facciamo musica diversa ma abbiamo la stessa attitude. Trasmettiamo le stesse vibe, anche se raccontiamo storie e suoniamo strumenti differenti.

È la logica delle cene a quattro mani e dei takeover, delle ospitate e delle collaborazioni tra trattorie, alimentari, cantine. Feat e split album ma con vini naturali e bun di Roscioli. Le foto e i video sono quelle delle band e dei producer. Le grafiche e il merch sono le stesse che si vedevano dieci anni fa ai concerti e alle fiere delle etichette discografiche indipendenti.

Mentre Roma mangiava a Hypertrattoria, a Milano suonava il Mi Ami, festival musicale che da diciannove anni rappresenta al tempo stesso il punto di arrivo e di partenza della musica indie. Musica indie, un’altra definizione difficile da dare. Era difficile venti anni fa, figurarsi ora. Un genere? Uno stile? Un modello economico-produttivo? Di sicuro una vibe. Una scena. Le stesse che prendono testa e occhi, ancor prima del palato, quando entriamo in una trattoria contemporanea.

E infatti l’enogastronomia italiana oggi è più facile da vivere che da descrivere. Così come, a questo punto, possiamo dare per assodato che sia impossibile costruire una definizione credibile di “trattoria contemporanea”. Per alcuni, in un mondo di enotechine e listening bar, è diventato un termine ombrello usato per comodità, per riassumere locali in cui si mangia seduti, potendo scegliere da menu di primi e secondi che non siano cucinati come negli anni Sessanta. Per altri, queste due parole sono al tempo stesso baluardo e avanguardia di una cucina di prodotto e ricerca, che porta a tavola anche valori che escono dal piatto.

Nell’epoca post-ristorante, un evento come Hypertrattoria ha il merito di aprire un dibattito su cosa sia oggi, per molti, la ristorazione e non necessariamente solo con i piatti da assaggiare. Anzi. Lo fa mettendo in primo piano chef e cucinieri, valorizzando le connessioni non sempre implicite che rendono hyper questo nuovo modo di fare ristorazione. Una playlist perfetta, per definizione sempre in costruzione. Per conoscere, e riconoscere, la scena.

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