Mentre per le vie del Formicoso il 28 di agosto mi dirigevo a Calitri per la nona edizione dello Sponz Fest di Vinicio Capossela – stavolta ci andavo apposta per sentire l’autore di un libro fantastico, Storia notturna, una decifrazione del sabba – e le curve che da Andretta portano a Calitri e lambiscono Cairano mi procuravano una piccola vertigine parossistica vestibolare che mi ben disponeva all’incontro con Carlo Ginzburg continuavo a chiedermi se aveva mai desiderato, Carlo Ginzburg, essere un benandante. O meglio, non proprio un benandante, troppo specifico e inattuale ormai, ma un estatico, ecco, uno capace di fare l’ek-stasi, di uscire fuori di sé. Poi, arrivato lì, nel ranch di Capossela trasformato in piccola Woodstock irpina, non c’è stato più bisogno di chiederglielo perché nel corso della serata Carlo Ginzburg aveva già risposto.
Todi. 20 marzo 1428. Matteuccia Di Francesco viene bruciata come strega. Perché sapeva una serie di filastrocche, e incantesimi per procurare impotenza o scongiurare gravidanza, ma soprattutto perché sapeva, “dopo essersi unta con grasso di avvoltoio, sangue di nottola e sangue di bambini lattanti”, invocare il demonio Lucibello, che le “appariva in forma di caprone, la prendeva in groppa trasformata in mosca, e veloce come il fulmine la portava al noce di Benevento dove erano radunate moltissime streghe e demoni”. Ecco: il sabba. Nel sabba, i giudici inquisitori e demonologi vedevano un “resoconto di eventi reali”. Ma già scienziati come Cardano o Della Porta, nel 1500, hanno chiaro che queste “trasformazioni in animali”, e i voli magici, e le apparizioni di dee o diavoli, sono “l’effetto della denutrizione o dell’uso di sostanze allucinatorie contenute in decotti vegetali o unguenti”. Claviceps purpurea, ergotismo, grano pazzo, amanita muscaria, rospo. Tutta la farmacopea sciamanica.
Questo volevo sapere, in realtà da Carlo Ginzburg: l’avrà avuta, una volta o l’altra, la tentazione di provare su di sé uno di questi medicamenti sciamanici? Ma queste – e perciò titubavo – sono domande che di solito non si fanno.
Ma cominciamo dall’inizio. Ginzburg muove in qualche modo dalle teorie (si dice) dilettantesche e squalificate dell’egittologa Margaret Murray, secondo cui le descrizioni del sabba, nei processi alle streghe, non sono “fandonie estorte dai giudici” né “resoconti di esperienze interiori a carattere allucinatorio” ma “descrizioni puntuali di riti effettivamente avvenuti”. La Murray ritiene che questi riti reali abbiano a che fare con un culto precristiano di fertilità, dove Diana è la dea in questione. La Murray prende sul serio le confessioni delle streghe. Ha ragione e torto al tempo stesso.
Ginzburg parte dalla scoperta di un “culto agrario di carattere estatico diffuso in Friuli tra il 1500 e il 1600”. Uomini e donne che “si autodefinivano benandanti”, in quanto nati con la camicia (ovvero avvolti nell’amnio), quattro volte l’anno erano chiamati a “combattere in spirito” armati di “mazze di finocchio” contro streghe e stregoni invece “armati di canne di sorgo”, dove la posta in palio era la fertilità dei campi. Ginzburg non ha dubbi (a differenza della Murray) sul fatto che i benandanti affrontino le loro battaglie notturne in spirito, “lasciando il corpo esanime” a casa. Dunque: esperienze estatiche, che rappresentano una variante friulana dei voli delle streghe verso il sabba. I benandanti, in particolare, la loro estasi, lo stato catalettico del corpo che resta inerte a casa, le lotte in spirito per il controllo della fertilità, somigliano straordinariamente agli sciamani, anche rispetto alla funzione sociale svolta, ovvero di protezione della comunità.
A parte i benandanti, fenomeno peculiare e locale, nell’arco di almeno tre secoli, nel corso dei processi per stregoneria celebrati tra gli inizi del 1400 e la fine del 1600, “da un capo all’altro d’Europa” cosa emerge, che genere di racconti, quali storie? Donne che di notte lasciavano mariti genitori o figli addormentati e, “in spirito”, seguivano “una turba di donne trasformate in demoni”. Da chi andavano? Da Diana, secondo l’interpretazione degli inquisitori. Loro però non avevano studiato la demonologia e non la chiamavano Diana, chiamavano la dea in capo con altri nomi: Sibillia, o Erodiade, o Madona Horiente, o semplicemente Oriente, e lei insegna, alle donne che in spirito notturno la seguono, tutte “le virtù delle erbe”, come curare malattie, sciogliere malefizi. O anche la chiamano Fortuna o meglio Richella, che significa appunto signora di ricchezza. O anche la chiamano Epona o Ebundia. Per lo più, le donne sottoposte a processo parlano di una “buona signora”, o meglio “bona domina”, così dice una delle vecchie confessate da Niccolò Cusano nel 1457, oppure, nei processi in Scozia, le donne si riferiscono a una regina delle fate, o a una regina degli elfi. Eccole, dunque: le signore che appaiono. Ginzburg conferma che a Giovanna D’Arco, il 18 marzo 1430, domandano se sa niente di gente che va per aria con le fate, e lei si limita ad ammettere di averne sentito parlare. Ecco che figure della tradizione celtica come elfi e fate (o fairy) in quei tre secoli (almeno) alimentano le narrazioni di stregoneria elaborate dai demonologi.
