Abbiamo fatto un Gelinaz!: dovrebbe entrare come espressione nel vocabolario italiano. Per dire un atto di sovversione che ad alcuni piace chiamare radicale. Ovvero a indicare le intenzioni dello stesso: mischiare le carte su una ruota, caricare bene e lasciar andare. Vedere dove si capita, e soprattutto che cosa significa il viaggio.
Non è un’esperienza mistica ma forse l’intentio con cui era nata, be’, qualcosa di esoterico poteva averlo. Gelinaz! non è una lingua ma una crasi, stringimento del cognome di Fulvio Pierangelini, il gruppo dei Gorillaz e il poule géline, una razza quasi estinta di gallina ruspante. Il perché, ma perché no. È da Pierangelini che circa vent’anni fa parte l’impulso, o meglio: da Pierangelini e Andrea Petrini.
Petrini oggi ha un nome che precede l’uomo. Classe ’58, giornalista e autore, ma in realtà è un arbiter elegantiae. Un taste maker, uno che nella radicalità ci sguazza o meglio, uno che dalla radicalità trae un certo ossigeno. Circa vent’anni fa, gli sembrava di boccheggiare. Forse succede anche oggi, nei ristoranti di oggi, ma ci torniamo tra poco. Sta di fatto che tra i due scatta l’idea: sparigliare, movimentare, Pierangelini teme che gli copino le ricette allora è quello che daranno, esattamente, agli altri cuochi e alle persone. Nasce uno show: un gruppo di chef replica mentre Pierangelini esegue. Nel 2007 organizzano una prima cena in Francia con “al centro” una ricetta di Davide Scabin. Quello che non si vuole mai replicare, invece, è proprio Gelinaz!. Che negli anni è evoluto, è diventato una leggenda, e si è fatto collettivo impermanente. Con lo scopo, alla fine, pure di divertirsi.

Andrea Petrini (in giallo) e Nicola Bonora (in bianco). Foto: RFM Studio
«Negli ultimi anni Gelinaz! era diventato qualcosa di diverso, elefantiaco, troppo. E poi mi pareva facile: tutti volevano partecipare per scambiarsi le ricette, avere quindici minuti di gloria e due storie su Instagram. Bisognava rinascere. I cuochi sono astuti, hanno i loro trucchi, avevano preso le cose alla leggera. Bisognava… rimetterli con la brace sotto i piedi».
Petrini lo sa perfettamente, che nella tranquillità la creazione si fa di seconda mano. Allora inventa il Gelinaz! NAH BGM NOW, No Background Music Now. Perché sì, le playlist dei ristoranti di solito, lo sappiamo, non sono un granché. Ma anche perché «lo chef poi fa il deus ex machina del ristorante, e uno degli elementi che a me interessa di più quando vado al ristorante, ovvero la musica, ecco, loro non se ne curano. Quindi li volevo mettere a disagio». Allora Petrini gioca al contrario, e visto che vogliono salire in cattedra, lui ce li mette. Lasciando la curatela artistica della serata a chi starebbe ai fornelli e ai ristoratori.

Foto: RFM Studio
«Vabbè, certo, non deve diventare la sagra di paese, una mascherata». Lo vedo realizzarsi a Milano, da Motelombroso, il 31 marzo. Il formato è in tour dal 2021, sembra tanto ma per Gelinaz! è ordinaria amministrazione. Nel 2019 e 2020 era stato Stay in Tour: erano le ricette a spostarsi, non i cuochi, a favore della sostenibilità ambientale. Con lo scoppio del Covid-19 era continuato in formato Silent Voices, per adattarsi alle restrizioni internazionali. A prendere le redini a Milano sono stati Alessandra Straccamore e Matteo Mazza, alla guida di del ristorante sull’Alzaia del Naviglio Pavese. Con loro e in cucina, Nicola Bonora. Petrini stesso si limita a scegliere il “gruppo di lavoro”. Il resto, si scopre a tavola con i commensali.
E Straccamore e Mazza l’hanno toccata piano, chiamando a intrattenere un ensemble composto dal DJ Mana e da un gruppo di ballo della Sala Nera del Tempio del Futuro Perduto, storico luogo di controcultura e sperimentazione del capoluogo lombardo. Un’ora e mezza di cena garantita da un cronometro: ogni quindici minuti, il servizio di una portata e il suo consumo. Cavoli del commensale se non si dovesse finire. Sospironi di sollievo per chi, come me (ve ne parlavo qui e qui) apprezza una scansione ritmica degna di questo nome, una volta accomodata a tavola. O che, in altre parole, si è seccata di passare la propria vita al ristorante, e poi vorrebbe parlare di cinema e teatro, fare un giro al parco, e altre frivolezze.

