Un libro per raccontare la fine del mondo (per come lo conosciamo) | Rolling Stone Italia
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Un libro per raccontare la fine del mondo (per come lo conosciamo)

"Medusa", di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, è nato come newsletter e ora è diventato un libro che racconta i tantissimi temi che si intrecciano nell'emergenza climatica. Li abbiamo intervistati

Un libro per raccontare la fine del mondo (per come lo conosciamo)

Alexis Rosenfeld/Getty Images

Dall’ottobre del 2017, ogni due settimane, Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi si sono spremuti le meningi su un tema che soltanto negli ultimi due anni ha cominciato davvero a squarciare il velo dell’attenzione pubblica: l’impatto dell’umanità sull’ambiente e tutti i disastri che ne derivano. Inizialmente una newsletter, la loro esplorazione del tema è da poco diventata un saggio narrativo: Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo), edito da NERO. Abbiamo fatto loro qualche domanda – sull’antropocene, su come sta messa l’Italia, sull’ansia climatica, e sul ruolo che abbiamo (o non abbiamo) come individui.

Il concetto di Antropocene è al centro del vostro libro. Da quando avete cominciato a riflettere su questi temi e scrivere al riguardo, avete interpretato l’antropocene come lente attraverso cui guardare al mondo o come concetto in cui rientrano alcuni fenomeni e altri no?
Nicolò Porcelluzzi: L’antropocene definisce tutto quello che mette in relazione la presenza degli esseri umani sulla Terra e il tempo profondo. È un etichetta, e come tutte può vivere fortune alterne: nei prossimi decenni potrebbe evolvere, o cadere in disuso. Resta però la realtà fisica che descrive, una realtà dove le attività dell’uomo hanno inciso in misura irreversibile sulle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del pianeta.

Matteo De Giuli: È un termine che adottiamo, nel libro, per comodità, perché si è ormai imposto nel dibattito, ma siamo consapevoli del fatto che non sia un vocabolo neutro, è una parola molto discussa, problematica, e cerchiamo anche di raccontare perché… Quello che ci interessa però dell’ sono gli scenari e gli sguardi che si porta dietro.

Nicolò Porcelluzzi: L’immagine della lente è corretta, perché una volta consapevole della situazione in cui ci siamo cacciati, e di che mondo ci circonda, cambia il modo in cui osservi le cose. Si può osservare il mondo in tanti modi, umani e non umani, dalla geografia agli infrarossi. Parlare di Antropocene aiuta a mettere in prospettiva la visione standard di chi nasce in un paese ricco, la logica di accumulo e sfruttamento e sperpero, in qualsiasi ambito; soltanto trovando nuove parole per nuovi concetti riusciamo, se non a mettere a fuoco, almeno percepire la complessità di quello che ci circonda, come tutto è intrecciato, dall’idraulica alla filosofia alle biologia molecolare. Difficile insomma che i fenomeni possano sfuggire a questa grande lente; noi scrivendo Medusa abbiamo provato a osservare e raccontare i punti di contatto che si prestano alla nostra vista.

Come avete visto cambiare la narrazione e la discussione attorno all’ambiente e al nostro impatto su di esso in Italia da quando avete cominciato il progetto? In che aree c’è ancora lavoro da fare?
Matteo De Giuli: Ci siamo chiesti, in questi mesi, che razza libro sarebbe venuto fuori se avessimo deciso di pubblicarlo già quattro anni fa, quando invece abbiamo capito che la cosa migliore era aprire la newsletter e iniziare a scrivere di questi argomenti dandoci tempo e spazio per sperimentare, sbagliare, confrontarci con altre persone. Sarebbe stato un libro completamente diverso, sarebbe forse invecchiato molto male anche. Perché negli ultimi quattro anni, che sembrano pochi, il discorso su questi temi ha attraversato una trasformazione radicale.

Nicolò Porcelluzzi: L’avvento dei nuovi movimenti, da Fridays for future a Extinction Rebellion, ha cambiato tutto. La newsletter MEDUSA nasceva dalle nostre preoccupazioni, e dalla nostra volontà di scrivere tutto quello che ci sembrava succedere, e che a livello generalista – giornali, televisione – veniva ignorato. Eravamo mossi, inoltre, dall’esigenza di raccontare la gravità e le possibilità dell’emergenza climatica, qualcosa che in altri paesi (in altre industrie editoriali, forse più sane e meno paludate della nostra) si faceva in maniera più consistente già da tempo: parlarne, raccontare le minime basi di pensiero scientifico sufficienti a capire che non è un’ottima idea pompare ancora CO2, metano e altri climalteranti nell’atmosfera terrestre; raccontare che – nonostante la scienza sia fatta da esseri umani, e gli esseri umani a volte sbagliano – l’acqua bolle a cento gradi, se ti cade un sasso in testa fa male, se spacchi la terra per estrarre petrolio inquini, se trascuri gli scarti industriali ti ammali, eccetera.