Ciò accade da un capo all’altro d’Europa. Se dalle regioni di tradizione celtica scendiamo in Sicilia, e compulsiamo una serie di processi effettuati dal Sant’Uffizio nel 1500 contro donne o perfino bambine che ammettevano di incontrarsi, più volte l’anno, con le “donne di fuori”, o le “donni di fora”, o le “donni di notti”, o la “patruni di casa”, ritroviamo lo stesso schema: donne, in estasi, che lasciano il proprio corpo catalettico a casa, e volano con donne-demoni teriantropiche, provviste di “zampe di gatto o zoccoli equini”, capeggiate da una “divinità femminile dai molti nomi”: la matrona, o la maestra, o la signora greca, o la sapiente sibilla, o la regina, che insegna alle sue seguaci come curare i “maleficiati”. Questa divinità, suppone Ginzburg, potrebbe risalire ad Artemide, che è signora degli animali, dea sempre affiancata da animali, vergine cacciatrice che (come gli sciamani) vive al confine tra la città e la selva, e essa stessa è un essere limite tra l’umano e la bestia, infatti è associata all’orsa. Scrive Ginzburg che quando una delle vecchie interrogate da Nicolò Cusano descrive Richella, a cui ha offerto qualcosa, la sua mano è pelosa, proprio come la mano di un’orsa. E dunque Artemide è mezza orsa, e una divinità celtica, Artio, richiama l’orso che in gallico è artos e in irlandese è art. Ecco che pure Artù (e la sua saga) probabilmente deriva da Artio.
Ma insomma, perché mi ha così appassionato il libro di Carlo Ginzburg e sto qui, nel ranch di Capossela a Calitri, ad ascoltare rapito il racconto di questo storico che, con un leggero K-way indosso, sembra l’unico a non patire le folate di bora irpina? Perché la sua documentatissima ricerca storica conferma che le estasi delle donne che seguono la signora sono sovrapponibili alle estasi degli sciamani siberiani o lapponi o di altri luoghi del mondo. Gli elementi, tant’è, con qualche variante, sono i soliti: volo magico, in spirito, nel mondo dei morti, o sotto forma di animale o in groppa a un animale o a qualche altro veicolo magico (il gandus ovvero il bastone sciamanico lappone si sovrappone al bastone a forma di cavallo degli sciamani burjati che si sovrappone al manico di scopa delle donne che vanno al sabba).
Ma lo stesso possiamo dire per le estasi dei lupi mannari. Altra versione, pure questa, dell’estasi sciamanica. Scrive Ginzburg che in Livonia, 1692, l’ottantenne Thiess confessa ai giudici di essere un lupo mannaro. Che tre volte ogni anno, nel giorno di Santa Lucia, di San Giovanni, e della Pentecoste, si reca con altri uomini lupi mannari sottoterra o in inferno, a battersi con gli stregoni. Perché noi siamo i cani di Dio, dice il vecchio Thiess agli inquisitori. E i cani di Dio si battono (proprio come i benandanti, proprio come gli sciamani) per garantire il buon raccolto, la fertilità dei campi. Si battono per la comunità.
Ecco dunque: esseri umani che si trasformano in canidi o felini. In tutti i luoghi del mondo, in tutti i tempi, sappiamo di metamorfosi (in estasi) di umani in lupi o in tigri o in giaguari. Gli sciamani amazzonici si trasformano in giaguari. Quelli nordamericani in iene o coyote o puma. E pure noi irpini la sappiamo lunga in fatto di lupi mannari, ogni paese ha il suo nome specifico per nominarli, pumminali li chiama Vinicio Capossela il calitrano, io che sono nativo di Guardia Lombardi (a qualche decina di chilometri in linea d’aria da Calitri) li chiamavo lupenari, a Gesualdo il paese di mia moglie li chiamano pumpenari, e così via.