Andrea Petrini (in giallo), Alessandra Straccamore e Matteo Mazza (in bianco). Foto: RFM Studio
Non è vietato parlare, però lo si vorrebbe. Ci viene suggerito e quasi nessuno ascolterà. Bonora decide di strizzare l’occhio o forse rientrare in quel tracciato che Petrini aveva voluto scardinare. Cioè, ci sono omaggi a Pierangelini (ceci e gamberi come seconda portata), e poi la ricreazione dell’Oreiller della Belle Aurore della boucherie Maison Verot di Parigi (il pâté di tutti i pâté en croute, foie gras d’oca e altri tagli di carne di cui nessuno rivelerà mai la ricetta fattuale, poi tartufi neri a gennaio o spugnole nei mesi autunnali), un trans géline (gambozza di volatile con artiglio che solleva scandalo e urletti), e poi Salsiccia, patate e birra; e Geranio ed elicriso come (non) dolce. Infatti Bonora si farà perdonare con un (dolce) dolce, che poi si palesa in un rotolo di stagnola ed è un kebab con crema zuccherina. Oh, sì. Questa mi sembra una cosa radicale.
Che poi, per salvaguardarla, Petrini mi sottolinea che Gelinaz! non ha mai voluto avere sponsor. Essere sostenibili con i proventi dei biglietti, ancora una volta, starà ai curatori capire come, quando, perché. Ma quindi che cos’è questa radicalità alla base di tutto? «Essere radicali è fare le cose come si vogliono fare. Senza compromessi. Che sia questo o quello, ma comunque farlo». Nel nuovo corso “senza musica di sottofondo”, ma appunto eseguita come in un live, di Gelinaz!, le delusioni per Petrini si contano sulle dita di una mano, più probabilmente su due unghie e basta.
Allora durante questo live di Mana in cui incidentalmente mangiamo, il primo piatto messo in carta da Bonora è un’insalata di seppia che arriva ricoperta di nero. Mentre taglio, bombe sonore in sottofondo ed è un commento, mi sembra, sul nostro pessimo modo di gestire le cose del mondo e nel mondo. Imboccarsi con un torcibudella importante, inizio del pasto e una fine diversa che incombe. Il volume, nonostante le persone parlassero, era davvero, radicalmente alto.

Foto: RFM Studio
«La radicalità oggi nella ristorazione può essere cercare di non copiare quello che è stato già fatto, andare per la propria strada, mirare al cuore della cosa. Basterebbe davvero poco, credo, per essere radicali. Quello che si deve fare è non scimmiottare, non andare dietro alle mode. Prendi tutte queste pinzette che vedi nei locali, le micro-porzioni… Ecco, Nicola da Motelombroso è stato un radicale perché ha deciso di servire la porzione da ristorante. Mica abbiamo mangiato poco, no?». Figurarsi, io ne ho dovuto lasciare per arrivare alla fine. «Non bisogna farsi influenzare dalla doxa».
Ma poi Petrini continua: «Vedi, si fatica a trovare gente con originalità. Vent’anni fa i cuochi uscivano dalla cucina per la prima volta, cominciavano a parlare, a mandare fuori delle idee, e allora si avevano degli stili riconoscibili. Erano Redzepi, David Chang… ma poi anche loro sono diventati quarantenni, cinquantenni e hanno cominciato a farsi portatori di questa o quell’altra idea. Sono diventati quella cosa lì e c’è chi cerca di copiarli. Questo non è bene. Quanti pasti mi ricordo in un anno di cene fuori? La risposta non è positiva».