Matteo De Giuli: Per questo quando abbiamo iniziato a scrivere sentivamo di dover avere un approccio prima di tutto divulgativo: perché certe cose erano ancora, tutto sommato, poco raccontate. Nel libro alcune di quelle parti le abbiamo tenute: raccontiamo la “scoperta” della CO2 e le complessità della scienza climatica, che dietro dati e numeri e tabelle nasconde forse una delle imprese umane collettive più grandiose di sempre. Poi, anche grazie al fiorire dei nuovi ambientalismi, certe cose – i gas serra, gli scenari a +1,5° o a +2,0°C, persino le questioni di giustizia climatica – sono entrate nel dibattito pubblico, e le abbiamo potute dare quasi per scontate, mentre scrivevamo. E questo è come se avesse liberato la parte più narrativa delle cose che abbiamo deciso di scrivere, e infatti il libro è molto letterario alla fine, sia nell’approccio alla scrittura sia nei riferimenti che cerca, che sono spesso di romanzieri e scrittori (Paolo Volponi, Anna Maria Ortese, ma anche Laura Pugno o Ben Lerner), e non solo di scienziati.

Nicolò Porcelluzzi: Non saprei dire invece dove c’è ancora lavoro da fare, direi ovunque, sempre. Resta urgente raccontare quali sono gli effetti deleteri di tutto questo “sulla gente”, come si manifesta questa crisi nella vita quotidiana, da Enna a Varese, iniziare a collegare – quando il caso lo giustifica – le disgrazie private alle politiche di governo. I telegiornali non si sono mai tirati indietro di fronte al fascino discreto di una tempesta tropicale, e di immagini del genere ne avranno in abbondanza nei prossimi anni; andrebbero però raccontate per quello che sono.

Matteo De Giuli: Adesso che la crisi climatica è finalmente uno dei temi centrali del dibattito pubblico, ci sono un paio di cose nuove dove c’è bisogno di concentrarsi però, zone grigie a cui bisogna prestare attenzione. La prima sono le nuove strategie di greenwashing, quelle campagne di comunicazione con cui molte aziende, ma spesso anche le nazioni, cercano di vendersi come verdi e pulite senza esserlo, per difendere i propri interessi ed evitare di mettersi in discussione. E poi c’è il negazionismo. Diciamo che finché in Italia si parlava poco di crisi climatica – e queste parole non circolavano neanche, anzi, si usava esclusivamente la formulazione riscaldamento globale – ecco all’epoca c’era almeno un lato positivo, se vuoi vederla così, ed era che il tema era talmente negletto che almeno di negazionisti non ce n’erano. Erano pochissimi, e spesso erano solo emuli di quelli statunitensi, legati all’area conservatrice. Adesso invece abbiamo anche noi la nostra fetta di negazionisti. Spesso tra l’altro sono bizzarramente legati ad ambienti a loro modo anti-capitalisti, “rossobruni”, e quindi non sono solo i classici negazionisti conservatori o degli ambienti di destra o degli istituti liberali. Da noi abbiamo anche questa variante italiana, forse europea, del negazionismo climatico anti-capitalista. Penso che il lavoro che dovranno fare divulgatori giornalisti e attivisti nei prossimi mesi sarà anche questo: affrontare, capire, cercare di denunciare i nuovi negazionismi e il nuovo greenwashing.


Che effetto ha avuto il fatto di riflettere sulla fine del mondo da anni sulla vostra salute mentale? L’ansia climatica ha colpito anche voi? Qualche consiglio per aggirarla o affrontarla?
Matteo De Giuli: Non ci sono soluzioni semplici e non abbiamo nessuna ricetta pronta. Possiamo dire però che riflettevamo sulla fine del mondo anche prima di Medusa, e che scrivere è stato forse, per noi, anche una sorta di rituale apotropaico, un modo imperfetto che abbiamo trovato per sublimare, tamponare, dimenticare almeno un po’ l’ansia. 

Nicolò Porcelluzzi: Sono d’accordo. L’abbiamo anche scritto: il nostro è un rituale nel buio, un canto per allontanare la paura. Medusa, nelle sue varie forme, è il nostro tentativo di affrontare la minaccia continua dell’emergenza.

Infine, l’annosa domanda: come vi posizionate nello spettro che va da “il cambiamento climatico si può fermare solo con le azioni dei singoli individui” a “non esiste consumo etico sotto il capitalismo”? Vi siete spostati al suo interno da quando avete cominciato a riflettere su questi temi?
Matteo De Giuli: A ben vedere tutto il libro è attraversato proprio da questa tensione: il racconto del conflitto tra problemi globali e quotidianità delle persone. Iniziamo nel primo capitolo citando la frase che Kafka annotò sul suo diario nell’agosto del 1914:  “La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio, lezione di nuoto”, e finiamo nell’ultimo capitolo parlando proprio di climate anxiety e di collassologia: come si reagisce quando siamo schiacciati da cose così grandi?

Per quanto riguarda in particolare la retorica che gira attorno alle “azioni dei singoli”, invece, bisogna dire una cosa: “People start pollution. People can stop it” è lo slogan coniato per la giornata della Terra negli anni Settanta da Keep America Beautiful, un’associazione che era finanziata da Coca-Cola, Pepsi, Dow Chemical e altri grandi produttori di plastica. La narrazione che si è creata negli anni attorno alle scelte individuali è stata da sempre rinforzata e sfruttata dalle grandi aziende inquinanti per scaricare le responsabilità sui consumatori e i cittadini e poter continuare a fare profitto senza assumersi alcuna responsabilità. Le scelte individuali possono fare un po’ di differenza, è vero, ma cercare soluzioni biografiche o individuali a problemi sistemici è per forza di cose un’operazione fallimentare. Bisogna cambiare come società.