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Lo Sgargabonzi vs l'analfabetismo funzionale e social: un trattatello sulla deriva della nostra epoca

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Foto: camilo jimenez on Unsplash

Non senza un po’ di amarezza mi trovo a constatare che viviamo in un’epoca in cui sta prendendo campo, insinuandosi sottopelle alla coscienza collettiva, un fenomeno straordinariamente particolare. Lo chiamerei analfabetismo. E immagino sia automatico tirar fuori dall’album della nostra memoria l’ingiallita immagine del professor Manzi, che nel programma televisivo Non è mai troppo tardi, cercava di alfabetizzare quell’Italia contadina uscita devastata dal secondo conflitto mondiale. Ma sarebbe così immaturo, così sbagliato, così – mi si passi questo aggettivo forsanco un po’ desueto – “esangue”.

L’analfabetismo di questi tempi non ha niente a che fare col non saper leggere o scrivere. Anzi, sovente è proprio d’un ceto istruito, che conosce bene i gherigli della bella scrittura e non manca certo in biro e brogliacci per praticarla. E anzi – ça va sans dire – riguarda persone che usano i social con grande disinvoltura. Un analfabetismo dal quale non sono immuni personalità di spicco della cultura (uno su tutti: Sergio Zavoli) o che occupano importanti posizioni di potere (uno più degli altri: Flaminio Piccoli). È allora che, per non incorrere in malintesi, mi azzardo ad aggettivare quel sostantivo in maniera colorita perché si capisca, senza se e senza ma, il senso vero di quella peculiare ignoranza che è struttura e insieme crepa divaricante dei nostri giorni. Lo chiamerò (mi si passi l’azzardo) “analfabetismo funzionale”.

Esso, se un tempo era un guasto da insabbiare, oggi è diventato telaio, normalità, totalmente assorbito nel nostro tessuto sociale tanto che nessuno lo riconosce più in quanto livida magagna. E anzi, se non te ne servi a tuo comodo, appari come un reietto, un lautaro, un parvenu.
E fa specie che questo deficit sia sempre venduto in abbinamento con la peggiore, più ringhiante arroganza. Del resto noi cosiddetti “boomer” dobbiamo alzare le mani e arrenderci: oggi viviamo in un’epoca “social”. C’è poco da fare. Come ho detto ai miei parenti durante il pranzo di Natale: “Cari miei, oggi non esiste più l’uomo sapiens, esiste l’uomo ‘social’”. E mio nipote Mirko (tre anni) ha fatto di sì con la testa mentre mangiava i piccolini Barilla. Negli anni ’80 quando mandavi una canzone in email a qualcuno gli dicevi “ti mando una canzone di Vasco Rossi”. Oggi invece: “sparati in vena questa song su Vasco Pratolini”. Oggi non si parla, si “twitta”. Vai in metro e sono tutti col capo chino sul loro cellulare e si dimenticano di scendere a Quintiliani. E una volta a casa? Si mangia? No, si “twitta”. Le cene si comprano su groupon. E non si pagano coi soldi ma con: “coupon”. E se un giorno ci tolgono la corrente e la linea? Ci si gode per quella giornata la vita com’era senza Internet? Si passeggia, si va a fare un rinfrescante bagno al mare, si va a prendere un caffè al largo, ci si immerge nella lettura di un bel libro I ragazzi della via Pál e affini? No, si “twitta”.

Per non parlare del wi-fi…
Amo ricordare ai miei studenti la lezione d’umiltà dell’immenso, supersonico Boccaccio, quando Internet non c’era. Nel 1357, egli poteva intitolare il suo saggio sull’Alighieri “Trattato spettacolare in laude di Dante” e nessuno gli avrebbe detto niente, tanto era di inossidabile e ierofanica perfezione. E invece no, lo intitolò: Trattatello in laude di Dante. Della serie: ma sì, non s’è fatto niente di che. Me lo immagino come giocava al ribasso coi colleghi scrittori di trattati: “Vabbè, chist’è suolo nu trattatielle…”. E i critici che gli facevano: “Ma è un capolavoro!”. E lui, impegnandosi a fingere male una sorpresa, con gli occhioni stile pornostar americana e le mani strette al petto: “Oddio… dici sul serio?!”. Madonna che odio.

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