Foto: RFM Studio
Questo tirare fuori fa parte anche di Gelinaz!. Me lo sussurra Giovanna Castelli, collaboratrice di Petrini sul progetto dal 2023, ma da sempre si occupa di progetti editoriali legati al cibo, alla cultura e al lifestyle. «Ormai è diventato un full time hobby, perché alla fine non è a scopo di lucro. Per me Gelinaz! è portare disturbo nella gastronomia tradizionale, obbligare anche chi cucina a fermarsi e pensare. Una cosa che succede di rado, oltre la composizione di un menu intendo. Si è chiusi in una stanza dal mattino alla sera. Invece bisogna uscire, scardinare. Anche perché pure io stessa posso fare un lavoro che ragiona su deadline settimanali, magari mensili. Cucinare al ristorante vuol dire avere una deadline a ogni servizio. Ed è giusto secondo me che serie e film come The Bear per esempio abbiano preso in mano la narrazione di questo aspetto di pressione costante, perché alcune componenti sono descritte con estremo realismo. È comunque un mestiere che si sta evolvendo, anche per i trend mediatici e legati ai social e alla reality tv. Ci sono sempre più storie di conversioni professionali, persone che a trent’anni “mollano tutto” e si infilano in cucina. Quindi c’è una ristorazione che cambia, ecco, e proprio per questo è importante affinare e attivare la riflessione».

Giovanna Castelli (a sinistra) e Andrea Petrini (a destra). Foto: Elena Straccamore

Foto: RFM Studio
Torniamo a Petrini per scannerizzare quest’era della ristorazione. «E chi lo sa com’è! Non lo sa nessuno, stiamo ancora capendo dove stiamo andando. Ci sono stati periodi facili da descrivere nella storia della ristorazione: la Nouvelle Cuisine, gli spagnoli, i vichinghi del Nord, e poi vedi i naturalisti, i bistrottieri, sono anni che giriamo attorno al punto senza raggiungerlo mai. Ma poi mangio e dove sono? Fa differenza se sono seduto a Hong Kong, Roma, New York? Persino Iñaki Aizpitarte, lui sì che è stato uno dei padri della bistronomie di oggi con lo Chateaubriand a Parigi, se n’è tornato a cucinare nei Paesi Baschi». Ora lo trovate al Petit Grill Basque – Chez Maya, ristorante storico di Saint-Jean-de-Luz, sembra tornato indietro forse per andare avanti, per scavallare, per lasciarsi alle spalle. Un’entrata in scena di nuovo elegante, dopo aver cambiato le cose per sempre. «Lui era un radicale vero. Se ora tutti fanno il menu degustazione, è merito suo, forse colpa sua». Ora, vedi un po’, fa solo alla carta. «Anche se ci vai tu, mettiamo, che sei amica sua (non lo sono, nda), mica ti fa un percorso a parte, il menu è quello e scegli da lì, ti fai le tue cose. Magari ti porta un piatto in più, ecco. Ed è bellissimo vedere come evolve la serata, quando apre alle 19 arrivano gli oriundi, quelli del posto, i più anziani. Man mano che continua vengono sostituiti dai più giovanni, poi i turisti e magari alle 22 gli spagnoli. Qualcuno che ha passato il confine in ritardo, che si è perso via. Perciò il ristorante è vivo, muta durante il giorno. Le cose cambiano nell’istante, nel ritmo quotidiano, e devi confrontarti con questa cosa. Oggi invece siamo abituati a prenotare un certo menu degustazione con tre, quattro mesi di anticipo. Del tutto diverso. Anche questa è radicalità, per me. Non cadere nella routine, nei modi ripetitivi di fare le cose. Ingegnarsi sul momento».