Per questo non è per caso che Vinicio Capossela sia riuscito a portare Ginzburg nel suo ranch irpino, visto che, soprattutto nel disco Le canzoni della cupa, ha attinto a piene mani da Storia notturna e in generale da tutta la ricerca di Ginzburg. E al momento di presentarlo agli infreddoliti spettatori dello Sponz Fest, gli riconosce il suo debito.
Quante connessioni tra lupi mannari con altri esseri umani in metamorfosi, con i benandanti friulani, con altri simil benandanti di cui Ginzburg ci dà notizia, che insistono sul confine balcanico col Friuli: kresnik in Istria, krsnik in Croazia mogut in Dalmazia, negromanat in Bosnia, zduhač in Montenegro. Tutti (come i benandanti friulani) destinati a combattere la notte di Natale contro stregoni o vampiri per proteggere il raccolto. Ma perché a questi esseri umani gli toccava in sorte di combattere nottetempo in estasi? Perché erano nati con la camicia. Oppure perché erano nati con la coda. Oppure perché la madre era morta nel partorirli. Oppure (ma ciò riguarda i tàltos ungheresi) perché erano nati coi denti o con sei dita. Oppure (e ci allontaniamo dall’Europa fino al Caucaso) gli osseti, discendenti degli antichi sciti, devoti del profeta Elia, che ancora nell’Ottocento in caverne sciamaniche sacrificavano capre al loro profeta e si inebriavano al fumo del rhododendron caucasicum cadendo in sonno estatico, lasciavano in spirito il corpo, per andare (come gli sciamani, le streghe e i benandandi e i lupi mannari o i cani di Dio) nella terra dei morti che loro chiamano burku, sì che loro sono detti burkudzäuta. Oppure i mazzeri, o lanceri, o culpatori o culpamorti o accaciatori o tumbatori della Corsica, del Sartenais, che in sonno il loro spirito lascia il corpo in catalessi per assalire animali e ucciderli con fucile o bastone o sbranandoli perfino coi denti se non che nel momento che l’animale muore assume le sembianze di un volto conosciuto, uno della sua famiglia, o del suo paese. E quel volto in breve muore davvero. I mazzeri erano, scrive Ginzburg, “messaggeri di morte, innocenti strumenti del destino”. O nella penisola ellenica, Peloponneso, il kallikantzaros, essere teriantropico provvisto di orecchie d’asino o piede di capra o zoccolo equino o cieco o zoppo (tra poco torno sulla zoppia) o con organi sessuali giganteschi. Il kallikantzaros che deriva dai centauri, è kalos centauro ovvero bel centauro: mezzo uomo mezzo cavallo (hippokentauros) o mezzo asino (onokentauros) oppure mezzo lupo (lykokentauros).
Allora burkudzäuta osseti, benandanti friulani, lupi mannari baltici, krsnik o mogut o negromanat o zduhač balcanici, tàltos ungheresi, mazzeri corsi, kallikantzaroi ellenici e pure i pumminali d’Irpinia non sono tutti esseri umani, tipi antropologici accomunati dalla capacità di cadere in estasi, perché predestinati, predisposti, vocati all’estasi, per esser nati o con la camicia o con la coda o con sei dita o già coi denti o per aver mandato nel mondo dei morti prima del tempo la propria madre nel momento che li ha partoriti?
C’era un mio coetaneo, a Guardia. Era epilettico e ogni tanto cadeva catalettico nella piazza durante una processione dei santi o nel campo sportivo durante una partita di calcio. Aveva una mano con pelo di animale e anche sul petto, aveva come una pelle di cane cucita all’altezza del cuore. Un giorno cadde catalettico ma non si riebbe più. Dissero un infarto. Forse aveva combattuto una battaglia dall’altra parte, e aveva avuto la peggio. Questo erano soliti fare, gli sciamani lapponi o tungusi: battaglie in stato catalettico. Dove chi soccombe muore.
Ecco la differenza, aggiunge Ginzburg: la catalessi dello sciamano è pubblica. Quella del benandante, o delle streghe, o dei burkudzäuta osseti, dei lupi mannari baltici, dei krsnik o mogut o negromanat o zduhač balcanici, dei tàltos ungheresi, dei mazzeri corsi, dei kallikantzaroi ellenici sono estasi private. Ma ancora una parentesi e dopo chiudo con questa digressione che mi ha istigato la minuziosa ricerca di Ginzburg. Dicevo: la zoppia. In ogni angolo del mondo e in ogni epoca, troviamo “miti e riti imperniati sulla danza claudicante”, o in generale sulla “zoppaggine”. Perché?