Foto: RFM Studio

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Traducendo e riassumendo, radicalità significa singolarità e ricerca della propria singolarità. Petrini descrive un presente che veleggia nelle scorie di un fallout nucleare. La detonazione è avvenuta cinquant’anni fa o forse sessanta, quando gli chef dovevano staccarsi dai cuochi e far dimenticare l’immagine di adipe, di sporco che si era appiccicata loro addosso. C’era un’iconografia da riscrivere. Dare lustro. Michelin, guide, potpourri. Ora? Ora è che l’abbiamo tirata troppo come poi sempre facciamo, e abbiamo perso il senso di questa direzione. L’abbiamo imboccata fino in fondo con il pilota automatico. È ora di porci nuovi problemi, Di tornare a non sapere che cosa sia un ristorante o che cosa sia una cucina “”interessante””, meglio dire radicale. Siamo stati decadenti abbastanza a lungo. The only way is up.
Gelinaz! in questo senso è uno studio come un altro eppure eccezionale, credo più per i germ(ogl)i che può impiantare nella testa di uno che cucina, che per il pubblico presenziante. Ma il pubblico serve, è parte della performance. «Ti dico che le guide come la 50 Best sono finite perché è da dieci anni che si sono svendute al commercio, che sono diventate un brand. Continuano ad aggiungere categorie. Ma se loro sono finiti, qualcuno di diverso prenderà il loro posto. La Michelin e la 50 Best si dicono nemiche giurate ma poi adottano le stesse logiche e passano sempre per i soldi. Come si fa a uscire dal game, levarsi dai giochi, be’, solo facendosi i fatti propri. Esistendo, a prescindere da loro, a prescindere da tutto. Ora vedi, e dico proprio ora che abbiamo la premiazione della 50 Best in Italia (succederà a Torino il 19 giugno 2025, nda), i giornalisti saranno strapazzati, li porteranno da tutto il mondo e cercheranno di mandarli ovunque in Italia, tutti per far assaggiare le migliori prelibatezze possibili. È il gioco di marketing più vecchio del mondo, bastano solo i soldi. Magari ha funzionato, magari era giusto che ne so, quindici anni fa. Ora? Ma va’. Il mondo del cibo è un circo».

Foto: RFM Studio

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C’è pure un’altra certezza, comunque: che Gelinaz! non abbia mai voluto esistere per dar da mangiare alle persone. Anzi, aggiunge Petrini, se qualcosa va storto ci si diverte pure di più. L’obiettivo non è andare lì e fare il piatto della vita, quello che resterà negli annali. A volte, prima del giro di vite, nel passato c’è chi ha “barato”, chi ha venduto biglietti sfruttando le proprie connessioni, chi di fatto si è ricreato un ambiente in cui play it safe. Altro che play it again (Sam).
«La domanda da porsi sempre è anche: per chi sto cucinando? Chi sarà il mio pubblico? È fondamentale per Gelinaz! ma anche per un locale, e spesso non la si segue. Agli scrittori, ai registi si chiede perché scrivono o fanno film, giusto? Anche i destinatari, chi hanno in mente quando si mettono a farlo. E probabilmente ti risponderanno in modo piuttosto articolato. Ai cuochi si chiede di meno e, anche a farlo, il mio parare è che pochi se lo siano mai chiesto. E quando mancano le basi di una riflessione personale su quello che si sta facendo… Soprattutto, credo che la risposta sarebbe, se fosse onesta: per un signore bianco di cinquant’anni e più a cui piace sperperare denaro con i suoi amici o con la sua famiglia. Ma quando non ci sarà più, o avrà bisogni diversi? Ai giovani che cosa rimarrà in mano? Ci si chiede mai non solo che cosa si cucina, ma per chi si cucina, quando ci si mette a cucinare?».

Foto: RFM Studio
Andrea Petrini, alla fine, vorrebbe solo non annoiarsi più, quando esce a mangiare. «Quando vado al ristorante a volte mi sento come Bill Murray nel Giorno della marmotta. Tanto più che andare a cena fuori non è che sia questa gran cosa salutare per il fisico, se poi non lo è nemmeno per lo spirito… Per anni si bevevano solo vini rossi che sapevano di legno, e ora solo vini naturali pensati freschi, per un consumo effimero, che non lasciano invecchiare la bottiglia. Lo sai già, puoi già prevedere tutto. Mi sembra che manchi la dimensione del tempo, ecco, la proiezione sul futuro. Viviamo per le esigenze del quotidiano, senza pensarci troppo. Bisognerebbe invece, alla fine, anche solo uscirne vivi».
Che grande cosa, avere un fuoco dentro. E il prossimo passo? Giovanna Castelli ricorda: «Durante un Gelinaz!, lo chef e la squadra sono addirittura usciti dal ristorante». Alla fine, lei e Petrini sono dei matchmaker. Visti i risultati, potrei mettere anche io la mia vita di tavola nelle loro mani. Di certo avrei meno difficoltà a uscire fuori a cena.