Da Edipo, figlio di Laio, di cui la profezia vuole sia destinato a uccidere suo padre, suo padre Laio figlio di Labdaco, il cui significato è zoppo. Dunque Edipo, nipote dello zoppo, siccome profezia vuole debba uccidere suo padre Laio figlio di zoppo, viene abbandonato dopo la nascita e a sua volta azzopito, o meglio: “traforate le caviglie”. Di modo che, storpio, nessuno lo raccolga. Edipo è “piede gonfio”. Dunque: Piede gonfio nipote dello zoppo ha il destino di uccidere suo padre. Di questo mito d’incesto e parricidio (uccidi tuo padre scopa tua madre) cantò Jim Morrison dopo aver assunto diecimila microgrammi di Lsd? Questa storia gli era piovuta in testa da un qualche registro akashico? Edipo è l’eroe campbelliano che prima risolve l’enigma della Sfinge, un enigma che riguarda se stesso, il suo destino di zoppo, e dopo il parricidio e l’incesto conquista il regno. Qual è l’animale che al mattino cammina su quattro gambe a mezzogiorno su due e a sera su tre? Sono io: rispose Edipo alla Sfinge. Sono io, il bambino dai piedi gonfi e il vecchio col bastone.
Edipo è solo il primo di una serie di personaggi mitologici che hanno difficoltà coi piedi, con la deambulazione, eroi zoppi, claudicanti. Edipo, Giasone, Perseo, Telefo, Teseo, Achille stesso, sono feriti o malformati ai piedi e alle gambe oppure hanno un solo sandalo. Perseo che riceve da Hermes un solo sandalo magico con cui saper sconfiggere la gorgone. Pitagora con la coscia d’oro. Empedocle che si tuffa nell’Etna ma il vulcano risputa fuori un solo sandalo. L’askōliasmos, gioco in uso alle feste di Dioniso, bisognava saltellare su una gamba sola. Come le gru. Lo zoppo, scrive Ginzburg, nasconde l’archetipo dell’uomo unilaterale, o uomo dimezzato: che ha una gamba sola, o un braccio solo, o un occhio solo. A cui si rifà il monosandalo o il saltellatore su un piede solo. Perché un uomo a metà è uno spirito. Èfr uno sciamano capace di estasi e di incontrare in estasi spiriti e morti. Ibo africani e bororo amazzonici, aggiunge Ginzburg, dipingono il corpo a metà, nero e bianco, così diventano spiriti. Decifrare le fiabe magiche. Cenerentola, per esempio. Grazie al suo monosandalismo sa andare nel regno dei morti (la reggia) aiutata (lei signora degli animali) dai suoi animali di potere e dalla sua madrina (la madre morta, che dal regno dei morti la istruisce). Cenerentola è Artemide, è la dea orso, è signora degli animali. Lo stesso Biancaneve, è chiaro. O la bella addormentata. O pelle d’asino.
Gli animali, scrive Ginzburg: “Tra animali e anime, animali e morti, animali e aldilà, esiste una connessione profonda”. Gli animali sono psicopompi.
E tra gli animali: il rospo. Ricordate la molecola psichedelica più potente di tutte? La Dmt. Si ricava da varie piante. Bene, ve n’è un equivalente di derivazione animale, la 5-meo-Dmt, ancora più potente che si estrae dalla parotide di un rospo del deserto del Sonora: il Bufo Alvarius. C’è questo nesso semantico tra sciamanesimo (o stregoneria), estasi, zoppaggine, e rospo. In Francia bot è sia storpio che rospo. In Francia l’amanita muscaria si chiama fungo rospo. In Italia in Polonia in Germania in Ucraina il rospo è chiamato fata, strega, mago. L’italiano rospo probabilmente deriva dal latino haruspex, l’aruspice l’indovino etrusco.
Alla fine della lectio di Carlo Ginzburg faceva freddo, un vento freddo eppure lo avevano scritto chiaro gli organizzatori dello Sponz di portarsi giubbini e coperte che lì, in quella landa, quando viene buio, ti prendi la bronchite. Alcuni, nonostante il freddo o per colpa del freddo, vai a capire, hanno iniziato a fare una serie di domande che non rendevano certo giustizia a questo storico venuto a rendere omaggio a un musicante visionario, una ha perfino paragonato i no vax negazionisti e complottisti ai complottisti del Trecento, quelli convinti che ebrei e lebbrosi fossero diversi, questa ricerca di un capro espiatorio, mi dicevo, ma com’è che questa donna non ha capito che oggi sono i no vax il capro espiatorio, sono loro i nuovi lebbrosi, non si rende conto? ecco, questa domanda mi ha smontato, poi mi ha dissuaso un’altra risposta di Carlo Ginzburg, dove dice: io non sono un empatico, io abolirei la parola empatia (sono d’accordo, metterei una multa a chi abusa del termine) io sono per la filologia. Lì ho capito tutto. Ginzburg non ha voluto provare, immedesimarsi, sapere cosa vive un benandante quando lascia catalettico il corpo fisico e col corpo astrale (in spirito, dice Ginzburg) va a fare la sua battaglia per il raccolto. Lui ha soltanto cercato le prove.